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Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale
A venticinque anni, nel 1934, Simone Weil scrisse queste Riflessioni, vero talismano che dovrebbe proteggere chiunque è costretto ad attraversare l’immenso ammasso di menzogne che circonda la parola «società». Come sempre nelle parole più ovvie, in essa si cela una realtà segreta e imponente, che agisce su di noi anche là dove nessuno la riconosce. La Weil è stata la prima a dire con perfetta chiarezza che l’uomo si è emancipato dalla servitù alla natura solo per sottomettersi a un’oppressione ancora più oscura, ancora più capricciosa e incontrollabile: quella esercitata dalla società stessa, poiché «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso». Da questa intuizione centrale si diparte, con cristallina virtù argomentativa, una sequenza di ragionamenti che svelano nei meccanismi del potere come in quelli della produzione e dello scambio altrettanti volti di una stessa idolatria. Scritto quando Hitler era al potere da pochi mesi e quando Stalin era venerato da gran parte dell’intelligencija come «piccolo padre» di una nuova umanità, questo testo non ha un attimo di incertezza nel delineare l’orrore di quel presente. Ma, come sempre nella Weil, lo sguardo è così preciso proprio perché va al di là del presente e percepisce un’immagine inscalfibile del Bene, in rapporto alla quale giudica il mondo. È uno sguardo che ci induce a «sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo». -
Il corsivo è mio
«Che ne facciamo della visione tragica della vita in cui siamo stati educati? Del tragico periodo della nostra storia? Del destino della mia patria, della mia generazione e infine del mio destino personale? Mi sembra che una risposta ci sia: la tragedia mi fu data come terreno, come base di vita: noi, nati tra il 1900 e il 1910, siamo cresciuti nella tragedia che a suo tempo è entrata in noi; per così dire l’abbiamo bevuta, ce ne siamo nutriti e l’abbiamo assimilata, ma ora che la tragedia è finita ed è iniziato l’epos, io ho il diritto, dopo aver vissuto una vita, di non prendermi troppo sul serio». Prima di giungere a «non prendersi troppo sul serio», la Berberova ha tracciato la storia della sua vita in questo libro, che apparve nel 1969 e col tempo sempre più si impone per l’intensità e la ricchezza della testimonianza. La Russia di prima, durante e dopo la rivoluzione, il mondo degli esiliati russi fra le due guerre, fra Berlino, Praga, Parigi, infine l’America, dove la Berberova è a lungo vissuta, ne sono la scena mutevole. E continuamente la vediamo attraversata da figure vivissime e disparate, fra cui riconosciamo Blok o Pasternak, la Cvetaeva o Belyj, Chodasevic o Remizov, Jakobson o Nabokov, tutti disegnati con la nettezza spavalda della narratrice. Difficile pensare un altro libro che restituisca con altrettanta precisione quell’aria del tempo, fosca e vibrante, che avvolse la vita di tanti grandi russi del nostro secolo, dispersi per l’Europa. A mano a mano che procediamo nella selva degli anni, il tempo sembra apparirci palpabilmente come quell’«ordito che non si può comperare, né scambiare, né rubare, né contraffare, né impetrare», nel quale la Berberova intesse sapientemente la sua vita, devota sin all’inizio, secondo la formula di Herzen, della «crudelissima immanenza». -
Il grano in erba
Colette pubblicò questo romanzo a puntate su «Le Matin». Ma, quando il direttore si accorse che i due protagonisti, la quindicenne Vinca «dagli occhi color pioggia di primavera» e Phil, il sedicenne suo compagno di infanzia, procedevano impavidamente, attraverso gelosie e dispetti, verso la scoperta del sesso sul corpo dell’altro, sospese le pubblicazioni. Così un’aura di scandalo circondò fin dall’inizio questo libro, forse il più popolare di Colette. Ed era proprio la stupefacente precisione di Colette a scandalizzare, la sua capacità di concatenare le sensazioni, ricostruendo momento per momento, con un’ariosità febbrile, la trasformazione di due bambini che per anni hanno giocato insieme in due giovani amanti che evocano il «miracolo laborioso» del possesso. Il grano in erba è stato pubblicato per la prima volta nel 1923. -
Il mondo dentro il mondo
Davvero esistono lì fuori leggi di natura, che stanno in attesa di essere scoperte, indipendenti dal nostro modo di pensare, o esse rappresentano soltanto la descrizione più conveniente di ciò che abbiamo visto? Come è nata lidea stessa di leggi di natura? Queste costituiscono la realtà profonda o sono soltanto pezzi di un regolamento che ci siamo dati per organizzare meglio la nostra conoscenza del mondo? o semplici paletti che piantiamo e ci lasciamo alle spalle come segnali via via che procediamo nella giungla dellesperienza? È possibile che non esistano affatto leggi di natura? Forse esse, e anche luniverso che da esse sembra regolato, sono del tutto creazioni della nostra mente: unillusione che scompare appena cessiamo di pensarvi. Ma allora, che cosa accadrebbe, se non ci fossero osservatori delluniverso?». Interrogativi di questo genere, che incontriamo sulla soglia del Mondo dentro il mondo, sarebbero suonati eccentrici fino a qualche anno fa. Oggi, al contrario, circoscrivono il centro stesso della riflessione scientifica, dove infuria ormai una disputa appassionata fra teorie del tutto, che vorrebbero avvolgere gli eventi del mondo, sin dai suoi inizi, in ununica rete teorica. Una delle più sconvolgenti fra tali teorie è stata sviluppata proprio da Barrow e da un illustre fisico, Frank J. Tipler: la teoria del principio antropico. Estremamente ardua e paradossale, essa riesce a mettere in connessione limmensità delluniverso con la sua percezione da parte dellocchio delluomo. E proprio nelle pagine di questo libro si troverà la prima esposizione discorsiva di tale teoria, accompagnata dalle varie obiezioni che essa ha incontrato. Ma il disegno di Barrow è qui piuttosto di usare la nuova teoria, insieme a molte altre, discusse con sapienza e unalta capacità esplicativa, per mostrare come tutte convergano verso quegli interrogativi ultimi che a lungo la scienza aveva accantonato definendoli, con malcelato spregio, «problemi filosofici». Eppure, non è certo la filosofia ad aver fatto breccia nel duro cuore degli scienziati, insinua Barrow. È la natura stessa o almeno la scoperta di «alcuni degli insoliti modi, secondo i quali sembra che essa operi» a obbligarci a questo passo. Il mondo dentro il mondo è apparso per la prima volta nel 1988. -
Nuovo commento. Con una lettera inedita di Italo Calvino
Se volessimo dividere in fasi l’opera di Manganelli, il Nuovo commento (1969) apparterrebbe sicuramente a quella che potremmo definire «eroica», in cui lo scrittore, impugnata una lancia istoriata di segni, tentò di raggiungere il luogo da cui sgorgano i segni stessi, vero «pozzo natale e mortale», nonché «sole nero» di ogni scrittura. Presupposto vertiginoso e altamente astratto, da cui però l’arte di Manganelli è riuscita a far scaturire una tensione romanzesca e persino – quale audacia in un tale contesto! – dei personaggi. Sicché alla fine si scoprirà che ciò che leggiamo è un fosco, metafisico dramma, la cronaca di «una qualche continuata, notturna catastrofe». Questo libro rimarrà fra gli esempi più evidenti di ciò che può la letteratura quando si abbandona totalmente al proprio gioco. Appena lesse il manoscritto del Nuovo commento, Italo Calvino indirizzò a Manganelli una lunga lettera, finora inedita, che rimane a tutt’oggi la più densa e illuminante lettura del libro. Manganelli la conservava nella sua copia del Nuovo commento, quasi quel commento al commento appartenesse ormai al testo. La pubblichiamo qui in appendice insieme al risvolto – come sempre prezioso – scritto dall’autore per la prima edizione. -
L' antica via degli empi
A chiunque si chieda che cosè il male è utile mettere subito in mano il Libro di Giobbe. Il male di cui esso parla assume tutte le forme e anzitutto quella della malattia e della morte. Ma è anche il male che gli uomini commettono, spesso nella convinzione di operare il bene: e forse è proprio di questo male che Giobbe parla. La persecuzione, la vittima, il processo: tutto ciò sarebbe dunque al centro del Libro di Giobbe. Ed è anche al centro, sin da La violenza e il sacro, dellopera di Girard. Non solo: quel centro non è uno dei tanti possibili, ma il centro necessario, ineludibile di ogni pensiero. Esso coincide con una figura: il capro espiatorio, e Giobbe sarebbe appunto il capro espiatorio che più si avvicina alla propria verità. Sotto questo profilo, è illuminante osservarlo sempre in contrappunto a un altro capro espiatorio: Edipo. Ma occorre anche mettere Giobbe in rapporto con fatti dei quali i moderni detengono il triste privilegio, come i processi totalitari. Che altro sono, infatti, i Dialoghi fra Giobbe e coloro che si presentano come suoi «amici» se non il modello di ogni processo in cui limputato è già condannato in partenza? Incontrando Giobbe, Girard ha trovato la figura più vicina al cuore di tutto ciò che è andato scrivendo. Il suo pensiero sembra allora addensarsi al massimo e al tempo stesso cercare formulazioni di una chiarezza ultima, indubitabile. «Ci sono due verità in senso relativo, nel senso del relativismo e del prospettivismo, ma cè una sola verità in rapporto alla conoscenza, ed è la verità della vittima». E alla verità della vittima è dedicata Lantica via degli empi. Questo libro è apparso per la prima volta nel 1985. -
Le feste di Billancourt
Billancourt è un sobborgo parigino dominato dalle officine Renault. All'epoca di questi racconti (gli anni Venti e Trenta) vi erano confluiti in massa emigrati della Russia sovietica che l'industria francese reclutava con buoni risultati. Così Billancourt divenne una specie di enclave russa, luogo di tutte le desolazioni e di tutte le nostalgie. C'è una vena di bizzarria, talvolta di patetica follia in molti personaggi, una comicità che nasce da invalicabili discordanze, un'amarezza cechoviana sul fondo. Tutti elementi che la Berberova sa mettere in gioco, fugando ogni patetismo e lasciando parlare la realtà. -
Il controllo della natura
Narrare la radicale stoltezza umana che muove alcune grandi imprese della tecnica: con questo scopo McPhee ha esplorato e studiato per anni i luoghi in cui l'uomo si è impegnato in una battaglia totale con la natura per conquistare ciò che non è dato, per ""accerchiare la base dell'Olimpo, reclamando e aspettando la resa degli dei"". Un'analisi critica, con numerosi esempi reali, di come gli uomini mettano a repentaglio la loro stessa vita e non esitino ad affrontare spese colossali al solo scopo di continuare a vivere là dove la geologia e il clima sembrerebbero vietarlo. -
La filosofia perenne
La ""filosofia perenne"" insegna che ogni cosa, ogni vita e l'anima di ogni individuo rinviano a un'unica Realtà divina che sta a fondamento di tutte le cose. Ma se vogliamo trovare una testimonianza autentica di tale filosofia non dobbiamo rivolgerci ai filosofi e ai letterati di professione, i quali per lo più ne posseggono una conoscenza solo di seconda mano, bensì a quegli ""individui eccezionali"" che hanno ""deciso di adempiere a certe condizioni, rendendosi pieni di amore, puri di cuore e poveri di spirito"": da Eckhart ai mistici cristiani, da Lao Tse ai mistici buddhisti e induisti. Dalle opere che di loro ci sono pervenute Huxley ha estratto una serie di brani e li ha incastonati in un commento personale. -
Centuria. Cento piccoli romanzi fiume
""Un libro straordinario"": così Calvino saluta, nel 1985, la versione francese di ""Centuria"", il primo libro di Giorgio Manganelli a essere tradotto e pubblicato oltralpe. ""Cento piccoli romanzi fiume"", recita il sottotitolo; e ancora Calvino ne sottolinea la ""scrittura concisa ed essenziale"", le ""invenzioni narrative sintetiche e concentrate"", nelle quali prende vita l'universo dell'autore. In questa nuova edizione, insieme alle centurie originali pubblicate nel 1979 e alla citata prefazione di Calvino, di cui si offre qui per la prima volta il testo italiano, sono comprese le venti ""Altre centurie"" uscite nel marzo 1980 sul ""Caffè"" e undici inedite; il volume contiene anche una Nota al testo che ricostruisce la genesi della raccolta. -
Perturbamento
«Il romanzo che rivelò Thomas Bernhard – e rimane «il suo libro più grande e inquietante, il suo capolavoro.» (Claudio Magris) -
Introduzione alla lettura di Hegel - Lezioni sulla «Fenomenologia...
C’era, nella Parigi degli anni fra il 1933 e il 1939, un evento intellettuale di cui si sussurrava con emozione e sconcerto: le lezioni su Hegel tenute da Kojève alla École Pratique des Hautes Études. I giovani che andavano ad ascoltarlo con fervore si chiamavano Jacques Lacan e Raymond Aron, Merleau-Ponty e Georges Bataille, André Breton e Roger Caillois. Ma l’influenza di quelle lezioni si sarebbe estesa a molti altri, talvolta opposti per costituzione, come Pierre Klossowski e Jean-Paul Sartre. Mentre l’allievo che prendeva le note preziose da cui poi ha tratto origine questo libro altri non era se non Raymond Queneau. Commentando la Fenomenologia (come dire: ricostruendo la genesi del mondo storico e l’articolazione dello Spirito), Kojève riuscì a metterne in evidenza alcuni nuclei roventi: innanzitutto le figure del «Signore» e del «Servo» – e il gioco fra queste e le nozioni di «Desiderio» e «Riconoscimento». Immensa è la carica eversiva di questi temi quali Kojève li fa emergere dal testo di Hegel, e quasi cogliere per la prima volta nella loro pienezza. Ovvie sono le conseguenze nella direzione di una lettura radicale sia di Marx sia di Freud. Ma anche il tema della «fine della Storia», penosamente banalizzato in anni recenti, affiora qui come una sfida vertiginosa. Seguendo queste lezioni, avvertiamo con rara evidenza la sensazione dell’elaborarsi di un pensiero mentre si formula, passo per passo. Così come percepiamo, con perfetta nitidezza, gli sviluppi (anche pratico-politici) a cui una certa linea speculativa può condurre. E niente può aiutarci a capire che cosa sia il «lavoro del concetto» come questo libro, con il suo procedere fatto di incursioni e di indugi fra le righe del testo di Hegel e nei meandri di una delle menti più affilate dell’epoca moderna, quella di Alexandre Kojève. -
Il cristianesimo così com'è
C.S. Lewis, grande studioso del Medioevo e romanziere fantascientifico, si trovò a un certo punto della sua vita a essere, come egli stesso osservò con affilata ironia, «forse il più depresso, il più riluttante convertito d'Inghilterra». Ma che cosa lo aveva obbligato a passare da una posizione di cauto agnosticismo alla fede? «Il cristianesimo così com'è», cioè quel nucleo irriducibile in cui si intrecciano pensiero, emozione e gesto – e che sta dietro a tutte le disparate divergenze dottrinali, a tutte le dispute ecclesiastiche. È questo il nucleo che rende «naturalmente cristiano» chiunque sia nato in Occidente negli ultimi duemila anni. Come raccontare, come rendere evidente tutto ciò? C.S. Lewis volle usare la massima immediatezza, obbligandosi a parlare nel modo più semplice delle cose ultime. E il risultato fu una riuscita impressionante. Così queste conversazioni radiofoniche, che risalgono agli anni Quaranta, sono rimaste ineguagliate: soprattutto per la perspicuità con cui rendono palpabili i più ardui problemi teologici, mostrandoceli nella loro vera natura di possenti cunei conficcati nella circolazione della nostra mente. Da essi, che lo vogliamo o no, non possiamo prescindere: e allora, insinua Lewis, tanto vale che ce ne lasciamo illuminare. -
Storia universale dell'infamia
Simile a un enciclopedista cinese, Borges volle accostare una sequenza di destini tenebrosi come altrettanti «esercizi di prosa narrativa». Il tono è quello, impassibile, di chi intende «raccontare con lo stesso scrupolo le esistenze degli uomini, siano stati divini, mediocri o criminali», e ritrovarle tutte in una pura «superficie di immagini». Ma chi cercasse in questi ritratti dati certi e attendibili si ingannerebbe. Ispiratore occulto è qui Marcel Schwob, che nelle sue Vite immaginarie inventava le biografie di uomini «che erano realmente esistiti ma di cui non si sapeva pressoché nulla». Procedimento che in Borges si inverte: «leggevo la vita di un personaggio conosciuto e la deformavo e falsificavo deliberatamente secondo la mia fantasia». Comune a Schwob e a Borges rimane una certa scansione della frase, che «dà un’impressione di ironia per il naturale contrasto che si crea tra un fatto che ci sembra meraviglioso o abominevole e la brevità sdegnosa di un racconto». Con la sua usuale sprezzatura, Borges definì una volta queste storie «l’irresponsabile gioco di un timido». Di fatto erano il primo gioiello di una nuova specie di letteratura. -
Romanzo del fenotipo
Dalle macerie della Berlino del 1945 affiora il profilo di una nuova epoca, la nostra, dove non rimarranno che ""criminali o monaci"". Lette oggi, a distanza di quasi cinquant'anni dalla loro prima apparizione, queste prose narrative di Benn appaiono come il solitario esempio di uno dei grandi sogni della letteratura del Novecento: la prosa assoluta, una prosa che racconta senza nessi causali, come puro succedersi di epifanie e irrisioni. -
Cronachette
Manifestando appieno la sua vocazione di scrittore-detective, Sciascia ci consegna con ""Cronachette"" una teoria di microritratti memorabili, dal primo Seicento al nostro secolo. Si tratta quasi sempre di figure misconosciute e dimenticate: così è per Don Alonso Giron, contemporaneo di Tasso che uccise ""a quattro mani"" un adolescente e che, scovato e giustiziato, fu protagonista di un funerale simile a un dipinto di Zurbaran; così è per Don Mariano Crescimanno, benedettino che intorno al 1735, a Modica, fu a capo di una ""puzzolente e carnale eresia"" e quindi costretto in segrete fra le cui mura urlava giorno e notte; o Don Giuseppe Buttà, testimone dell'impresa dei Mille, avversatore di Garibaldi, ridotto a ""piccolo uomo incerto"". -
Lettere ad Agnese. La visione dello specchio
Chiara d'Assisi, che fiancheggiò Francesco nel suo itinerario spirituale e ne fu l'erede più antentica, ci ha lasciato alcuni scritti fra i quali emerge un esile epistolario diretto ad Agnese di Praga. Figlia del re di Boemia, Agnese aveva rinunciato, per una vita consacrata, a una serie di nozze regali, e in particolare a quelle con l'imperatore Federico II. Attratta dalla fama di Chiara, scelse la nuova formula di vita istituita da Francesco e ispirata a una povertà radicale. Pur trattando delle concrete difficoltà che incontrava l'impostazione francescana di rinuncia a ogni possesso, le lettere di Chiara si elevano al livello di sottili speculazioni contemplative. Inoltre è l'unico carteggio medioevale fra due donne. -
Trattato dell'età-Una lezione di metafisica
A partire da Cicerone, il tema della senilità ha sempre ispirato opere provvidamente consolatorie o delicatamente elegiache. Nella nostra epoca, votata all'idolatria della giovinezza (reale o apparente), si preferisce eluderlo o ignorarlo. In questo aspro, spregiudicato ""Trattato dell'età"" Sgalambro ne fa invece il punto di partenza di una vibrante riflessione sul perenne disgregarsi delle cose, arrecato dal ""maligno tumore del tempo"". Sgalambro sviluppa in poche pagine le linee di una ""metafisica dell'età"" che diventerà lo specchio in cui si riflette la temibile sembianza della vecchiaia, oggettivazione dell'essenza distruttiva del mondo. -
Il soccombente
A un corso di Horowitz, a Salisburgo, si incontrano tre giovani pianisti. Due sono brillanti, promettenti. Ma il terzo è Glenn Gould: qualcuno che non brilla, non promettente, perché è. Una magistrale variazione romanzesca sul tema della grazia e dell'invidia, di Mozart e Salieri, ma ancor più sul tema terribile del ""non riuscire a essere"". -
Che cosa ha detto Nietzsche
L'opera di Nietzsche rappresenta un passaggio obbligato per chiunque studi il nostro tempo. Lo straordinario e inesauribile repertorio di motivi che essa offre ha suscitato entusiasmi, ispirato atteggiamenti, mode culturali e stili di pensiero, ma al tempo stesso ha provocato reazioni e rifiuti radicali. Come affrontare un'opera così enigmatica? Come ritrovare in essa un filo conduttore salvaguardandone il carattere problematico e frastagliato? Come darle la giusta intelliggibilità filosofica senza intaccarne la carica antidogmatica e antimetafisica? Apparsa per la prima volta nel 1975, l'introduzione di Montinari (1928-1986) si distingue dagli altri analoghi strumenti di critica. Con una nota di Giuliano Campioni.