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Memorie di Dirk Raspe
Drieu La Rochelle concepì l’idea di scrivere un romanzo in cui Van Gogh fosse il personaggio chiave nell’estate del 1944, precedentemente al suo primo tentativo di suicidio. Il 14 luglio scrive nel suo Diario di ritenere Van Gogh il pittore «che illuminerà l’ultima visione dell’irreale». In quelle che avrebbero dovuto essere le sue ultime settimane di vita, se ad agosto il destino non si fosse opposto alla sua volontà di morire, Van Gogh appariva a Drieu come un fratello, un fratello maggiore, non tanto per la comune volontà di darsi la morte quanto per un’affinità di percorso spirituale. Entrambi «sono stati divorati dalla visione», ma non hanno percorso fino in fondo la stretta via che conduce alla liberazione. Nell’ottobre del 1944 Drieu, che si rifugia in campagna, nei pressi di Parigi, ritrova il gusto di vivere, e così riprende la vita dal punto in cui l’aveva lasciata, riprende in mano la penna che credeva di aver posato per sempre il 12 agosto 1944. Il 15 ottobre scrive nel Diario: «Questa esperienza non ha dunque cambiato niente? Riprendo il solito tran tran: il diario, un romanzo. Se continua così ricomincerò a scrivere anche di politica». Il romanzo è Dirk Raspe. Opera incompiuta, scritta di getto, non rivista nelle parti già scritte, è a suo modo un’opera perfetta. Forse, come riteneva lo stesso Drieu, il suo lavoro più alto. E poi il Dirk Raspe è l’addio straziante di Drieu alla vita, il suo ultimo sguardo posato sul mondo. Subito dopo, ha smesso di guardarci e si è ucciso. (Dallo scritto di Pierre Andreu) -
Il cammino verso la nuova musica
"Il cammino verso la nuova musica"""" contiene, oltre a una serie di preziose lettere, le sedici conferenze che Anton Webern tenne tra il 1932 e il 1933 in una casa privata di Vienna, di fronte a un ristretto numero di ascoltatori. Stenografate da un amico del musicista, esse vennero ritrovate molti anni dopo la fine della guerra e il crollo della dittatura nazista, che ne aveva impedito la pubblicazione. Da questi resoconti di conferenze, colloquiali e non sistematiche, emerge un nitido profilo dell'evoluzione del linguaggio musicale, dal canto gregoriano alla dodecafonia, e di uno tra i suoi massimi rappresentanti. Nello stesso tempo, l'opposizione alla tradizione tonale si sviluppa in queste pagine attraverso un movimento di ricerca in cui il bisogno profondo di ampliare gli orizzonti della sensibilità musicale non è mai disgiunto da una vasta conoscenza della tradizione. Avvertenza ed epilogo di Willi Reich." -
La fiamma di una candela
«La fiamma è un mondo per l’uomo solo. E se il sognatore di fiamma parla alla fiamma, parla a se stesso, ed eccolo poeta. Dilatando il mondo, il destino del mondo, meditando sul destino della fiamma, il sognatore dilata il linguaggio poiché il linguaggio esprime una delle bellezze del mondo. Attraverso un’espressione così pancalizzante, anche lo psichismo si estende, si innalza. La meditazione della fiamma ha offerto allo psichismo del sognatore un nutrimento di verticalità, un alimento verticalizzante. Un nutrimento aereo, agli antipodi di tutti i “nutrimenti terrestri”, non esiste principio più attivo di questo per conferire un senso vitale alle determinazioni poetiche». -
America
«L’America è la versione originale della modernità, noi ne siamo la versione doppiata o sottotitolata. L’America esorcizza la questione dell’origine, non ha il culto dell’origine né il mito dell’autenticità, non ha un passato né una verità fondatrice. Non avendo conosciuto l’accumulazione primitiva del tempo, vive in una perenne attualità. Non avendo conosciuto l’accumulazione lenta e secolare del principio di verità, vive nella simulazione perpetua, nella perenne attualità dei segni. Essa non ha un territorio ancestrale; quello degli indiani è oggi circoscritto entro i limiti delle riserve che sono l’equivalente dei musei dove sono stipati i Rembrandt e i Renoir. Ma tutto questo non ha importanza – l’America non ha problemi di identità. La potenza futura è riservata ai popoli senza origine, senza autenticità, e che sapranno sfruttare sino in fondo questa situazione. […] Gli Stati Uniti sono l’utopia realizzata. Non bisogna valutare la loro crisi allo stesso modo della nostra, quella dei vecchi paesi europei. La nostra è crisi di ideali storici posti di fronte a una realizzazione impossibile. La loro è crisi dell’utopia realizzata in relazione alla sua durata e alla sua permanenza. La convinzione idillica degli americani di essere il centro del mondo, la potenza suprema e il modello assoluto, non è falsa. E non si fonda tanto sulle risorse, le tecnologie e le armi, quanto sul presupposto miracoloso di un’utopia incarnata, di una società che, con un candore che può apparire insopportabile, si regge sull’idea di essere la realizzazione di tutto ciò che gli altri hanno sognato – giustizia, abbondanza, diritto, ricchezza, libertà: essa lo sa, ci crede, e finiscono per crederci anche gli altri. Nella crisi attuale dei valori, tutti finiscono col rivolgersi verso quella cultura che ha osato, con un atto di forza teatrale, materializzarli senza indugio, verso quella cultura che, grazie alla rottura geografica e mentale dell’emigrazione, ha potuto pensare di creare da tutti i singoli elementi un mondo ideale – e non si sottovaluti la consacrazione fantasmatica di tutto ciò da parte del cinema. Qualunque cosa accada, qualunque cosa si pensi sull’arroganza del dollaro o delle multinazionali, questa cultura affascina in tutto il pianeta persino coloro che ne sono vittime, in quanto nutrono l’intima e delirante convinzione che essa abbia materializzato tutti i loro sogni». -
Immagini del bene e del male
«L’elaborazione della mia risposta al giudizio di Berdjaev sull’“impossibilità della soluzione” [del problema del male] è contenuta in questo libro. La cosa è maturata tanto lentamente soprattutto perché solo a poco a poco mi sono reso conto che alle ipotesi bibliche sul bene e sul male, da un lato, e a quelle avestiche e post-avestiche, dall’altro, corrispondono due specie e due gradi fondamentalmente diversi del male. Per chiarirne il senso, che trascende quello antropologico, ho fatto precedere la loro descrizione da un’interpretazione dei due gruppi di miti. Si tratta di un genere di verità che, come sapeva già Platone, può essere adeguatamente trasmesso alla generalità degli uomini solo nella forma mitica. L’esposizione antropologica mostra il campo in cui di continuo queste verità si rendono percepibili. Ogni elemento concettuale non è che uno strumento, un ponte fra il mito e la realtà. È indispensabile costruirlo. L’uomo sa del caos e della creazione nel mito cosmogonico, e sperimenta in modo immediato che il caos e la creazione si trovano in lui, ma non li vede l’uno accanto all’altra; ascolta il mito di Lucifero e lo mette a tacere nella propria vita. Egli ha bisogno del ponte». -
Lettera sull'entusiasmo
«Essendo indirizzata contro ogni forma di fanatismo in difesa di un entusiasmo «ragionevole», contro una religiosità irrazionale per una razionalità in grado di accogliere tutte le istanze del sentimento, la Lettera sull’entusiasmo era anche un manifesto di «tolleranza» in materia di religione. Unica arma in essa riconosciuta, infatti, era l’ironia. Così, per un verso, era il manifesto di una polemica religiosa spregiudicata nelle sue istanze critiche senza confini, ma anche aperta alla celebrazione dei valori morali e delle spinte vitali. Per un altro verso esaltava nell’entusiasmo «luminoso» – come lo avrebbe chiamato Leibniz – quella forza universale della natura, alla quale tutto deve essere subordinato, e in cui tutto deve risolversi. La Lettera aveva in tal modo una duplice funzione: difesa di un’ironia critica di timbro socratico nei confronti di un certo tipo di religione; delineazione di una concezione dell’uomo e della realtà, e della unità profonda di tutta la realtà, come celebrazione e realizzazione di valori morali ed estetici.» (Dallo scritto di Eugenio Garin) -
Disobbedienza civile
«Se è indubbio che Thoreau abbia trascorso gran parte della sua vita nella natura libera, per lo più in solitudine, lontano dal consorzio civile, è altrettanto vero che nella sua personalità così poliedrica e contraddittoria si manifesta anche una tendenza alla critica sociale: tutte le sue opere, sia le principali che le minori, testimoniano questo aspetto e lo confermano come estensione dei princìpi del trascendentalismo emersoniano, portati alle loro estreme conseguenze. Nei due saggi qui presentati, esempi tra i più straordinari della saggistica e dell'oratoria di tutta la tradizione culturale americana, l'esigenza di una critica delle istituzioni assume un vigore decisivo, configurandosi come precisa richiesta di fondamentali riforme nella sfera più strettamente politica. Con un eloquio di rara forza espressiva e trasparente lucidità dichiarativa, la coscienza individuale viene posta al di sopra di ogni tradizione e di ogni istituzione.» (Dallo scritto di Franco Meli) -
Hölderlin. Vita, poesia e follia
Pubblicato postumo nel 1831, il testo che qui presentiamo, insieme a lettere e testimonianze del periodo 1802-1843, è un documento raro e insostituibile per comprendere la vita di Hölderlin negli anni della follia. L'autore, Wilhelm Waiblinger (1804-1830), fu il primo biografo di Hölderlin ed ebbe modo di raccogliere per esperienza diretta le testimonianze della sua vita. Acuto osservatore, dotato di una fantasia vivissima e di una intelligenza non comune, Waiblinger seppe entrare in sintonia con l'esistenza devastata, inavvicinabile di Hölderlin, riuscendo a individuare le fila sottili che collegavano l'oscuro presente del poeta al suo passato fecondo e geniale. E lo stesso Hölderlin testimoniò al giovane una considerazione e un affetto che non manifestò per nessun altro nel periodo della sua follia; a sua volta Waiblinger viveva negli incontri con il poeta una sorta di trasposizione ideale e di immedesimazione, considerandolo la più alta testimonianza di vita spirituale del tempo. Così Waiblinger scrive nel suo diario: «Uno spirito come quello di Hölderlin, che da una innocenza celeste è caduto, a causa di una crisi spaventosa, nella più tremenda devastazione, è ben superiore allo spirito dei deboli, che permangono eternamente sugli stessi binari. Hölderlin è certo l'uomo che cercavo. La sua vita è il grande, terribile, enigma dell'umanità. Questo spirito elevato doveva soccombere - o non sarebbe stato tale». -
La nuova Atlantide
“La Nuova Atlantide” è opera di messianesimo profetico e di sociologia utopistica o (come oggi si usa dire) di futurologia, ma non è certo un’utopia politica. In essa sono assenti tutti i classici temi dell’utopismo politico sulla miglior forma di governo, sul ruolo delle magistrature, sulla funzione della nobiltà, sull’educazione del principe. A differenza di quanto hanno sostenuto alcuni filosofi dei secoli a lui successivi, Bacone non credette mai che la scienza e la tecnica, in quanto tali, rappresentassero la salvezza. Non fu mai un sostenitore di quel tecnicismo moralmente neutro contro il quale, da tante parti, si sono levate critiche e proteste. La restaurazione del potere dell’uomo sulla natura che si realizza attraverso la scienza e la tecnologia ha valore, ai suoi occhi, solo se posta al servizio dell’ideale della fratellanza e della «carità». (Dallo scritto di Paolo Rossi) -
Racconti in sogno
«Sono felice ma anche turbato nel vedere questi racconti pubblicati in Italia, nella bella traduzione di Cesare Greppi» scrive Bonnefoy nella premessa alla prima edizione italiana, apparsa nel 1992, di Récits en rêve. «Perché l'Italia è il luogo dove queste immaginazioni hanno preso forma. Tutte, o quasi tutte, sono effettivamente dei racconti ""in sogno"""", vale a dire modi di intravedere il volto del mondo, oppure momenti della vita, ma deformata dal flusso delle condensazioni, dislocazioni, simbolizzazioni, insistenti o furtive, che produce l'attività onirica. E in Italia appunto ho imparato, non a sognare - questo viene a noi insieme con il linguaggio -, ma ad attendermi altro dal sogno. [...] Il sogno italiano, privandomi del mondo, me lo restituiva; e in ciò assomigliava a quei momenti in cui il bambino, ancora ignaro dei luoghi e delle cose che lo circondano, può vedere dal seno di questo ignoto proiettarsi su di lui i raggi di un altrove che egli avverte come qualcosa di più alto e pieno, misteriosamente affrancato da ogni determinazione del mondo ordinario»."" -
Libri profetici
«La natura della mia opera è visionaria e profetica» scrisse William Blake (1757-1827). Sebbene i suoi riferimenti fossero la Bibbia e la Cabbala, Swedenborg, gli studi esoterici, e quindi una visione eterodossa rispetto a quella che caratterizzava il suo tempo, Blake intese perfettamente che le «oscure fabbriche di Satana» del paesaggio industriale erano costruite a immagine di una filosofia meccanicistica che negava il sacro e distruggeva ogni forma di trascendenza. L’acceso simbolismo, la spiritualità, la tensione religiosa dei Libri profetici mitizzano, con drammatico impeto e con lucidissima intuizione critica, problemi ancora vivi e irrisolti. -
Artaud le Mômo, Ci-gît e altre poesie. Testo francese a fronte
“Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, sono mia madre, e sono io; livellatore del periplo idiota nel quale si ficca l’atto del generare, il periplo papà-mamma e bambino, fuliggine nel culo della nonna, più che in quello del padre-madre, molto di più.” -
Diario di una concubina imperiale
Il Giappone del XIII secolo rivive nelle pagine di questo diario, scritto da una donna affascinante e raffinata, la nobile Nijō. Nata a Kyōto nel 1258 da una delle più illustri famiglie dell’epoca, Nijō fu educata alla Corte imperiale e a tredici anni divenne concubina dell’ex imperatore Go Fukakusa: la bellezza, l’animo sensibile, l’ingegno artistico, la cultura classica e soprattutto il fascino che esercitava, avrebbero potuto permetterle di divenire imperatrice; invece, per le sue intemperanze amorose e per l’odio di una rivale fu allontanata da Corte a venticinque anni e da allora, fattasi monaca, si dedicò ai viaggi e alla stesura di questo diario, il più vivido e palpitante affresco dell’antico Giappone. L’unione contraddittoria ma intensissima con Go Fukakusa, il dolore per la morte del padre, la relazione segreta con l’inquietante cugino, la sacrilega e tormentata passione del principe-monaco, la nascita dei figli, l’esilio dalla Corte, la nuova vita di monaca e di pellegrina, i viaggi in luoghi incantevoli e selvaggi, tra monti e boschi sacri, gli incontri con guerrieri, sacerdoti, prostitute, mercanti di schiavi, sono descritti con leggiadria, con passione, con dolore, con impavida schiettezza. Tra legni odorosi e cortine di seta di palazzi e ville, in giardini illuminati dalla luna, dove svanisce la melodia di un flauto o di un’arpa, tra nuvole d’incenso e fuochi accesi sugli altari dei templi, in un’atmosfera pregna di magia, di apparizioni e di sogni premonitori, dove gli amanti si sentono uniti da un legame al di là del tempo e giurano di amarsi anche nella successiva reincarnazione, emerge una figura di donna che sa donarsi totalmente all’amore, alla sofferenza, all’ascesi, all’avventura, e da tutto sa trarre profondità spirituale e saggezza. -
Viaggio in Sicilia
«Questo è l’ultimo giorno del mio viaggio. Sono salito sul monte Pellegrino in una splendida mattinata, e sono stato colto da tristezza al pensiero di lasciare così grandiosa e impareggiabile bellezza. Se soltanto uno potesse impadronirsene e serbarla entro di sé, sarebbe un dio». -
Paragrano
“Non l’autorità, non l’ambizione, non gli allettamenti del danaro, non la tronfia vanagloria del sapere scolastico costituiscono l’abito morale del medico che cerca nell’amore per i suoi simili e nella difficile via dell’esperienza la misura di una religiosa missione. Prende forma nella figura del medico – che è per Paracelso il «sapiente» in tutta la sua completezza – la nuova dignitas dell’uomo del Rinascimento, orgogliosamente consapevole del suo compito che non è «salvarsi la vita, ma compiere la propria opera». […] Le intemperanze verbali del Paragrano, la crudezza della polemica, la severità e il sarcasmo dei giudizi con cui Paracelso marchia a sangue i vari doctores delle università fanno pensare a Lutero e più ancora, forse, a uno spirito congeniale, Giordano Bruno. Paracelso scende in campo con corazza e lancia, catafratto contro i nemici e ben attento ai colpi di taglio e di punta: questo suo libro è un torneo in cui prevarrà il migliore e soltanto le opere ne daranno testimonianza. V’è in quest’anima di lottatore e di riformatore la coerenza di un ideale filosofico vissuto intrepidamente così da plasmare la sostanza etica della vita, e insieme la consapevolezza superba, ma anche eroica, di chi si leva contro le venerazioni di millenni in nome di una verità che può sembrare temeraria e assurda. In una delle ultime pagine di questo libro, Paracelso ci descrive, quasi nella forma di una tenzone allegorica medievale, la «notte della medicina» come una pausa necessaria perché la morte, insinuandosi nelle tenebre come una ladra, possa «rubare» la vita: ebbene, in questo «sole della medicina» che si spegne soltanto per il diretto intervento della volontà di Dio, vediamo come il simbolo del Paragrano, in cui un’immagine biblica si confonde con una visione platonica, quasi il monogramma rinascimentale e medievale di Paracelso.” (Dallo scritto di Ferruccio Masini) -
La signora Dalloway
"La signora Dalloway"""", pubblicato nel 1925, è il primo grande frutto della maturità artistica di Virginia Woolf, il romanzo in cui stile, temi e novità formali, oggi divenuti classici, trovano una perfetta compiutezza. Tutto avviene e si consuma nel corso di una sola giornata e, come spesso accade nell'opera della scrittrice, il fulcro intorno a cui si snoda la vicenda e ruotano i personaggi ha le apparenze di un banale evento quotidiano. Clarissa Dalloway, protagonista del romanzo, è intenta ai preparativi di una festa che offrirà in serata agli amici. L'altro polo narrativo è il giovane Septimus Warren Smith, reduce di guerra, che un graduale rifiuto del mondo poi degenerato in follia condurrà al suicidio poche ore prima della festa di Clarissa. La notizia della morte di Septimus giunge alla protagonista proprio nel corso della festa, che diventa così il luogo di confluenza di personaggi e di eventi della giornata ormai trascorsa, ossia la scena in cui la rappresentazione apparentemente anodina trova senso e suggello. Ma come sempre nella Woolf, e qui in modo magistrale, il tempo lineare degli orologi e degli atti scanditi dalla necessità non è che un aspetto secondario dell'esperienza umana, un «artificio» che permette alla coscienza ricognizioni non meno reali nella discontinuità del ricordo o nella fantasia del futuro. Questa dimensione complessa e globale del tempo in tutte le sue forme, e le modificazioni che essa produce nelle persone, assumono ne """"La signora Dalloway"""" l'esemplarità e la ricchezza espressiva che solo la grande arte sa raggiungere. Con uno scritto di Paul Ricoeur." -
Monsieur Proust
“Quando Marcel Proust morì, già celebre nel mondo, nel 1922, molti si precipitarono da colei ch’egli chiamava la sua «cara Céleste», per ottenerne la testimonianza, i ricordi. Molti sapevano che solo lei (per essergli vissuta accanto negli otto decisivi anni della sua esistenza) deteneva verità essenziali sulla persona, sul passato, sugli amori, sullo sguardo sul mondo, sul pensiero, sull’opera di quel grande, geniale infermo. Quelle stesse persone non ignoravano che, per ore e ore, tutte le notti – notti che erano il giorno per quell’uomo –, Céleste Albaret aveva avuto l’eccezionale privilegio di sentirlo raccontar di sé sul filo della memoria, e raccontare le serate da cui tornava, e mimare e ridere come un fanciullo e tracciare già ad alta voce questo o quel capitolo dei suoi libri. Céleste era il testimone principe, il centro di tutto. Ma per cinquant’anni rifiutò di parlare. La sua vita, diceva, se n’era andata con Monsieur Proust. E come lui s’era costretto, in volontaria reclusione, nella propria opera, così lei ormai voleva vivere da reclusa nella sua memoria. Soltanto così lui sarebbe rimasto il magnifico monarca dello spirito e il mostro di tirannia e di bontà ch’ella aveva, come oggi dice, «amato, subìto, assaporato». Tentare di render tutto questo – e di renderlo malamente, come temeva – avrebbe significato tradirlo. Se ora, a ottantadue anni, ha mutato parere è perché ha ritenuto che altri, meno scrupolosi, avessero tradito Marcel Proust, sia perché non disponevano delle sue fonti di verità, sia per eccesso di fantasia o per la tentazione di erigere a tesi le loro piccole, «interessanti» (o interessate) ipotesi. Quanto a me, affermo che non avrei accettato di farmi l’eco di Madame Albaret se dopo alcune settimane – sui cinque mesi che durarono le nostre conversazioni – non mi fossi convinto della sua assoluta sincerità. Poiché questo libro urterà molti preconcetti e susciterà numerosi malumori, volevo esser assolutamente certo di non prestarmi a un altro genere di tradimento: quello, come ho detto un giorno a Madame Albaret, di erigere un’icona.” (Dall’introduzione di Georges Belmont) -
Vita di una donna licenziosa
«""Una bella donna è un'ascia che tronca la vita"""" dicevano gli antichi. È naturale che prima o poi il corpo sfiorisca e diventi secco come legna da ardere. Molti sono però gli stolti che si lasciano travolgere dal turbine delle passioni e si consumano anzitempo fino a morirne. Questa specie di uomini, purtroppo, è dura a estinguersi». Così inizia Vita di una donna licenziosa, uno dei più celebrati romanzi galanti (i k?shokubon) di Ihara Saikaku (1642-1693). «In questo testo k?shoku indica erotismo e sensualità,» scrive Ivan Morris «del tutto privi degli aspetti romantici o sentimentali dell'amore. Il libro descrive infatti la progressiva degradazione della protagonista nella sua ricerca del piacere sessuale e per vivere dal punto di vista economico come donna sola nella dura società feudale del suo tempo. Oltre a una natura altamente erotica, l'eroina è dotata di notevole bellezza fisica, e il suo ambiente naturale è rappresentato dai quartieri di piacere, all'interno dei quali si svolge la maggior parte della vicenda. La vita della cortigiana è descritta con perfetto realismo, e si rivela come un'esistenza dura, spietata, dominata dalla ricerca del denaro, in cui il desiderio sensuale raramente lascia il posto alla tenerezza. Quando, con l'avanzare dell'età, la bellezza comincia a sfiorire, la protagonista sprofonda nelle zone più sordide del commercio sessuale, per diventare alla fine una comune prostituta di strada. In questo romanzo Saikaku evoca dunque l'aspetto oscuro e nefasto del k?shoku». E il finale del romanzo è implicito nel suo inizio, essendo la stessa eroina, ormai vecchia e isolata dal mondo, a narrare la sua storia straordinaria, con indomita e non spenta passione, ai due giovani recatisi nel suo romitaggio per apprendere le arti dell'amore. E così si congeda da loro: «Sono una donna sola, perché dovrei nascondervi qualcosa? Questo mio corpo durerà il tempo sufficiente perché il loto del mio cuore si schiuda e appassisca. Mi sono abbandonata alla corrente, ma il mio cuore non ne è stato intorbidato»."" -
La notte del Getsemani. Saggio sulla filosofia di Pascal
«Bisogna sempre ricordare che Pascal non ha scelto il proprio destino, ma è stato scelto dal destino. Pascal, glorificando la crudeltà e l’implacabilità, glorificava Dio stesso, quel Dio che lo aveva sottoposto – al pari di Giobbe – a prove inaudite. E anche tessendo le lodi di ciò che è “incongruente”, celebrava egualmente Dio, che lo aveva privato della consolazione di confidare nella ragione. E quando riponeva tutte le sue speranze nell’“impossibile”, solo Dio poteva ispirargli una simile follia. Ricordiamo d’altronde quel che fu la sua vita. I suoi biografi ci dicono che, sebbene dal 1647 alla sua morte siano trascorsi quasi quindici anni, le malattie e le incessanti sofferenze gli concessero rari intervalli, di un sopportabile languore, in cui non era del tutto incapace di lavorare. Sua sorella racconta: “Talvolta ci diceva di non aver mai trascorso, dai diciotto anni in avanti, un sol giorno senza soffrire”. Anche la prefazione di Port-Royal ai suoi Pensieri testimonia: “Durante tutta la sua esistenza, le malattie non l’hanno quasi mai lasciato un giorno senza dolore”». -
Il complotto dell'arte
«Tutta la duplicità dell'arte contemporanea sta proprio in questo: rivendicare la nullità, l'insignificanza, il nonsenso, mirare alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante. Aspirare alla superficialità in termini superficiali». Con uno scritto di Sylvère Lotringer.