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Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati. Nuova ediz.
Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoionornmai. Si solidificano nella dimensione della memoria di colorornche vi abitavano, fino a costituire un irriducibile elemento dirnidentità. Vivono di una loro fisicità, di una loro corposa ernmateriale consistenza. Si alimentano di uno spessore doppio ernriflesso. Pretendono non la fissità, ma al contrario ilrnmovimento, il percorso fisico e mentale di una loro continuarnriconquista.rnIn questo libro, scritto con la sapienza fine e distillatarndell’antropologo, con la tenacia del testimone e con la passionerndello scrittore, Vito Teti porta ad evidenza e ricompone perrnintero tutti i suoi percorsi di vita. L’oggetto – ma sarebbe piùrnproprio dire «il soggetto» – sono i paesi abbandonati dirnCalabria, ripercorsi col passo lento e misurato dellarnriappropriazione in ogni loro più densa e nascosta sfumatura:rncase capanne e grotte, alberi sabbie e pietre, acqua nuvole ernvento. Ma si sbaglierebbe a chiudere questo libro entro unarndimensione angustamente geografica.rnI paesi abbandonati, osserva Predrag Matvejević nellarnpostfazione a questo volume diventato di culto e giunto alla suarnquarta edizione, «sono un luogo assai più vasto della regione arncui questo libro è dedicato. Sono il luogo di una poetica». È unarnpoetica dell’abbandono e della riappropriazione che ha l’effettorndi una potente memoria di ogni luogo comune.rnVige, a proposito dei paesi abbandonati, uno strano sentimento,rnsuperficiale e compassionevole. Questi luoghi, si pensa inrngenere, non hanno senso: non hanno più senso, se mai nernhanno avuto uno. E invece, c’è un senso in questi luoghi. Unrnsenso per sentirli. Un senso per capirli. Un senso perrnpercorrerli, che è quello doppio del partire e del tornare. -
Voglia di restare. Indagine sui giovani nell'Italia dei paesi
«Su quali competenze locali fare leva e quali politiche immaginare al fine di dare spazio reale al “desiderio di restanza” che si va sviluppando tra i giovani delle aree interne?». Da decenni le aree interne italiane sono coinvolte in intensi processi di spopolamento, di rarefazione dei servizi pubblici essenziali, di impoverimento produttivo. Si tratta di tendenze ormai croniche e alquanto diffuse, che il lavoro di analisi e di proposta dell’Associazione Riabitare l’Italia ha contribuito a riportare al centro del dibattito pubblico. Nonostante il declino demografico, economico e di attenzione, le aree interne continuano ad essere luoghi vivi, dove quotidianamente si riproducono beni pubblici fondamentali per l’intero paese e dove milioni di cittadini hanno scelto di vivere e di investire le loro capacità. L’abbandono umano non è l’unica cifra di queste terre; molti decidono consapevolmente di restare; altri, seppure in misura limitata, di ritornare; e altri ancora di provare a sperimentare in questi luoghi «lontani» nuovi stili di vita, più «lenti» e connessi con la natura. La voglia di radicamento è un aspetto inedito e ancora poco esplorato, che merita di essere messo in luce perché rivela una realtà fatta di giovani che non solo non hanno lasciato i loro paesi, ma che hanno scelto di restare – o di tornare – in modo attivo. Le storie raccontate in questo libro, raccolte attraverso un’ampia ricerca quanti- qualitativa condotta su un campione di oltre tremila giovani residenti nelle aree interne dell’intera penisola, fanno emergere il desiderio di «restanza», evidenziando tanto le opportunità quanto le difficoltà che la scelta di non partire comporta. La ricerca, coordinata da Andrea Membretti e Sabrina Lucatelli, restituisce una lettura articolata del fenomeno, facendo emergere sia i fattori che minacciano le possibilità effettive dei giovani di vivere e lavorare nei propri territori di origine sia le opportunità legate a una vera e propria «capacità di restare», che richiede di essere coltivata e accompagnata da politiche in grado di rispondere alle esigenze e alle aspirazioni di chi resta. -
Il cosmo e le sfide della storia
«Noi tutti oggi esistiamo e pensiamo nell’orizzonte della storia e dei suoi destini, ma non viviamo più nell’ambito del mondo naturale. Ci manca l’unico mondo, quello che è più antico e durevole degli esseri umani. Mondo e mondo umano non sono equiparabili. Il mondo fisico può essere pensato senza fare alcun riferimento all’esistenza degli esseri umani, ma nessun essere umano è pensabile senza il mondo». Scritti nella piena maturità, questi saggi ruotano intorno a uno dei problemi oggi più dibattuti: il rapporto con «la natura – intorno a noi e in noi stessi», come Orlando Franceschelli precisa nell’Introduzione, richiamando la cruciale critica teorica mossa da Löwith a Heidegger. Löwith analizza il passaggio dalla visione greca del cosmo fisico, frutto di un’indagine ammirata e rispettosa, alla concezione del mondo come creazione di Dio – esemplare il confronto con Teilhard de Chardin – e infine allo spaesamento o nichilismo cosmologico in cui precipitano la coscienza e le società moderne che, emancipatesi dalla fede nella creazione, riducono la natura a un mero oggetto da usare a nostro piacimento. Da questi passaggi è alimentata anche la prospettiva di progresso illimitato che invece Löwith invita a riesaminare con spirito critico: senza alcuna svalutazione degli avanzamenti compiuti grazie alla scienza e alla tecnica, e senza cedere al rassegnato fatalismo con cui ormai guardiamo a un progresso tecnologico che sentiamo incombere su di noi ma i cui effetti pratici riusciamo sempre meno a controllare. Ritenuto un’anticipazione quasi profetica anche da autorevoli teologi, oggi, a cinquant’anni dalla morte di Löwith, questo richiamo a riconciliare le nostre vite e la storia con la realtà naturale – col cosmo – di cui sono parte risulta ancora più utile: un richiamo filosofico, etico-politico ed ineludibile per comprendere le sfide del presente e fronteggiare l’epocale crisi ambientale e socio-sanitaria in cui ormai è coinvolto l’intero pianeta. -
Il razzismo in cattedra. L'Università di Milano e la persecuzione degli ebrei
La persecuzione fascista contro gli ebrei fu una pagina tragica della storia italiana, a lungo rimossa dalla memoria collettiva. Si diffuse l'idea che la legislazione antiebraica fascista non fosse troppo dura e che la responsabilità degli arresti e delle deportazioni fosse esclusivamente dei nazisti. Solo con gli anni sono emersi la radicalità dell'antisemitismo fascista e il decisivo ruolo di Mussolini. Il settore da cui nel 1938 si avviò la politica persecutoria fu quello dell'istruzione, ritenuta il cardine attraverso cui plasmare la mentalità degli italiani, e un ruolo di primo piano, per elaborare e propugnare il razzismo di Stato, sarebbe stato occupato dall'università. Il libro ricostruisce l'applicazione della legislazione antiebraica all'Università di Milano, dove la svolta antisemita fascista colpì quaranta tra professori, aiuti e assistenti. In molti casi erano illustri studiosi, che avevano messo a disposizione della causa fascista il proprio sapere; personalità diverse, per età ed esperienze, le cui vite vennero tragicamente accomunate dalla persecuzione. L'autore ne ripercorre le storie, raccontando le loro carriere, l'adesione al fascismo e il rapporto con l'ebraismo; ma anche l'allontanamento dall'accademia, le scelte di vita, la ricerca della salvezza e il ritorno a guerra finita. Sono storie di privazione, di fuga, di resistenza e, purtroppo, anche di deportazione. Al termine del conflitto, molti decisero di riprendere il proprio posto, spesso al fianco di chi li aveva sostituiti, in una sorta di continuità con il passato. Così fu anche per gli studenti, il cui ritorno fu segnato dall'indifferenza con cui ripresero gli studi. Come nota Michele Sarfatti nella prefazione, il libro intreccia la storia generale alle storie dei singoli, mettendo in luce il processo di rimozione che ha caratterizzato la realtà italiana del dopoguerra e contribuendo così all'adozione di uno sguardo «democratico e sincero su quel passato». Presentazione di Massimo Castoldi. -
Contro l'inquisizione
A metà Settecento in Portogallo si verificò una situazione che aveva pochi precedenti. Si diceva che molti sacerdoti chiedessero ai fedeli che si confessavano di rivelare i nomi dei loro complici, per poterli redarguire. Si poneva tuttavia un problema: era possibile violare la segretezza della confessione per correggere chi sbagliava? E perché i vescovi non punivano i sacerdoti che si macchiavano di quei crimini? In verità, nessuno stava infrangendo il vincolo del sacramento. Dietro quelle accuse, create ad arte, si celava la volontà dell’Inquisizione di controllare il clero e limitare la giurisdizione dei vescovi, tacciati di negligenza e di scarsa sorveglianza. Non si trattava di una questione locale: in discussione c’erano gli equilibri di potere all’interno dell’istituzione ecclesiastica. Dopo che l’inquisitore di Portogallo e il patriarca di Lisbona si scagliarono contro i vescovi portoghesi, la schermaglia si estese infatti fino a Roma, suscitando un dibattito di portata internazionale. La battaglia infuriò nonostante gli sforzi di Benedetto XIV di placare gli animi, e a essere coinvolte furono personalità di spicco del panorama europeo. Tra di esse Lodovico Antonio Muratori che, ingaggiato dai vescovi, compose un’operetta latina intitolata Lusitanae Ecclesiae religio in administrando poenitentiae sacramento. Edito nel 1747, il volume ribadiva la sacralità del sigillo della confessione e condannava con sdegno le calunnie elaborate dall’Inquisizione contro l’episcopato del Portogallo. Gli inquisitori – spiegava Muratori – dovevano essere tenuti lontano dalle rivelazioni che i credenti consegnavano ai loro confessori, ed era proprio l’Inquisizione ad aver provocato i danni più gravi alla religione cristiana. Il pamphlet è ora presentato in edizione moderna e commentata. L’introduzione di Matteo Al Kalak svela i retroscena di una spy-story in cui furono coinvolti illustri gesuiti, eminenti cardinali della Curia romana, inquisitori, intellettuali e ghost writers. La traduzione, curata da Francesco Padovani, è poi arricchita da un agile apparato critico che permette al lettore di inquadrarne i contenuti all’interno del dibattito settecentesco. Ne emerge un Muratori combattivo e tenace, impegnato, al termine della sua vita, a liberare la Chiesa dalla morsa di un’Inquisizione divenuta insopportabile e sempre più pericolosa. -
La grande nevicata
La grande nevicata è una raccolta concepita in piena pandemia e plasmata dalle claustrofobie (e claustrofilie) generatesi in questo biennio, al termine segnato dalla guerra in Ucraina e dal riemerge della minaccia nucleare, dell’ombra fascista sul futuro dell’Europa. Eppure questa di Federico Italiano – voce del 1976, già affermata in Italia e In Europa – è una raccolta non schiacciata sull’oggi, un attraversamento del presente che tiene per mano la bussola della memoria, in una perenne oscillazione tra eventi, oggetti e habitat di un poeta nato in Piemonte nel pieno degli anni di piombo ma cresciuto nella generazione post-sessantottesca. Non-generazione cui è interdetto concepirsi come politica, rivoluzionaria, adulta, collettiva. Come ne “La grande nevicata del 1985” – testo centrale e title track del libro – nata dal ricordo di quella grande gelata che, dal Nord al Sud, invase l’Italia a metà anni Ottanta e resta ancora epos nello stupore di molti adulti al tempo bambini. L’eccezionalità di un evento atmosferico in grado di segnare uno spartiacque nella vita dell’io e rispetto agli eventi storici contemporanei (il “disgelo” nella Guerra Fredda, l’ascesa nel 1985 di Gorbaciov) coniugando ricordo e meteorologia, erotismo e riflessione filosofica, infanzia e vita adulta tramite un lavoro formale e consustanziale sulla memoria e i suoi oggetti infantili (il passamontagna, le tipologie di memoria della neve). Un moto perpetuo tra passato e presente capace di evidenziare le tendenze di una poesia mossa, sin dall’infanzia, più dall’intelligenza del gioco che dall’azione diretta calata negli eventi della storia. Come nel gioco “Calumet” (una sciarada che durante il lockdown diventa archeologia cognitiva), o in “Allenamento nella nebbia” (la nebbia comune denominatore che lega una corsa autunnale in un parco di Vienna agli allenamenti di calcio da ragazzo). Come in “Walkie-talkie” (ricetrasmittente dell’infanzia che funge da correlativo oggettivo del presente) o in “Yeti”, dove la “linea della neve” diviene spazio liminale tra realtà e immaginazione, infanzia e vita adulta. Autobiografia e storia. -
Scienza e bene pubblico. Cittadinanza, conoscenza, democrazia
Serve un dialogo tra cittadini, esperti e decisori politici: la cultura scientifica deve diventare strumento di democrazia. Solo negli ultimi anni abbiamo cominciato a riflettere sul rapporto tra conoscenza, decisione politica e democrazia. E dobbiamo proprio alla pandemia un’accelerazione rispetto a questi temi, quando sono emerse con urgenza una serie di questioni con cui da tempo avremmo dovuto fare i conti. Oggi il sapere scientifico è concepito sempre meno come un bene pubblico. La scienza tuttavia è un fatto sociale troppo importante per ignorarne gli effetti: ogni giorno modifica profondamente il mondo in cui viviamo; ogni azione della nostra vita – il lavoro, la salute, l’alimentazione, il tempo libero – sarebbe infatti impossibile senza ricorrere ai risultati e ai prodotti della scienza e della tecnica. Il progresso scientifico è dunque un valore fondamentale, che va costantemente nutrito di cultura democratica; solo in questo modo si può innescare un circolo virtuoso, e fare della cultura scientifica uno strumento efficace per il miglioramento sociale. Perché la conoscenza, anche la conoscenza scientifica, è un bene pubblico: solo se condivisa, solo se diffusa, solo se «partecipata» può agire concretamente come motore democratico. E in questo modo, aumentando la consapevolezza dei cittadini, sarà possibile affrontare nella maniera più corretta alcune grandi e cruciali questioni etiche che ci riguardano da vicino. Come scrive nel volume Fabrizio Rufo, la conoscenza scientifica e la decisione politica sono spesso due ambiti distanti e separati, tra i quali non intercorre una relazione stabile e continua. Ed è proprio questo che bisogna realizzare: attivare un dialogo costante tra esperti, decisori politici e cittadini. È necessario quindi a questo scopo difendere e promuovere la cultura scientifica: è questa la priorità se vogliamo allargare il perimetro dei diritti di cittadinanza e garantire il funzionamento delle stesse istituzioni democratiche. -
Lombroso e il Sud
Molto è stato scritto, e non sempre a ragione, su Cesare Lombroso e il Sud Italia. Fu un rapporto articolato, che nel corso degli anni alternò paternalismo a condanna, umana simpatia per alcuni interlocutori a incapacità di comprendere una realtà vasta, complessa e sfuggente. Di certo il Mezzogiorno, con i suoi intellettuali e i suoi problemi, rappresentò una parte rilevante della formazione ideale dell'antropologo e psichiatra veronese, così come della sua opera e della visione che guidò le sue battaglie politiche. Con uomini e donne del Sud egli infatti intrattenne una relazione molto stretta, ampiamente documentata dai carteggi e dagli scritti. In queste pagine è ricostruito il lavoro di frenologi, psichiatri, giuristi, criminologi e medici meridionali, i quali – prima, durante e dopo Lombroso – studiarono le possibili cause della criminalità e della follia, e si addentrarono in ambito giuridico, discutendo, in alcuni casi, la legittimità della punizione o ipotizzando possibili riforme: alcuni precorsero i temi che Lombroso avrebbe poi sviluppato, influenzandolo; altri furono suoi compagni di viaggio e ne risultarono a loro volta suggestionati; altri ancora cercarono di rinverdire le declinanti fortune postume dell'antropologia criminale. Quindi, focalizzando l'attenzione sul lavoro di Lombroso – grazie all'esame dei suoi scritti, così come dei reperti umani e dei materiali iconografici conservati nel Museo Lombroso, e soprattutto alla luce delle ricerche sul campo e agli studi su brigantaggio, mafia e camorra – è affrontata in maniera circostanziata e obiettiva la spinosa questione di quello che, da Colajanni e da Gramsci in poi, spesso è stato sbrigativamente denunciato come «razzismo» lombrosiano. Dagli interessi spiritici al determinismo climatico, dal tema del cannibalismo alla letteratura dialettale (da cui la collaborazione a distanza con Giuseppe Pitrè), il volume offre un ritratto a tutto tondo di quello che da molti è considerato il padre della moderna criminologia, figura discussa e discutibile, ma non ignorabile, del pensiero scientifico italiano. -
Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico
Se si entra oggi in una libreria, è arduo trovare una sezione, anche piccola, dedicata all’architettura e alle sue storie. Non solo, ma quei pochi libri che si trovano sono monografie o studi di esempi particolari e inediti di opere per lo più sconosciute. Ma forse l’architettura non è quella che oggi si presenta. La specializzazione ha creato enclaves che proteggono studiosi accaniti di «particolari», con le loro regole, le loro riviste, spesso un loro linguaggio all’apparenza universale, in generale un inglese quasi primitivo. L’architettura non è questa, e ancor meno lo è la sua storia. Il libro tenta, muovendosi contro le specializzazioni e i loro privilegi, di riportare l’architettura a quello straordinario insieme di idee, progetti, segni, errori, costruzioni, usi, trasformazioni, restauri, simboli, che solo se intrecciandoli restituiscono cosa è il fatto architettonico. Per abbozzare almeno questa strada, Carlo Olmo ha scelto due «scritture» di riferimento che offrissero insieme una continuità e una ricerca di un’unità dell’oggetto architettura: i Paralipomena dei Passagenwerk di Walter Benjamin e il Finnegans Wake di James Joyce. Una scelta difficile, faticosa, essenziale per mettere alla prova una scrittura e un’organizzazione unitaria. Storia contro storie è infatti una narrazione che scorre senza interruzioni e tenta di restituire la passione per un «fatto» così straordinario come l’architettura, con le sue imperfezioni che ne costituiscono le vere declinazioni. Il libro offre al lettore tre possibili percorsi: attraverso i paragrafi, il testo e le note, perché ogni fatto storico ha bisogno di fonti da indagare, di argomentazioni da costruire e di prove su cui fondare le proprie affermazioni. Andare contro un mainstream così diffuso non è comodo, ma è oggi quanto mai necessario, e non solo per la storia dell’architettura. -
Il Mediterraneo allargato, una regione in transizione. Conflitti, sfide, prospettive
Il Mediterraneo allargato è una regione politicamente e culturalmente complessa: una zona conflittuale e volatile per eccellenza, che ospita quasi il 10% della popolazione mondiale. Il CeSPI ETS ha dedicato a quest’area, quanto mai cruciale e delicata, una riflessione collettiva, coinvolgendo analisti, politici, intellettuali, docenti e ricercatori universitari, specialisti di settore e diplomatici. Ne emerge un quadro variegato, in cui analisi di scenario si alternano ad approfondimenti su problematiche o aree specifiche: dalle dinamiche migratorie, anche in relazione alla crisi ucraina, alla pervasività e alle resistenze delle identità religiose e culturali, dalla sostenibilità ambientale allo shock dei prezzi sulle materie prime prodotto dalla guerra, passando per il tema della rappresentanza e della democratizzazione istituzionale, fino alle problematiche di genere e alle delicate questioni che interessano le riforme costituzionali. Il filo rosso che lega queste riflessioni è la constatazione della rinnovata centralità del Mediterraneo, da sempre attraversato da complessi fenomeni politici e caratterizzato da trasformazioni sociali che oggi si rivelano ancora più fondamentali tanto per l’Italia quanto per l’Europa e per l’intero bacino mediterraneo. Introduzione di Piero Fassino. -
La pace al primo posto. Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984)
Passione, rigore, propensione ad anticipare i tempi e a superare steccati: ciò che ha segnato l’azione di Enrico Berlinguer nella politica italiana emerge con ancora maggior forza in campo internazionale. È quanto rivelano i discorsi, gli articoli e le interviste raccolti da Alexander Höbel in questo volume, a partire dal 1972, quando Berlinguer assume la guida del Pci. Sono gli anni degli euromissili, dell’invasione sovietica in Afghanistan, dell’escalation nucleare, della guerra in Libano; ma lo sguardo del segretario sa andare anche oltre e in profondità. Per la prima volta nella storia, intuisce, il mondo è strettamente interconnesso e il suo cuore non è più l’Occidente: è necessario cooperare con le nuove realtà emergenti, anche per il bene stesso dei paesi industrializzati, i quali solo in questo modo potranno uscire dalla crisi. Una capacità di visione che coinvolge la Cee e l’intera Europa («senza un contributo ai problemi dell’Est – afferma – non vi sarà sicurezza e sviluppo») e include l’Italia, per cui l’«austerità» qui invocata diventa strumento globale di efficienza e giustizia, per superare un sistema caratterizzato dall’individualismo più sfrenato, dal «consumismo più dissennato». Lo stesso Pci, di cui con orgoglio, in uno straordinario discorso pronunciato nel 1976 a Mosca, al congresso del Pcus, rivendica la storia all’insegna della democrazia e della libertà, deve intraprendere una «terza via» che vada oltre il modello socialdemocratico e il «socialismo reale», accogliere le spinte anticapitalistiche provenienti anche dai movimenti di ispirazione cristiana, aprirsi alle istanze ambientaliste, alle battaglie femministe. È la pace l’obiettivo su cui è costantemente focalizzato Berlinguer; una meta legata a multipolarismo e cooperazione, che si fa nelle sue parole tema spinoso e urticante, pungolo che sollecita all’azione, che impone una battaglia intransigente e a tutto campo contro le diseguaglianze, non solo economiche, perché «una pace non precaria, ma solida, duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia». -
Il genio dei semi. Nikolaj Vavilov, pioniere della biodiversità
In un dramma degno del Dottor Živago, nel quale si intrecciano scienza, amori, rivoluzioni e guerre, Peter Pringle ricostruisce la storia di Nikolaj Vavilov, lo scienziato che, agli albori della genetica, sognava di sconfiggere la fame nel mondo coltivando piante in grado di sopravvivere in ogni condizione climatica e ad ogni latitudine, nei deserti di sabbia e tra i ghiacci della tundra, e gettando così le basi per un grandioso progetto di raccolta e conservazione della biodiversità alimentare. Il progetto pionieristico di Vavilov si inscriveva nella grande utopia dei primi rivoluzionari bolscevichi, che non esitarono a finanziare le sue spedizioni nei cinque continenti alla ricerca di quelle centinaia di migliaia di semi che avrebbero dato vita a un meraviglioso museo vivente della varietà delle specie botaniche. Alla morte di Lenin, però, il sogno di Vavilov si trasformò in un incubo. La sua indipendenza di pensiero, la fedeltà alla scienza e i rapporti con studiosi di tutto il mondo ne decretarono l’emarginazione da parte degli scienziati fedeli a Stalin, che con l’aiuto della polizia segreta montarono contro di lui un corposo dossier di accuse di sabotaggio e spionaggio, impedendogli di fatto di portare avanti le sue ricerche. E così, l’uomo che sognava di sfamare il pianeta fu una delle vittime più illustri delle purghe staliniane, condannato – per una sorte tragicamente ironica – a morire di fame nelle prigioni sovietiche. Attraverso documenti inediti degli archivi dell’Urss, tra cui il dossier della polizia segreta contro Vavilov, Peter Pringle ricostruisce la trama che portò all’assassinio di questo studioso brillante e profondamente umano, vittima della demagogia anti-scientifica e della cieca ideologia. Un visionario che, come sottolinea Carlo Petrini nella prefazione al volume, già un secolo fa aveva capito che «la biodiversità agricola è la chiave per la sicurezza e la sovranità alimentare a livello mondiale». -
Alla scoperta dell'invisibile. L'incredibile storia di Alexander von Humboldt
«È stato grazie ai diari di viaggio e alle scoperte di Alexander von Humboldt se a 22 anni ho deciso di imbarcarmi come naturalista sul Beagle» – parola di Charles Darwin. E tu conosci la storia del giovane esploratore e scienziato tedesco che ha ispirato il grande Darwin? Spinto da un’irrefrenabile curiosità, Alexander von Humboldt ha solcato gli oceani, esplorato la foresta pluviale sudamericana, navigato su fiumi sconosciuti, scalato vulcani e attraversato la steppa siberiana. E, come se non bastasse, nel corso di queste avventure in giro per il mondo raccoglieva esemplari di piante, insetti, rocce e ogni piccola cosa utile a capire quella che lui chiamava la “rete della vita”, perché già due secoli fa aveva intuito che in natura tutto è connesso e ogni nostra azione può avere effetti sulla Terra e sul clima. Nell’Ottocento i racconti di viaggio di questo pioniere dell’ambientalismo hanno ispirato un’intera generazione di famosi scienziati e scrittori, tra cui Darwin e Goethe, e nei salotti europei si parlava solo del giovane barone von Humboldt e delle sue spedizioni: perfino l’imperatore Napoleone era geloso della sua fama! Ma prima di compiere tutte queste imprese e di diventare una celebrità, Humboldt era stato un ragazzino curioso, che amava stare in mezzo alla natura e aveva sempre le tasche piene di piccole scoperte, rocce, legnetti, lucertole e ogni genere di insetto… E dunque è tempo di partire anche noi sulle orme del giovane Alexander, per imparare dalle sue avventure a capire meglio il nostro pianeta e i cambiamenti che sono sotto i nostri occhi. Età di lettura: da 8 anni. -
Sotto un sole metallico. La mia vita raccontata a Alessandro Portelli
27 marzo 1985. Ezio Tarantelli cancella gli appunti sulla lavagna dell’aula 3 della facoltà di Economia della Sapienza di Roma. La lezione è finita, saluta gli studenti, raggiunge il parcheggio e sale sulla sua Citroen rossa. Lo aspettano in due, gli sparano in pieno volto. Sul tergicristallo rimane la rivendicazione delle Brigate rosse. Settanta pagine per dire che il salario si difende con il fucile. Tarantelli, il brillante allievo di Franco Modigliani, il consulente del servizio studi della Banca d’Italia, il presidente dell’Istituto di studi e economia del lavoro della Cisl, l’economista che «voleva lavoro per tutti», muore così, a 44 anni, crivellato di colpi. Carole Beebe Tarantelli, psicoanalista, femminista, docente alla Sapienza e poi parlamentare, che di quell’uomo era la moglie, negli anni ha dovuto arginare il grumo di sofferenza enorme che questa tragedia le ha provocato: «Non ho avuto più indietro la mia vita. Tutto quello che avevo costruito sino a quel momento è stato spazzato via». Carole conosce Ezio Tarantelli a Cambridge nel 1966 e decide poi di seguirlo a Roma, dove la loro storia, e quella del figlio Luca, viene violentemente spezzata. In questo libro, Carole Tarantelli racconta la propria vita a un singolo ascoltatore d’eccezione, Alessandro Portelli, che si è scelta come mediatore, a metà strada fra il pubblico e il personale. Grazie all’incontro con la vita di Ezio, la vicenda biografica di Carole diventa una storia di due mondi, in cui i sobborghi di Pittsburgh, dove è nata e cresciuta, si incrociano con i quartieri e le borgate di Roma, il ’68 americano con quello italiano, il Vietnam con l’autunno caldo. Attraverso la storia di Ezio, la vita di Carole incrocia la tragedia di mezzo secolo di storia italiana. Come scrive Alessandro Portelli nell’introduzione al volume, Carole Tarantelli ha avuto «il coraggio e l’intelligenza di rispondere a una violenza demolendone la logica e lottando contro altre violenze, non da vittima ma da protagonista». -
Visioni d'Africa. Cinema, politica, immaginari
Fin dall’Ottocento l’Africa è stata per la società italiana un’immagine, i cui contorni si definivano man mano che aumentava la conoscenza di quelle terre, la curiosità dell’opinione pubblica, il mito esotico e avventuroso da esse generato. Il sogno africano degli italiani fu animato da cognizioni scientifiche e pseudoscientifiche ma anche, e forse in maniera preponderante, da suggestioni immaginifiche e fantasmatiche, da simboli e rappresentazioni che traevano origine da un bagaglio concettuale e iconografico rinvenibile in forma embrionale e vieppiù strutturata prima nella pittura e nella letteratura, e in seguito negli altri prodotti culturali che informarono il discorso pubblico e caratterizzarono la rivoluzione dei mezzi di comunicazione tra Otto e Novecento. Fra essi, il cinema nelle sue diverse espressioni appare oggi come un prisma capace di proiettare l’essenza del progetto coloniale e razziale europeo – il mito dell’impero – in maniera esemplare non solo sul grande schermo, a uso degli spettatori di un mercato cinematografico sempre più globalizzato, ma nella coscienza e nella mentalità di una popolazione occidentale che su quelle coordinate fondò il suo concetto di superiorità e dominio. Il volume prende in esame il cinema di finzione dalla sua nascita in Italia fino al 1960 e lo affronta in una prospettiva di lunga durata e transnazionale, per cogliere gli aspetti qualificanti dell’immaginario coloniale che si sviluppò nella società dell’epoca. Rilevarne le costanti e i mutamenti, le influenze provenienti dal dibattito pubblico e dalle politiche di volta in volta portate avanti dallo Stato, i punti di contatto con il discorso colonialista internazionale, permette di identificare le basi culturali e ideologiche che accompagnarono lo spettatore nel suo confronto con l’alterità africana e nella costruzione della sua identità, prima nazionale e poi coloniale, nel corso del Novecento. -
Vivere o morire di rendita. La rendita urbana nel XXI secolo
Può una città vivere di rendita? Cosa accade quando l’idea di poter vivere di rendita si diffonde come fosse una possibilità per tutti, anzi, quasi come se non ci fossero alternative? Quando i tipi di rendita, i meccanismi che la producono, le sue provenienze, i suoi intrecci sembrano moltiplicarsi, divenire sempre più dominanti rispetto ad altre forme di produzione di ricchezza e ad altre possibili relazioni sociali? Quali sono le implicazioni dell’inedita espansione delle logiche dei rentier? Nella città del XXI secolo la rendita sta assumendo un peso preponderante; non è un «dato» ma il risultato di scelte, quindi un fatto politico, imprescindibile fattore esplicativo delle trasformazioni urbane: delle logiche che le guidano, degli obiettivi verso cui tendono, degli esiti socio-spaziali che determinano, della qualità dell’ambiente costruito che producono. Ed ecco il caso di Roma: una città disegnata in profondità dalle logiche della rendita, che sempre di più vive delle sue molte rendite (a cominciare da quelle estratte dal suo immenso patrimonio storico e ambientale), in cui si è reso evidente cosa fosse o potesse essere il «capitalismo dei rentier» prima ancora che venisse chiamato con questo nome. Ma Roma non è un’eccezione: al contrario, essa può essere considerata esempio della traiettoria che un numero crescente di città e di economie urbane sta seguendo, in Italia e nel mondo, un modello fondato sulla rendita e sul suo moltiplicarsi proteiforme. In realtà, non tutti possono vivere di rendita. Le nostre città possono invece morirne. -
Acqua, Stato, nazione. Storia delle acque sotterranee in Italia
Le acque sotterranee sono una componente fondamentale delle riserve idriche del nostro pianeta, eppure questa risorsa è sottratta alla nostra percezione a differenza di quanto accade con fiumi, laghi e sorgenti. Questa condizione di «invisibilità» – che significa anche difficoltà ad averne una conoscenza quantificabile e misurabile – ha inciso sui sistemi di regolazione e persino sull’immaginario collettivo, sul nostro modo di rapportarci al suo consumo, generando una complessa interazione tra saperi esperti, tecnicalità, pratiche, tradizioni, pregiudizi e credenze. Tracciare una storia delle acque sotterranee da metà Ottocento fino al fascismo significa ripercorrere, da un’angolazione peculiare e per larghi tratti inesplorata, la storia del nostro paese. È in questo periodo, compreso tra le grandi rivoluzioni tecnico-scientifiche, industriali e agronomiche ottocentesche e la «grande accelerazione» di metà Novecento, che emerge e si definisce quel complesso intreccio di innovazioni tecnico-produttive, trasformazioni economiche ed energetiche, mutamenti culturali e conflitti sociali e politici che renderà le riserve idriche del sottosuolo quella risorsa così fondamentale per le società contemporanee. La crisi agraria e l’urbanizzazione di fine Ottocento, l’industrializzazione di età giolittiana, la mobilitazione bellica e i disegni di modernizzazione autoritaria del regime fascista fanno da sfondo al lento configurarsi dei poteri dello Stato e delle tecnocrazie nelle politiche idrauliche, alle trasformazioni agrarie e urbane, all’«anarchismo» degli usi civili e irrigui, fino alla comparsa dei primi sintomi di degrado ecologico delle falde acquifere, che si accompagnano a contraddittori esperimenti e forme di tutela. Nel complesso, il volume ricostruisce un’avvincente storia politica delle acque sotterranee, incrociando lo studio delle dinamiche sociali ed economiche con le indagini tecnico-scientifiche, in un confronto serrato con un ampio ventaglio di metodologie e discipline. -
Disuguaglianze e conflitto, un anno dopo
Tempi duri, per la sinistra italiana. I suoi rappresentanti, i suoi esponenti più significativi, i suoi gruppi dirigenti, messi a dura prova da una lunga crisi dell’economia che ha accresciuto le disuguaglianze, e da una parallela crisi della politica che ha visto svilirsi il ruolo dei partiti e crescere sempre più il divario tra governanti e governati, sono a corto di un pensiero strategico: sembrano avere smarrito il nesso tra lo studio della realtà e la sua trasformazione. Da troppo tempo manca una visione, che sappia precedere e accompagnare l’azione politica. In questo libro, incalzato dagli interrogativi che gli pone Fulvio Lorefice, Fabrizio Barca prova ad affrontare di petto il problema di una strategia d’insieme di cui si dovrebbe dotare il soggetto politico che volesse essere artefice di una trasformazione all’altezza delle sfide del presente. Tre sono i nodi principali che vengono presi in esame, alla luce della crisi determinata da Covid-19: le disuguaglianze, il conflitto e lo sviluppo. -
Ad occhi aperti. Leggere l'albo illustrato. Nuova ediz.
Esplorare l'universo dell'albo illustrato: questo il proposito del volume firmato dal gruppo di esperti e studiosi di Hamelin. Lo scopo è fornire uno strumento critico, inesistente in Italia, capace di guidare la lettura dell'albo da parte di genitori, insegnanti, bibliotecari, e semplici amanti del racconto per immagini. L'albo illustrato è un vero e proprio linguaggio, con le sue specifiche modalità di narrazione, non ancora analizzate a dovere, malgrado nel nostro tempo sia diventato cruciale saper leggere le immagini. Le importanti innovazioni del mercato editoriale italiano nell'ultimo decennio, e il dialogo sempre più stretto col panorama internazionale, hanno fatto emergere tutte le potenzialità espressive di questa forma di narrazione, che trova nella prima infanzia un destinatario privilegiato, ma che non si pone limiti in fatto di tematiche, sperimentazioni e pubblico di riferimento. Attraverso un percorso che esplora le esperienze più significative dell'editoria per l'infanzia, il libro analizza dall'interno la fisionomia dell'albo illustrato: il formato, con le sue specifiche valenze narrative, il rapporto tra parole e immagini, il ritmo e il tempo della narrazione, e la formula dei libri senza parole. Un cammino disseminato di figure: le tavole dei più grandi maestri dell'illustrazione accompagnano le puntuali incursioni degli autori nel mondo poco esplorato di un'arte che spesso resta in ombra sugli scaffali delle librerie. -
L'estate di Garmann. Nuova ediz.
È l’ultimo giorno delle vacanze estive. Le vecchie zie sono venute in visita e nell’aria c’è già l’autunno. I denti di Garmann non si muovono. Lui se li è toccati ogni giorno per tutta l’estate, ma ormai è una questione urgente. La scuola comincia domani. Garmann ha paura. Ma anche i grandi ce l’hanno, ognuno la sua... ""L’estate di Garmann"""" è il primo di una serie di libri dedicati da Stian Hole al lentigginoso biondino alle prese con la scoperta del mondo. L’estate di queste pagine sorprendenti è quella che precede l’inizio della scuola elementare, ecco perché Garmann ha tanta, ma proprio tanta paura. E l’unico modo di tenerla a bada è di scoprire se ce l’hanno anche gli altri – per esempio le tre scanzonate e attempatissime ziette che trascorrono l’estate in casa sua; oppure la mamma, provetta giardiniera; o il papà, giramondo maestro d’orchestra. E la risposta è Sì! Anche loro, i grandi, hanno un sacco di paura – chi di non riuscire più a camminare, chi di perdere la dentiera, chi di morire, e chi di allontanarsi da lui... Insomma, quando l’estate finisce e le ziette tornano in città, Garmann è pronto: la sua paura s’è fatta coraggio e l’indomani la mamma lo accompagnerà alla fermata dello scuolabus. Una storia che scopre le affinità tra le tante età della vita, con un tocco che mescola humour, poesia e tenerezza. Età di lettura: da 6 anni.""