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Il corsivo è mio
«Che ne facciamo della visione tragica della vita in cui siamo stati educati? Del tragico periodo della nostra storia? Del destino della mia patria, della mia generazione e infine del mio destino personale? Mi sembra che una risposta ci sia: la tragedia mi fu data come terreno, come base di vita: noi, nati tra il 1900 e il 1910, siamo cresciuti nella tragedia che a suo tempo è entrata in noi; per così dire l’abbiamo bevuta, ce ne siamo nutriti e l’abbiamo assimilata, ma ora che la tragedia è finita ed è iniziato l’epos, io ho il diritto, dopo aver vissuto una vita, di non prendermi troppo sul serio». Prima di giungere a «non prendersi troppo sul serio», la Berberova ha tracciato la storia della sua vita in questo libro, che apparve nel 1969 e col tempo sempre più si impone per l’intensità e la ricchezza della testimonianza. La Russia di prima, durante e dopo la rivoluzione, il mondo degli esiliati russi fra le due guerre, fra Berlino, Praga, Parigi, infine l’America, dove la Berberova è a lungo vissuta, ne sono la scena mutevole. E continuamente la vediamo attraversata da figure vivissime e disparate, fra cui riconosciamo Blok o Pasternak, la Cvetaeva o Belyj, Chodasevic o Remizov, Jakobson o Nabokov, tutti disegnati con la nettezza spavalda della narratrice. Difficile pensare un altro libro che restituisca con altrettanta precisione quell’aria del tempo, fosca e vibrante, che avvolse la vita di tanti grandi russi del nostro secolo, dispersi per l’Europa. A mano a mano che procediamo nella selva degli anni, il tempo sembra apparirci palpabilmente come quell’«ordito che non si può comperare, né scambiare, né rubare, né contraffare, né impetrare», nel quale la Berberova intesse sapientemente la sua vita, devota sin all’inizio, secondo la formula di Herzen, della «crudelissima immanenza». -
La ribellione
Fra tutti i romanzi di Joseph Roth, La ribellione (1924) è forse il più aspro e sconsolato. Siamo qui immersi nell'atmosfera torbida degli anni di Weimar. Andreas Pum, il protagonista, è un mutilato di guerra che ancora crede nell'ordine del mondo e degli uomini e sogna di gestire una rivendita di francobolli. Ma la sorte, dietro cui si maschera l'oppressione senza scampo esercitata dalla società, lo trasforma a poco a poco in un capro espiatorio, in un Giobbe inerme, costretto a riconoscere l'onnipresenza del male. È questo un estremo delle oscillazioni di Roth, al cui altro capo troveremo, alla fine, l'aura di grazia sovrana che investe La leggenda del santo bevitore. Ma i due estremi sono compresenti in tutta la sua opera, e ciascuno dà la forza all'altro. -
Contributo alla critica di me stesso
Giunto alla piena maturità della sua vita, quando già aveva scritto alcune delle sue opere maggiori, come l’Estetica e Teoria e storia della storiografia, Croce si pose un interrogativo che Goethe aveva così formulato: «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a se stesso?». Nella sua pacatezza, un interrogativo insolente: poiché presuppone, di fronte ai dati della propria esistenza, la stessa capacità di mettere a fuoco, la stessa distanza strategica dell’occhio che lo storico si conquista di fronte alle testimonianze di un’età remota. Con quella «calma» che fu l’acquisizione della maturità di Croce, ma celava in sé un costante e prezioso nutrimento di «angoscia», Croce affrontò la sfida implicita nell’interrogativo di Goethe e la vinse, stilando in pochi giorni, nell’aprile del 1915, questo Contributo alla critica di me stesso: una «autobiografia mentale» (così definita dall’autore) dove «un pathos rattenuto, una commozione non spenta ma vinta e superata» (Contini) danno alle pagine un timbro inconfondibile di verità. -
Tra don Rodrigo e don Giovanni. Scenari secenteschi
Scena di questo libro è un«età fosca»: il Seicento. Epoca di guerre e turbinosi conflitti, grande secolo dellombra e della dissimulazione, che suscitò nella letteratura e nel pensiero figure di cui non sappiamo fare a meno. Quel «teatro del mondo», dove si alternano le empie avventure di Don Giovanni e le taglienti riflessioni di Gracián, dove un infido Mazzarino mette in pratica i suoi «dogmi politici» e Retz ricorda le sue trame fallite, è ancora il nostro teatro, con un sovrappiù di tensione e di tenebra. Al Seicento ci volgiamo quando abbiamo bisogno di aggiungere, alla scena dentro di noi, «una pennellata di buio». Il Seicento, così, non è soltanto una certa epoca e i suoi testi, ma anche levocazione di quellepoca nella mente di certi posteri affini, che possono essere Stendhal o Casanova o Manzoni. Questo gioco delle riverberazioni fra i secoli non poteva incontrare orecchio più percettivo di quello di Giovanni Macchia. E, al centro di questa camera di echi, troveremo la figura del Manzoni, che in quellepoca passata non solo trovò la stoffa dei Promessi Sposi, ma lartificio formale più possente e innovatore del suo romanzo: la digressione. -
Agli dei ulteriori
«Che io sia Re, mi pare sia cosa da non dubitare. V’è in me un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico. Penso alle aquile; specie al primo dilùcolo, nel silenzio tra notte e giorno, nel freddo che anneghittisce, in mezzo al distratto sgomento dei fiori, penso ad enormi aquile, ali metalliche e sapiente malvagità di occhi...». Con questo perentorio attacco il nuovo libro di Manganelli s’apre e prende slancio per un crescendo di variazioni sul tema d’una lucida esaltazione megalomane. Un bestiario araldico, cifrario d’una cupa euforia, è evocato dalla solitudine dell’insonne che si rigira tra le lenzuola come su una pagina bianca. Il teatro di cui Manganelli ancora una volta apre il sipario per il suo spettacolo verbale è lo spazio della mente: lo popolano fantasmi che convergono tutti sull’allegoria sovrana, la morte, il più carnevalesco e il più sontuoso oggetto della nostra scenografia interiore. Ma al posto della violenza «discenditiva» e autodistruttiva dell’Hilarotragoedia, al posto dell’architettura che eleva propilei e trabeazioni su una gelida capocchia di spillo nel Nuovo commento, qui c’è la tensione energetica del raptus, il librare le ali nei cieli grandiosi della simulazione, il volo radente verso i vortici dell’assenza. Un’ossessione moltiplicatoria e deduttiva affolla le prospettive labirintiche di proliferazioni mitologiche, di moltitudini di dèi o di defunti: dèi a grappoli, dèi a gomitolo, pasta per fare dèi; oppure la popolazione sterminata dei morti, brulicanti nelle filettature d’una madrevite arrugginita, loro ricettacolo segreto, microscopico averno, o addirittura sfarinati e cotti in una focaccia d’oltretomba. Nei sei capitoli di questo libro intimamente unitario – ancorché vario al punto da inglobare un carteggio tra Amleto e la principessa di Clèves, e il già classico Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti –, l’autore non lesina sorprese, novità di timbro e d’invenzione, non meno vistose della sua caparbia fedeltà a se stesso. Il meccanismo mistificatorio funziona con la naturalezza d’un organismo vivente grazie a una particolare accensione di cui Manganelli scrittore contende il segreto al Manganelli teorizzatore della «letteratura come menzogna». Il dotto acrobata che volteggia attorno al trapezio della retorica sul vuoto atemporale dei significati potrebbe essere riconosciuto un giorno come il più fededegno collettore delle allucinazioni e dei deliri dell’io pubblico e privato in questa nostra anticamera dell’ade. -
Impressioni personali
«Si può guardare la vita da molte finestre, e nessuna è necessariamente limpida o opaca, più o meno deformante rispetto a una qualunque delle altre», scrive in queste pagine Isaiah Berlin. Quasi tutti, comunque, tendono a rimanere attaccati alla loro finestra. Berlin invece ha una suprema agilità e disponibilità nel passare dall’una all’altra, sempre con il gesto rispettoso – e intimamente interrogativo – dell’ospite di passaggio. La sua vita è uno fra i migliori esempi che possiamo ricordare di una vita plurale, capace di attraversare esperienze e mondi opposti e incompatibili rendendo giustizia a ciascuno, pronta ogni volta ad apprezzarne la peculiarità irriducibile. Nelle sue pagine, personaggi oscurati dalla loro fama come Churchill e Roosevelt, o grandi studiosi ipocondriaci e incompresi come Lewis Namier o scrittori amati e poi obliati come Aldous Huxley appaiono con la naturalezza, la precisione nel dettaglio, il tono giusto che conosciamo dai ritratti dei grandi classici. E mondi così lontani come la Oxford degli Anni Trenta, con le sue dispute roventi, e anche comiche, fra i nuovi filosofi del linguaggio, e la Russia terribile degli anni 1945-1956, dove resistevano solitarie figure come Anna Achmatova o Boris Pasternak, ci si rivelano con stupenda vivezza. A volte si direbbe che qualcuno apra la porta di casa dinanzi a noi («Anna Andreevna Achmatova aveva un aspetto imponente, gesti pacati, una nobile testa, tratti bellissimi, un po’ severi, e un’espressione di infinita tristezza»). Berlin sa capire le persone che incontra senza mai ridurle a una sua preesistente misura. Non si mette mai in primo piano, lascia che queste «impressioni personali» ci vengano incontro con il fraseggio di quelle conversazioni deliziose che talvolta risuonano in sogno, finché non vi affiora «qualcosa che non era stato detto altrove», includendo in ciò l’involontario autoritratto di una mente duttile e sapiente come pochissime altre del nostro tempo. -
Il respiro. Una decisione
Come in un’allucinazione, il diciottenne Thomas Bernhard si risveglia un giorno in «un lungo corridoio» con una «infinita serie di stanze, aperte e chiuse, popolate da centinaia se non migliaia di pazienti». È l’ospedale dove Bernhard lotterà per sopravvivere a una grave malattia polmonare. Ed è una delle più nette immagini di «inferno» che Bernhard, maestro nella precisione dell’orrore, ci abbia trasmesso. Qui, in una stanza da bagno dove una suora passa ogni mezz’ora per alzare il braccio del paziente e sentire se ancora si avverte il polso, Bernhard decide di non permettere che gli uomini della sala anatomica con le loro bare di zinco vengano a prenderlo, insieme agli altri morti, come «sgomberando un magazzino di marionette». Decide di vivere. È un momento spartiacque: nella massima inermità, la massima determinazione. Così comincia una traversata delle regioni di confine fra la vita e la morte che è diventata poi, non solo un passaggio cruciale nella vita di Thomas Bernhard, e non solo questo libro, altrettanto cruciale, ma l’opera intera di Bernhard, che qui si mostra nei suoi due gesti originari: la testarda determinazione di vivere e la conoscenza immediata, quasi tattile della morte: «Qui, in questo trapassatoio, io mi ero imposto di non abbandonarmi alla disperazione, semplicemente dovevo lasciare che la natura umana, la quale si palesava qui, come probabilmente in nessun altro luogo, con assoluta brutalità, facesse il suo corso». -
Il valzer degli addii
In una cittadina termale dal fascino démodé, otto personaggi si stringono sull'onda di un valzer sempre più vorticoso: una graziosa infermiera; un ginecologo dai molti talenti; un ricco americano (insieme santo e dongiovanni); un trombettista famoso; un ex prigioniero politico, vittima delle purghe, e prossimo a lasciare il suo paese... Un «sogno di una notte di mezza estate». Un «vaudeville nero». Le domande più serie vengono poste con una leggerezza blasfema che ci fa capire come il mondo moderno ci abbia sottratto anche il diritto alla tragedia.«C.S.: Lei non ha parlato quasi per nulla del ""Valzer degli addii"""".M.K.: Eppure è il romanzo che in un certo senso mi è più caro. Come """"Amori ridicoli"""", l'ho scritto con più divertimento, con più piacere degli altri. In un altro stato d'animo. Anche molto più in fretta.C.S.: Ha solo cinque parti.M.K.: Si fonda su un archetipo formale del tutto diverso da quello degli altri miei romanzi. È assolutamente omogeneo, senza digressioni, composto di una sola materia, raccontato con lo stesso tempo, è molto teatrale, stilizzato, basato sulla forma del vaudeville. In """"Amori ridicoli"""", si può leggere il racconto """"Il simposio"""", il cui titolo è un'allusione parodistica al Simposio di Platone. Lunghe discussioni sull'amore. Ebbene, questo """"Simposio"""" è composto in tutto e per tutto come """"Il valzer degli addii"""": vaudeville in cinque atti» (Milan Kundera, """"L'arte del romanzo"""")."" -
Capitano Ulisse
Composto di un «dramma» (Capitano Ulisse) e di un saggio (La verità sull’ultimo viaggio), questo libro ci offre una visione del mito di Ulisse riflessa nel prisma dell’intelligenza di Savinio. Ulisse è per lui personaggio congeniale e familiare – e anche il pretesto per alludere a se stesso, uomo «incompreso» per «eccesso di futilità». Troviamo molta provocazione in questi testi, a tratti una strepitosa comicità e, camuffati nella finzione mitica e scenica, molti segreti di Savinio, buttati a piene mani, come con la convinzione di non essere capito. Di fatto, Capitano Ulisse ha avuto sino a oggi una storia difficile e accidentata. Scritto nel 1925 per l’effimero Teatro d’Arte di Pirandello, venne rappresentato per la prima volta solo nel 1938, in clima ostile. Da allora, fino a oggi, l’oblio. Eppure Savinio rivendicava l’importanza della sua impresa, argomentava con vigore beffardo la necessità di sottoporre Ulisse a «quell’apparecchio di apparenza frivola e di pessima riputazione» che è il teatro, qui ribattezzato «Avventura Colorata». Oggi possiamo ben capire perché: dentro la cornice pirandelliana della pièce riconosciamo in quest’opera il Savinio più acrobatico, penetrante, il suo irresistibile talento per il grottesco borghese e, nel tempo stesso, la sua capacità di percepire le figure mitiche senza diminuirle. -
Senza domani
A Parigi, una qualche sera di uno degli ultimi anni dell’Ancien Régime, un gruppo di amici si pose la seguente questione: è possibile raccontare una storia erotica senza usare parole indecenti? Pensavano tutti di no, salvo il giovane Vivant Denon. Per dimostrare la sua tesi, Denon scrisse allora Senza domani, un racconto che oggi ci appare come un vertice della letteratura erotica. In poche pagine, con scansione impeccabile, si svolge qui una storia di seduzione, inganno e felicità, che si apre e si chiude nel corso di una sola notte. Con mano leggera e segno preciso, Denon ha afferrato, come per gioco, l’effimero erotico in tutta la sua magia. Seguiamolo, provvisti di maschera, nel «boschetto labirintico di questa avventura d’amore» e ascoltiamone subito le prime parole, se vogliamo sapere che cos’è un ritmo perfetto: «Amavo perdutamente la Contessa di...; avevo vent’anni, ed ero ingenuo; lei mi ingannò, io mi arrabbiai, lei mi lasciò. Ero ingenuo, la rimpiansi; avevo vent’anni, mi perdonò: e poiché avevo vent’anni, poiché ero ingenuo, ancora ingannato, ma non più lasciato, mi credevo l’amante più amato, e quindi il più felice degli uomini». -
L' insostenibile leggerezza dell'essere
Protetto da un titolo enigmatico, che si imprime nella memoria come una frase musicale, questo romanzo obbedisce fedelmente al precetto di Hermann Broch: «Scoprire ciò che solo un romanzo permette di scoprire». Questa scoperta romanzesca non si limita all’evocazione di alcuni personaggi e delle loro complicate storie d’amore, anche se qui Tomáš, Teresa, Sabina, Franz esistono per noi subito, dopo pochi tocchi, con una concretezza irriducibile e quasi dolorosa. Dare vita a un personaggio significa per Kundera «andare sino in fondo a certe situazioni, a certi motivi, magari a certe parole, che sono la materia stessa di cui è fatto». Entra allora in scena un ulteriore personaggio: l’autore. Il suo volto è in ombra, al centro del quadrilatero amoroso formato dai protagonisti del romanzo: e quei quattro vertici cambiano continuamente le loro posizioni intorno a lui, allontanati e riuniti dal caso e dalle persecuzioni della storia, oscillanti fra un libertinismo freddo e quella specie di compassione che è «la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia, delle emozioni». All’interno di quel quadrilatero si intreccia una molteplicità di fili: un filo è un dettaglio fisiologico, un altro è una questione metafisica, un filo è un atroce aneddoto storico, un filo è un’immagine. Tutto è variazione, incessante esplorazione del possibile. Con diderotiana leggerezza, Kundera riesce a schiudere, dietro i singoli fatti, altrettante domande penetranti e le compone poi come voci polifoniche, fino a darci una vertigine che ci riconduce alla nostra esperienza costante e muta. Ritroviamo così certe cose che hanno invaso la nostra vita e tendono a passare innominate dalla letteratura, schiacciata dal loro peso: la trasformazione del mondo intero in una immensa «trappola», la cancellazione dell’esistenza come in quelle fotografie ritoccate dove i sovietici fanno sparire le facce dei personaggi caduti in disgrazia. -
L' anello di re Salomone
Che i pesci possano essere estremamente passionali; che le tortore siano più feroci dei lupi con gli animali della propria specie; che un'oca possa credere di appartenere alla specie umana, e in particolare di essere la figlia dello scienziato che l'ha covata: ecco alcune delle sorprese che avranno i lettori di questo libro. Che cosa significhi capire gli animali moltissimi di noi lo hanno imparato dalle pagine di Lorenz. Non solo perché Lorenz è stato uno dei padri fondatori dell'etologia, ma perché Lorenz ha saputo vivere con gli animali, con una curiosità, un'affettuosità verso ogni creatura, un senso del gioco e un dono del raccontare le loro storie che mai ha manifestato così compiutamente come nell'«Anello di Re Salomone». -
Il tao della fisica
Lo scopo dichiarato del bellissimo libro di Capra è di dimostrare che esiste una sostanziale armonia tra lo spirito della saggezza orientale e le concezioni più recenti della scienza occidentale. La fisica moderna va ben al di là della tecnica, «la via – il Tao – della fisica può essere una via con un cuore, una via rivolta alla conoscenza spirituale e alla realizzazione di sé». Con uno stile piano ma appassionato, l'autore spiega al lettore da una parte i concetti, i paradossi e gli enigmi della teoria della relatività, della meccanica quantistica e del mondo submicroscopico; e, dall'altra, gli fa assaporare il fascino profondo e sconcertante delle filosofie mistiche orientali. (Giuseppe Longo, «Le Scienze») -
Il manoscritto di Missolungi
Negli ultimi tre mesi della sua vita, esausto, disilluso, con gli occhi fissi sulla palude di Missolungi, Byron evoca i molteplici fantasmi del suo passato. Il diario e le memorie si alternano e si intrecciano. E il poeta annota: «Nel corso della mia vita ho tenuto innumerevoli diari. Il primo fu a Harrow, quando mi ammalai di febbre, lultimo il settembre scorso, a Cefalonia. Ma è tempo chio parli da recessi del mio essere più profondi di questi pedestri e superficiali scarabocchi. Annoterò gli eventi della giornata (di solito tediosi e insignificanti), poi un asterisco (ho sempre amato gli asterischi, e in Persia una stella simboleggia il destino), e dopo questo asterisco casto e simbolico mi addentrerò nel passato, vagherò nella notte alla ricerca di recessi più profondi». A poco a poco, da questi «recessi», dove fiorisce una selva lussureggiante di storie, emerge la vita delluomo che forse più di ogni altro scrittore dellOttocento suscitò la curiosità appassionata dei suoi contemporanei e continua a suscitarla oggi. Maestro del mimetismo e della mistificazione, come ben sanno i lettori di Voci e di Gli asiatici, Frederic Prokosch naviga con perfetta naturalezza fra gli scogli di questa «falsa autobiografia». Prima ancora che dai più celebri episodi della sua vita amorosi, politici, letterari , riconosciamo qui Byron dal suo polso, dallandamento bizzoso, sfrontato delle sue associazioni, dal suo passo spedito, che lo spinge ad attraversare senza esitazione tutti i territori fra il grottesco e il sublime. Il manoscritto di Missolungi è stato pubblicato per la prima volta nel 1968. -
Città italiane
«Ovunque entriamo, poniamo il piede in qualche storia» scrisse Cicerone. E queste parole, che Borchardt scelse come epigrafe per il suo saggio sulla villa toscana, valgono da introduzione a tutto ciò che egli ha scritto sull’Italia come «terra non scoperta» che sta davanti agli occhi di tutti. Borchardt sa far parlare il paesaggio, e la storia dentro di esso, come se l’uno fosse la concrezione dell’altro. Forse nessuno scrittore straniero del nostro secolo ha avuto una conoscenza altrettanto intima dell’Italia, dove visse per più di trent’anni. Dalla «villa» toscana come immagine di una civiltà, a cui qui è dedicato un mirabile saggio, ai ritratti di città cariche di passato, come Pisa, Volterra, Venezia, troveremo temi che obbligano a interrogarsi sull’essenza italiana, ben difficile da cogliere, e innanzitutto per noi. Amico di Hofmannsthal, traduttore di Dante, avverso alla «conclusione paurosamente errata della tecnica», Rudolf Borchardt creò un’opera altera e solitaria, che oggi spicca più che mai per la tensione formale e il rigore della sfida che ha gettato all’intera cultura moderna, per lui informe e asfittica. L’Italia fu per lungo tempo la sua specola, dove esercitò l’arte che gli era più congeniale: quella di «sopportare la distanza», come ben illustra il saggio di Marianello Marianelli che accompagna questa edizione. -
Il principio della piramide
Il protagonista di questo romanzo è un giovane ebreo, Lionel Vainberg, che continuamente tenta di sfuggire al peso della sua famiglia e continuamente rischia di farsi schiacciare dal peso della società al di fuori della famiglia. Questa situazione angosciosa e comica si ripropone per lui con tale regolarità da provocarlo a una riflessione-ricordo che diventerà questo romanzo, prendendo il posto della sua attività preferita: quella di ricopiare con bella calligrafia i romanzi di Hermann Broch. E la prima riflessione di Lionel è dedicata al «principio della piramide»: secondo lui, infatti, dopo aver costruito le piramidi per i faraoni, gli ebrei avrebbero continuato a costruirle con «altri materiali», ormai invisibili e psicologici. Sotto il peso di quelle pietre che non possono più essere messe su una bilancia, pensa Lionel, nasce ogni ebreo. E con esse deve fare i conti, spostandole con delicatezza. -
Il giogo
Presupposto di Severino, in questa che si può ritenere come la sua opera maggiore dopo Destino della necessità (1980), è che Eschilo sia «uno dei più grandi pensatori dellOccidente». Non sarà dunque il caso, nellindagare sulle origini del pensiero occidentale, di prendere in considerazione soltanto i cosiddetti Presocratici. Rispetto a essi, il pensiero di Eschilo è altrettanto centrale. Ma la sua forma non è filosofica. Occorrerà dunque percorrere tutta la «circonferenza», che è «il linguaggio di Eschilo», per muoversi poi verso il centro, la «struttura di fondo» a cui il libro è dedicato. Questa difficile e nuova impresa obbliga a unanalisi serrata, parola per parola, e talvolta sillaba per sillaba, di alcune delle sentenze di Eschilo. Dalle quali, per la loro straordinaria pregnanza, si dirama poi unindagine che finisce per investire tutto il pensiero greco, da Parmenide ad Aristotele, e certe sue interpretazioni, come quella di Nietzsche, oltre che attraversare, seguendo una via intentata, i grandi temi della tragedia greca. -
Il consiglio d'Egitto
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782, per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dellabate Vella, maltese, e incaricato di mostrare allambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nellisola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio dEgitto, che permetterebbe labolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Così «dallansia di perdere certe gioie appena gustate, dallinnata avarizia, dalloscuro disprezzo per i propri simili, prontamente cogliendo loccasione che la sorte gli offriva, con grave ma lucido azzardo, Giuseppe Vella si fece protagonista della grande impostura». Pubblicato per la prima volta nel 1963, Il Consiglio dEgitto è in certo modo larchetipo, e il più celebrato, fra i romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia. -
Sido
Pubblicato nel 1930, quando Colette da qualche anno ripercorreva in racconto la sua vita dalla parte dellinfanzia e della madre con La casa di Claudine e La nascita del giorno , Sido segna il culmine di questo «ritorno su se stessa» e insieme loccasione per disegnare con una sola, magistrale linea il ritratto della persona che forse ha contato più di ogni altra nella vita di Colette: la madre. Sido era una donna di campagna, ricca di intelligenza e generosità, che stropicciava sempre fra le mani una foglia di verbena, e pensava a Parigi come a un astro lontano, di cui però conosceva non poco. La figlia, Colette era passata molto presto dalla sua campagna borgognona al demi-monde della metropoli. E tutta la sua vita sarà in certo modo una lettera alla madre scritta dalla città. Ma solo nella piena maturità riesce a Colette, con Sido, di dare forma immediata a questo rapporto, attraverso cui passava la linfa della sua arte, ed enunciare due domande che laccompagnarono sempre: «Dove prendeva tanta autorità, tanta sostanza, lei che dal suo circondario non usciva neanche tre volte lanno? Da dove veniva quel suo dono di definire, di penetrare, e la forma pontificale delle sue osservazioni?». -
Sulla saggezza mondana, sull'amore e sulla rinuncia
Noi non sappiamo chi fosse Bhartrhari e solo con azzardo possiamo dire quando visse (fra il I e il V secolo d.C.). Ma queste strofe Sulla saggezza mondana, sull’amore e sulla rinuncia ci sono rimaste come la fragranza stessa della civiltà indiana. Fanciulle dal seno opulento e dagli occhi di cerbiatta, sovrani rapaci, mercanti e mendicanti si alternano fuggevolmente sulla scena di questi versi. Ma una sola voce ci parla: pacata, sinuosa negli ornamenti verbali, dolcemente autorevole. E ci dice le cose più contrastanti: le donne e le loro seduzioni sono la porta dell’inferno; però è falsa saggezza quella di chi le dispregia, perché anche in paradiso ritroverà le ninfe. Il mondo è impermanente e vuoto; ma come stornare dalla mente il desiderio che vuole quelle effimere cose del mondo? E così avanti. Tutto ciò che per noi appare innanzitutto come contraddizione, per la poesia indiana era innanzitutto sequenza di «sapori» (rasa). E di sapori si compone la poesia. Bhartrhari ne dispiega un ventaglio variegato: dalle asciutte sentenze di chi conosce il corso delle cose mondane sino alle immagini sontuose di chi è inebriato dall’eros; infine, sino alle affilate sentenze di chi si è liberato dai vincoli. E, dietro a tutti questi enunciati discordanti, ritroviamo la suprema discordanza, che l’India ha affermato sin dalle origini: quella fra un assoluto inscalfibile (brahman) e l’impermanenza del mondo, dove «non vi è nulla che non sia divorato da qualcosa».