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Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane
L'autoritratto in cui Joyce ha fissato ed esorcizzato la sua giovinezza. Uno dei libri-chiave della letteratura moderna nella celebre traduzione di Cesare Pavese. -
Simboli della scienza sacra
La coppa del Graal e la lingua degli uccelli, il loto e la rosa, lo zodiaco e il polo, la montagna e la caverna, la cupola e la ruota, l'Albero del mondo e l'Albero della vita, il ponte e i nodi, il cuore e il granello di senape, la tetraktys e la bevanda dell'immortalità, l'uovo del mondo e le porte solstiziali, la Terra Santa e la Città divina - sono questi, e molti altri, i ""simboli della Scienza sacra"""" di cui Guénon ci svela e rivela i molteplici significati in questo libro insostituibile."" -
Che ci faccio qui?
In questo libro Bruce Chatwin raccolse, negli ultimi mesi prima della morte, quei pezzi dispersi della sua opera che avevano segnato altrettante tappe di una sola avventura, di tutta una vita intensa come «un viaggio da fare a piedi». Qui lo vedremo spuntare nei luoghi più disparati e fra le persone più opposte: al seguito di Indira Gandhi mentre annota un diario esilarante o in visita da Ernst Jünger, alla ricerca dello yeti o in quartieri malfamati di Marsiglia, o in Africa mentre si scatena un colpo di Stato, a cena con Diana Vreeland o con Werner Herzog nel Ghana o con un geomante cinese a Hong Kong. I numerosi lettori di Chatwin sanno che egli fu, prima ancora che un romanziere e un saggista, qualcuno che è sempre in viaggio e osserva ogni esperienza con lo sguardo penetrante di chi, a partire da qualsiasi cosa, vuole andare il più lontano possibile. Con lui riscopriamo che il tono di fondo del narratore in genere è quello del viaggiatore che si ferma a ricordare ciò che ha visto. Il timbro, lasciuttezza, licasticità della prosa di Chatwin sono stati uno dei grandi e preziosi doni letterari degli ultimi decenni. E proprio alla fine di queste pagine Chatwin ci svela, con un guizzo finale di mirabile teatralità, che dietro larte della sua prosa ha sempre operato un consiglio che una volta gli diede Noel Coward, «il Maestro»: «Non si lasci mai intralciare da preoccupazioni artistiche». Che ci faccio qui? è apparso per la prima volta nel 1989. -
Occhio di capra
«Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande» scriveva Sciascia a proposito di questo libro. Pubblicato nel 1984 e qui riproposto con l’aggiunta di altre voci, che Sciascia aveva accumulato negli ultimi anni, Occhio di capra è forse la più agile e acuta introduzione alla civiltà siciliana che possiamo leggere. Il fondo è il più ricco e misterioso: la lingua. E Sciascia la indaga amorosamente, riconoscendo nei più bizzarri modi di dire la concrezione di interi racconti, di oscure intuizioni metafisiche, di temi favolistici. Così è nato questo libro, che Sciascia intendeva anche come omaggio, derivante quasi da un eccesso di conoscenza («Ho detto che mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi»), a Racalmuto, a quell’«isola nell’isola» dove «si ama più tacere che parlare» e perciò «quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti». -
Brainstorms. Saggi filosofici sulla mente e la psicologia
Credo che quest’opera di filosofia della mente sia di grandissima importanza» ha scritto Hilary Putnam a proposito di Brainstorms. E Noam Chomsky: «Con tocco sicuro e una grande capacità di comprensione Dennett ha sottoposto ad analisi questioni che si pongono sulla frontiera dello studio scientifico della mente e del cervello – o forse già un po’ al di là di essa». Da parti ben distinte, dunque, questo libro è stato accolto come un passo decisivo in un’area dove oggi si svolge la ricerca più palpitante – la stessa che viene attraversata da Hofstadter nel suo Gödel, Escher, Bach. Ma a tutto questo va aggiunto che, pur nel rigore della sua indagine, Dennett è riuscito a dare al suo libro una forma estremamente invitante, che «obbliga il lettore a pensare», come ha scritto Ned Block. -
Opere complete. Vol. 52: Idilli di Messina-La gaia scienza-Frammenti postumi (1881-82).
Nell’estate che segue la pubblicazione di Aurora (1881) si verifica l’evento forse più profondo, certo più misterioso della vita interiore di Nietzsche: a Sils-Maria egli è come fulminato dall’intuizione dell’«eterno ritorno delle stesse cose». «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo... l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!»: se si prescinde dai frammenti postumi, questa è la formulazione più chiara tra le poche che Nietzsche stesso ha dedicato all’idea dell’«eterno ritorno», e si trova nel quarto libro della Gaia scienza. Nell’inverno 1881-82, durante il suo secondo soggiorno genovese, Nietzsche credette in un primo momento di dover continuare l’opera pubblicata l’anno avanti, e – sotto il titolo di Continuazione di Aurora – trascrisse una gran parte dei pensieri che si erano ormai venuti accumulando nei suoi taccuini e quaderni, a eccezione di quelli dedicati all’«eterno ritorno». Tra l’aprile e l’ottobre di questo anno si svolge il breve incontro con Lou von Salomé, appena ventenne. Forse trascinato da una specie di fede nella «provvidenza personale», – che egli del resto, nella Gaia scienza, definisce come un grave pericolo per gli individui di eccezione – Nietzsche crede di avere trovato, non solo una compagna per la vita, ma addirittura una discepola e una continuatrice in questa giovane donna eccezionale (che sarà una ventina d’anni dopo l’amica di Rilke, e poi l’allieva di Freud). In questo periodo di grandi speranze, egli dà forma definitiva alla nuova opera, che ormai non è più la Continuazione di Aurora, ma assume un proprio, lieto titolo: La gaia scienza. L’incontro con Lou si chiuderà nel disinganno e nell’amarezza: l’anno cominciato nella gaiezza luminosa del Sanctus Januarius genovese muore in un grigio autunno di solitudine e di inquieto errare tra Santa Margherita, Rapallo e Genova; ma proprio in mezzo a questo eccesso di delusione e desolazione Nietzsche comporrà la prima parte del suo Zarathustra. E qui il ciclo interiore di questo periodo della vita di Nietzsche si conclude: la figura di Zarathustra, infatti, era già sorta – insieme con il pensiero dell’«eterno ritorno» di cui il saggio persiano doveva diventare l’araldo –, nell’estate engadinese del 1881. Numerosi aforismi della Gaia scienza – come risulta dal nostro apparato critico – erano centrati, nella loro fase preparatoria, su Zarathustra. La gaia scienza è perciò anche un interludio, una specie di pausa gioiosa prima della tragedia: Incipit tragoedia è appunto il titolo dell’aforisma che alla fine del quarto libro annuncia esplicitamente il «tramonto» di Zarathustra, la sua discesa tra gli uomini. La gaia scienza comprende nella redazione... -
La vita è sogno. Il dramma e l'«Auto sacramental»
Il risveglio al libero arbitrio, il passaggio sconvolgente della grazia, la necessità della caduta originaria, infine la violenza imposta per natura dal cielo all’uomo, paradossalmente equilibrata dalla violenza compiuta dall’uomo contro il cielo, nel breve intervallo di sogno fra le analoghe oscurità della nascita e della morte, questi sono i segni centrali della Vita è sogno. Segni soverchianti e intrattabili, che sembrerebbero impedire quella plasticità e individuazione nel particolare che sarebbero più tardi diventate il metro della invenzione teatrale. Eppure il dramma si articola con rapidità, irrimediabile, fra barbagli di immagini, nella cornice incantata di rupi e corti remote. Abbandonando ogni rigido schematismo allegorico, Calderón si serve della teologia come della suprema macchina teatrale, l’unica che gli può permettere di congiungere nella concettosità labirintica una vicenda irripetibile e irriducibile con un modello universale e atemporale legando cioè il puro teatro a una sorta di liturgia cosmica. Egli arriva a creare questo portentoso ibrido attraverso un uso «talismanico» della parola, che in lui ci appare sempre, secondo la definizione di Walter Benjamin, come un continuo «potenziamento romantico del discorso». Così un’apparenza poetica inscalfibile, preziosa, suggella La vita è sogno, lo espone intatto da secoli a nuove letture e scoperte, forse come l’unico dramma che accetti e vinca la sfida di rappresentare in una sola immagine comprensiva l’intera estensione dell’esistenza. Pur nella puntigliosa fedeltà al testo e alla sua musicalità, la versione di Luisa Orioli riesce, come raramente accade, a essere di per sé opera di poesia. -
Il ritorno di Casanova
L'ultima avventura di Casanova, un feroce scontro tra Amore e Morte. «Nel Ritorno di Casanova il filo dell'avventura non si allenta mai, si indugia o si precipita negli eventi e la tensione è sempre alta, l'attesa non va mai perduta, e la calma delle pagine è sovrana» (Alfredo Giuliani) -
I cavoli a merenda
I cavoli a merenda, «novelle scritte e illustrate da Sergio Tofano», universalmente noto sotto lo pseudonimo Sto e quale creatore del signor Bonaventura, è per molti lettori il più incantevole libro per bambini scritto in Italia nel nostro secolo. Sono tutte storie surreali, incongrue, che prendono le mosse da un qualche evento di irrisoria gravità: linvincibile guerriero Uguccion della Stagnola che rimane prigioniero della sua armatura; la ragazza Pepita, terribilmente golosa, che si arrotola su se stessa e provoca una moda che conquista le ragazze di Montesaponetta; il re che voleva le ciliege senza nocciolo, ma fu messo a posto da un saggio famoso; langosciosa infanzia del piccolo Aniceto, a cui ciascuno dei parenti vuole imporre una istitutrice di diversa nazionalità; Mamaluch Pascià, Sultano di Muizzaiseifeim che, pur non essendo un «tiranno tiranno», impone a tutti i suoi sudditi di non dormire perché lui soffre di insonnia... Da ciascuna di queste situazioni nasce una favola e, come per ogni favola, Sto ci provvede ogni volta di un adeguato lieto fine: «Le nozze furono sontuose e da tutte le parti del regno piovvero nella reggia i regali di nozze. Perfino il boia di Stato mandò al sovrano un chilo di sapone da lui inventato per lubrificare la fune della forca». I cavoli a merenda fu pubblicato per la prima volta nel 1920. -
Lettera al mio giudice
«Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei». Così si rivolge il narratore, all’inizio di questo romanzo, al suo giudice – e insieme a ogni lettore. La storia che segue è una storia di amore e di morte, carica d’intensità, esaltazione e angoscia. È la storia di un uomo che si sente trascinato a uccidere una donna perché la ama troppo. Lo sfondo: stazioni gocciolanti di pioggia, bar, piccoli alberghi della provincia. Agente provocatore: il caso, che fa apparire una ragazza minuta, pallida, arrampicata su alti tacchi, nella vita di un medico, uomo «senza ombra», la cui esistenza, così normale, si avvicina sempre più al confine con l’inesistenza. E quella donna è l’ombra stessa, qualcosa di oscuro e lancinante al di là di ogni ragione, che conduce tranquillamente alla morte. Queste le ultime parole della confessione: «Siamo arrivati fin dove abbiamo potuto. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo voluto l’amore nella sua totalità. Addio, signor giudice». -
Una signora perduta
La «signora perduta» che sta al centro di questo romanzo vive nel vecchio West. È bellissima, nobile, affascina tutti. La vediamo attraverso gli occhi adoranti di un ragazzo che nulla ama al mondo quanto farle visita nella casa dove vive con il marito, il solido capitano Forrester, che ha costruito «centinaia di chilometri di strada ferrata nella terra dellartemisia e del bestiame, su su fin nel cuore delle Black Hills». Ai suoi occhi, come «agli occhi di tutti gli estasiati signori di mezza età che frequentavano la sua casa, qualunque cosa facesse Mrs Forrester era da gran signora, perché la faceva lei. Non riuscivano a immaginarla in una tenuta o in una situazione che la privasse del suo fascino». Tutto sembra tranquillo e armonioso, allinizio. Ma la «signora perduta» cela in sé unattrazione per qualcosa che sta tra il losco e il sordido, una sorta di perverso desiderio di degradazione. Pubblicato nel 1923, questo romanzo «prezioso, articolato con straordinaria abilità» (Edmund Wilson) è considerato da molti lopera più perfetta di questa scrittrice in cui oggi riconosciamo uno degli autori più importanti e durevoli del Novecento americano. -
Lo snobismo liberale
Questo libro dichiara di non voler «essere altro che un album di ricordi femminili e mondani, ristretti a quella esigua classe privilegiata che anche in Italia si fregiava di una coscienza di élite». Ma è ben di più: vista con gli occhi di oggi, quella élite, di cui facevano parte Hofmannsthal come Benedetto Croce, Thomas Mann come Berenson, fu l’ultimo esempio di una esile comunità culturale europea, dove le persone erano accomunate innanzitutto da certe maniere, certi gusti, certe insofferenze. Elena Croce visse la sua giovinezza all’interno di quella élite – e qui la rievoca puntando ogni volta lo sguardo sul dettaglio significativo, su quegli importantissimi sottintesi che davano il tono e oggi talvolta possono sembrare remoti. Con lucidità di memorialista, tocca tutti i punti sensibili di quel mondo e ne illumina l’interna fragilità, ma anche certi tratti di stile che invano cercheremmo intorno a noi. Lo snobismo liberale è apparso per la prima volta nel 1964. -
Incontri con Anna Achmatova (1938-1941)
Lidija Cukovskaja, figlia di un celebre storico della letteratura, conobbe la Achmatova nel 1938. A quel tempo il marito della Cukovskaja era già stato ucciso, ma lei non lo sapeva e lottava per salvarlo. Quanto al figlio della Achmatova, era stato arrestato per la seconda volta. Cominciò allora un periodo, intensissimo e desolato, in cui la Cukovskaja andò a vedere la Achmatova quasi ogni giorno. Registrava tutto nella memoria, unico rifugio: i gesti, i giudizi, le poesie, che erano materia altamente pericolosa. In quel periodo avvenne «la tremenda metamorfosi della raffinata poetessa acmeista “da camera” in altissima voce tragica attraverso cui parlavano milioni di russi resi muti dall’orrore» (Serena Vitale). Tutto questo – a partire dai dettagli quotidiani fino ai lucidissimi giudizi letterari e alle sublimi civetterie della Achmatova – si può vivere momento per momento negli Incontri, che rimarranno un’opera capitale sugli anni più neri di quell’«unico paese al mondo dove si uccide per una poesia» (Nadezda Mandel’štam). Incontri con Anna Achmatova 1938-1941 fu pubblicato in lingua russa, in Francia, nel 1976 ed è apparso in Unione Sovietica nel 1989. -
Le sorti del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli indoeuropei
Fin dal 1938, Dumézil aveva riconosciuto la celebre tripartizione delle funzioni all’interno della civiltà indoeuropea: la seconda fra queste è appunto la funzione del guerriero. Da allora, per trent’anni (il libro qui presentato è del 1969) proseguì nell’indagine sul significato di questa funzione, seguendo come sempre le piste più diverse, dall’Iran all’India, dalla Roma antica ai Germani. Ne risultò alla fine questo libro, uno fra i più ricchi e densi nell’opera di Dumézil. «Un paese che abbia perduto le sue leggende, dice il poeta, è condannato a morire di freddo. È più che possibile. Ma un popolo che non avesse miti sarebbe già morto». Con queste parole si avvia l’indagine. E presto, attraverso i miti che hanno al loro centro figure come Indra, Eracle o Thôrr, siamo obbligati a capire la complessità e l’ambiguità della figura del guerriero: essere iniziatico e mostruoso, capace di metamorfosi animali (da qui la furia del guerriero), continuamente immerso nella gloria e nella colpa. A seconda dei tratti che ogni singola mitologia esalta e illumina nella figura del guerriero, cambia l’immagine globale di una civiltà: rare volte ne abbiamo incontrato una dimostrazione eloquente come in questo libro. -
Radici ebraiche del moderno
In questi ultimi anni Quinzio è intervenuto più volte su temi urgenti del mondo moderno. E ogni volta ha voluto ritrovare in quei grovigli il filo del pensiero e dellinfluenza ebraica, nelle visioni politiche come nelle arti, nella letteratura come nelletica. Se il mondo moderno ha assunto nel tempo una certa fisionomia e forse è sul punto di perderla , questo si deve anche alla potenza di uneredità ebraica che, mischiandosi e spesso opponendosi alleredità greca, ha dato origine a forme e pensieri di ogni specie, che ne risentono in modo evidente o occulto, anche quando in apparenza la disconoscono. Ogni pensiero utopico, per esempio, prende luce dalla visione messianica. Ma anche la pretesa di leggere i sogni nasce su presupposti ebraici. E, prima di ogni altra, è la nozione stessa di «storia» che, nel senso occidentale, è segnata dallebraismo come «tempo a senso unico e senza ritorni». Mentre questa visione della storia, a sua volta, rimanda a una specifica concezione del sacro: «Non gli oggetti dello spazio, statici anche nel tempo, ma ciò che accade nella continua innovazione e imprevedibilità del tempo e non permane fisso nello spazio levento è per eccellenza sacro nellebraismo. Il sacro ebraico è pochissimo legato alle cose: le tavole della Torah, scritte dal dito di Dio, hanno potuto essere subito infrante da Mosè appena disceso dal Sinai. Il sacro ebraico è, per così dire, mobile e fluido come il tempo, non ha la struttura compatta e rigida del sacro comune alle altre grandi tradizioni religiose dellumanità. Il sacro ebraico non è atemporale, ma sinserisce in una storia, ha una storia». -
L' io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull'anima
Scelto da IBS per la Libreria ideale. «Che cos’è la mente? Chi sono io? Può la mera materia pensare o sentire? Dov’è l’anima? Chiunque si trovi ad affrontare queste domande precipita in un mare di perplessità. Questo libro vuole essere un tentativo di rivelare queste perplessità e portarle in piena luce. Vuole dunque provocare, infastidire e confondere i lettori, rendere strano ciò che è ovvio e, magari, rendere ovvio ciò che è strano».rnrn«Che cos’è la mente? Chi sono io? Può la mera materia pensare o sentire? Dov’è l’anima? Chiunque si trovi ad affrontare queste domande precipita in un mare di perplessità. Questo libro vuole essere un tentativo di rivelare queste perplessità e portarle in piena luce... vuole dunque provocare, infastidire e confondere i lettori, vuole rendere strano ciò che è ovvio e, magari, rendere ovvio ciò che è strano» (Hofstadter e Dennett). -
La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi (1983-87)
Ancora una volta, e come fosse per la prima volta, seguiamo Ceronetti nella sua perenne irrequietezza. Ma ormai i vagabondaggi nello spazio e nella mente si sono amalgamati. E anche «Il mondo si va unificando... Sì, ma nel male e in vista del male». Viaggiare è ormai unattività da «collezionista di ripugnanze». Oggi i roghi di invisibili inquisitori «ci arrostiscono con tacita, misteriosa lentezza». E non rimane allora che esercitare la pazienza, rivaleggiando vanamente con la «pazienza del tempo», che sa offrirci, in una piccola chiesa sperduta, «fiori di plastica in tuniche di polvere». Mentre è sempre un segnale di vitalità il guizzo del comico: basta allora che Ceronetti elenchi i regali ricevuti nel corso degli anni, o anche gli animali che si vedono sempre meno (anche le zanzare sono in diminuzione...). Così appare una nuova forma: una sorta di monologo interiore-esteriore, dove si prende nota delle scritte sui muri, dei nomi sulle lapidi e dei prezzi ai ristoranti, mentre continuano a ripresentarsi altri fantasmi: Giorgione, un versetto dei profeti, Goya, un libro appena letto, la guerra civile spagnola, Velázquez. Questa forma, in cui Ceronetti ci invita a leggerlo, la forma di questo libro, che forse è il suo più intimo, e perciò anche il più esposto, corrisponde a quella in cui egli stesso ne legge ogni altro: «Il frammento che si accende allimprovviso come un Intero accessibile e concentrato, e che sommandosi con altri, prossimi e lontani, del medesimo testo, crea limmagine di una nuova, screpolata Totalità testuale: non ho, coi più importanti autori a me noti, altra relazione che questa. La storia del pensiero, come laltra, è storia di amputazioni e di amputati: lIntero e il Tutto si adunano e brillano nel moncone, come tutta quanta la Legione si riconosce nella mano di legno del capitano Danjou». -
Eliogabalo o l'anarchico incoronato
Imperatore-dio a quattordici anni, ucciso e gettato nelle fogne a diciotto, sacerdote e depravato, amministratore consapevole della disgregazione e dell'anarchia in seno all'ordine politico più grandioso che il mondo classico abbia creato, tutto ciò che sappiamo della vita di Eliogabalo si presenta già di per sé sotto il segno della esasperazione di tutti i contrasti, come se soltanto Antonin Artaud potesse essere eletto a scrivere la sua biografia, fatta solo di eccessi. -
Vita di Milarepa. I suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione
«Milarepa fu mago, poeta ed eremita. Lo fu successivamente e in modo così completo che i Tibetani fanno fatica a non separare questi tre personaggi e, a seconda del loro punto di vista di maghi, di laici o di religiosi, Milarepa è il loro più grande mago, poeta o santo. Questo essere singolare visse nell’undicesimo secolo della nostra èra e la sua memoria è ancora viva nel Tibet come fosse di una personalità da poco scomparsa». - JACQUES BACOT«Uno di quei testi preziosi sui quali, a ogni nuova rilettura, si misura ciò che si è capito nel frattempo». - RENÉ DAUMAL -
Lunario dell'orfano sannita
Fu un incontro micidiale e memorabile, quello fra la scrittura di Giorgio Manganelli e la realtà di tutti i giorni. Il fiammeggiante teorico della letteratura come essere autosufficiente e barricato in se stesso contro ogni pretesa della realtà investiva ora con temerarie incursioni ogni sorta di plaghe del mondo circostante – oltre tutto scegliendole dispettosamente fra quelle meno frequentate dalla letteratura. Il calcio, la scuola, l’astrologia, la Chiesa, il conformismo, gli intellettuali progressisti, la caccia, la televisione, la nevrosi da traffico, il turismo di massa, il cinema, l’università, il divorzio, lo spionaggio telefonico… Ma anche: il Duomo di Milano, un congresso di appassionati della cremazione, il Corano, un trasloco, i rapporti fra sesso e politica… Si direbbe che quasi ogni luogo deputato del cicaleccio serioso venga scompigliato e scompaginato in modo irrimediabile da questi futili corsivi. Come quando lo sguardo di Manganelli, fedele erede dell’«orfano sannita», questo essere espunto dalla storia, che continua a osservarla con il puntiglio del fantasma, comincia a vagare per il Louvre – e la penna annota: «Il Louvre vuole essere tutto, e forse è veramente tutto. Lo si percorre non senza orrore, come un ospedale di mendicità, un cronicario di capolavori incurabili».