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Memorie di una ritrattista
I Souvenirs di Elisabeth Vigée Le Brun (1755-1842) sono, innanzi tutto, l'autobiografia di un'artista, la storia della vocazione, del suo percorso creativo, della sua committenza. Dietro la pretesa ingenuità e la maschera della modestia femminile, dietro la civetteria di una donna consapevole della sua bellezza e dei suoi successi, avvertiamo una passione totalizzante, sorretta da una grande ambizione e da un'implacabile energia. Questa passione è la pittura. Madame Vigée Le Brun non si azzarda mai ad avventurarsi sul terreno della riflessione teorica e le brevi annotazioni di carattere tecnico sono annegate nel flusso dci ricordi. L'artista non è un intellettuale e manca, comunque, della cultura necessaria per imbastire un discorso critico. Dipingere è per lei un dato istintivo, che assorbe nutrimento direttamente dalla vita e, alla fine di queste memorie, sorge il sospetto che sia, in realtà, la vita stessa a essere vissuta in funzione della pittura. Con ottimismo incrollabile, con curiosità entusiasta, Madame Vigée Le Brun attraversa le prove più difficili della sua avventurosa esistenza. Ha l'edonismo della bellezza e il suo occhio instancabile registra con uguale avidità un quadro di Raffaello, un paesaggio, anfiteatro romano, un viso di donna. Non è solo la vista a lavorare per lei: tutti i suoi sensi sono impegnati a selezionare, ad assorbire le emozioni che le giungono dal mondo esterno e che ci restituirà come gioia di vivere attraverso la sua pittura. -
Miró
"Miró, come la maggior parte dei grandi pittori, non lavora per esprimere un modo di essere, felice o angoscioso che sia, ma per capire e superare un conflitto. Il sole della vita fisica e l'inquietante luna che presiede alle metamorfosi dell'inconscio vengono nella sua opera a mescolare le loro luci, e Miró dipinge per poter sfociare nella pura luce del giorno. Tenterò dunque di rivivere e di interpretare per sommi capi una storia, quella di uno spirito che lotta contro il turbamento che è in lui e che chiede all'arte di soccorrerlo.""""" -
Lettere su Cézanne
"Le lettere scritte da Rilke alla moglie Clara Westhoff nell'ottobre del 1907, al ritorno da visite compiute alla esposizione di Cézanne allestita nel Salon d'Antonine, sono di solito più citate che lette. Un poeta e narratore non ancora del tutto libero da scorie provinciali, anche se conosce l'Europa, con una cultura singolare, vasta, anzi vastissima, ma non di eguale qualità, trova nella mostra di Cézanne l'occasione per leggere in se stesso come mai gli era prima accaduto, e per formulare princìpi cui si mantiene fedele per il resto della vita. L'incontro sembra predestinato: Rilke cercava da anni quello che le due sale gli offrono di colpo, con tale intensità da renderlo, sulle prime, sconcertato. L'assimilazione, in ogni modo, è rapida: l'uomo che esce dall'ultima visita compiuta alla mostra non è lo stesso che vi era entrato due settimane avanti. Il Rilke che appartiene al nostro secolo sembra avere una seconda nascita nelle aule del Grand Palais, che Matisse e i suoi amici, quattro anni prima, avevano inaugurato in modo memorabile."""" (Dalla postfazione di Giorgio Zampa)" -
Lettere
"Il mio sbigottimento alla notizia della morte di Giorgio Morandi non è quasi tanto per la cessazione fisica dell'uomo, quanto, e più, per la irrevocabile, disperata certezza che la sua attività resti interrotta, non continui; e proprio quando più ce ne sarebbe bisogno. Non vi saranno altri, nuovi dipinti di Morandi: questo è, per me, il pensiero più straziante. E tanto più se ricordo quel che, ancora pochi giorni fa, egli mi diceva: """" Se sapesse, caro Longhi, quanta voglia ho di lavorare""""; ed anche: """"Ho delle idee nuove che vorrei svolgere..."""". Parole che denunciano l'improprietà, pur molto diffusa, di assimilare il percorso di un artista, soprattutto se anziano, a una parabola. Nella costante lucidità di Morandi, esso fu piuttosto una traiettoria ben tesa, una lunga strada; speriamo che resti aperta. Quelle poche frasi, sussurratemi nei suoi ultimi giorni (ed altre ne riporteranno certamente gli amici più vicini), stupiranno anche i molti che in Italia si sono accomodati a credere in una certa immobile comodità della posizione di Morandi dinanzi ai suoi semplici """"oggetti"""" disposti, scalati, variati, permutati; senza intendere che in quella sua lunga, instancabile, solenne """"elegia luminosa"""" - come ebbi a chiamarla presentandone la mostra al """" Fiore """" di Firenze nel '45, il giorno stesso della liberazione di Bologna"""". (Roberto Longhi)" -
Dürer mirabile incisore
Fu in Germania che, nel Quattrocento, l'invenzione della stampa, dell'incisione e della xilografia fornì al singolo la possibilità di diffondere le proprie idee in tutto il mondo. Proprio mediante le arti grafiche la Germania assurse al ruolo di grande potenza nel campo artistico, grazie principalmente all'attività di un artista che, benché famoso come pittore, divenne una figura internazionale solo per le sue doti di incisore e xilografo: Abrecht Dürer. Le sue stampe per più di un secolo costituirono il canone della perfezione grafica e servirono da modelli per infinite altre stampe, come pure per dipinti, sculture, smalti, arazzi, placche e porcellane, non solo in Germania, ma anche in Italia, in Francia, nei Paesi Bassi, in Russia, in Spagna e, indirettamente, persino in Persia. L'immagine di Dürer, come quella di quasi tutti i grandi, è cambiata secondo l'epoca e la mentalità in cui si è riflessa, ma sebbene le qualità distintive della sua innegabile grandezza furono variamente definite, questa grandezza fu riconosciuta subito e mai messa in dubbio. Con un testo di Erwin Panofsky. -
La lezione dell'antico
"L'Antico è la Vita stessa. Non v'è nulla di più vivo dell'Antico, e nessuno stile al mondo ha saputo né potuto raffigurare la Vita nello stesso modo. L'Antico ha saputo raffigurare la Vita, per che gli antichi sono stati i più grandi, i più seri, i più mirabili osservatori della Natura che siano mai esistiti. L'Antico ha potuto raffigurare la Vita, per che gli antichi, grazie a questa maestria nell'osservazione della Natura, hanno saputo vedere quel che vi è in essa di essenziale, ossia i grandi piani e i loro dettagli, le loro grandi ombre. E poiché in questo risiede la verità stessa, le loro figure, costruite secondo tali principi, hanno conservato nel corso dei secoli tutta la loro potenza. [...] L'Antico è per me la bellezza suprema, è l'iniziazione all'infinito splendore delle cose eterne: è la trasfigurazione del passato in qualcosa di eternamente vivo. I greci ci prendono per mano, ci fanno sentire la bellezza delle forme, l'elemento sacro presente in essa, ci mostrano con il loro esempio che non bisogna esser chiamati vanamente alla festa della Vita. i loro marmi sono i messaggeri divini che ci insegnano il nostro dovere"""". (Dall'introduzione). Con uno scritto di George Simmel." -
El Greco visionario illuminato
Quasi tutte le visioni sono intraviste dal purgatorio, quel gran purgatorio che era l'apoca sua, e questa è la ragione di quel giallo splendore che emerge dal fondo dei suoi quadri. El Greco vide il Signore, continua a guardarlornrn""Ogni maestro di pittura crea un'atmosfera particolare nei suoi quadri: l'atmosfera di Beato Angelico, quella di Botticelli, di Tiziano, del Greco, di Velàzquez, di Goya, di Solana. Non è una forma letteraria che va ad aggiungersi alla pittura, bensì qualcosa che scaturisce dalla superstizione dei colori, da quella tecnica che non s'impara nelle accademie e che dà luogo all'atmosfera come fosse una conseguenza spontanea. L'atmosfera del Greco odora d'umidità, di locali chiusi, di suffumigi in stanze con moribondi, di pazzia collettiva delle rinunce, di morte d'amore, di focolari pestilenti di crudeltà, di aspro timor di Dio, un timor di Dio tremendo come lo stare anni in attesa dell'esecuzione senza che il boia si decida a giungere."""""" -
Memorie di cieco. L'autoritratto e altre rovine
La scrittura di Derrida, indagando il tema della cecità in un fitto reticolo compositivo a forma di dialogo, decostruisce l'idea di una visione chiara e distinta. Una luce di tenebra attrae e avviluppa lo sguardo del lettore il quale, per mezzo del ricco apparato iconografico, ripercorre un cammino negli abissi della memoria, dove il disegno di ogni esistenza si traccia oscuramente. Lo svolgersi degli eventi e delle argomentazioni ricorda da vicino le atmosfere oniriche di Kafka o quelle allucinate e spettrali di Dostoevskij. Con ""Memorie di cieco"""" Derrida raggiunge uno dei vertici più alti del suo pensiero maturo: in un unico tessuto narrativo confluiscono i ricordi di un'intera esistenza, declinati attraverso una capacità impressionante di «utilizzo» di campi e metodologie disciplinari che spaziano dalla iconologia alla psicoanalisi, dalla storia dell'arte alla poesia. Il risultato è un testo straordinario che straborda in ogni direzione, travalicando ogni genere letterario canonico: autobiografia, romanzo di formazione, confessione, saggio filosofico, critica d'arte, libro per immagini."" -
Trattato sui principi e sulle regole della pittura
Né manuale pratico, né saggio teorico, il «Trattato» è un'analisi della pittura dal punto di vista linguistico e stilistico, in cui le competenze accumulate da Jean-Étienne Liotard in più di mezzo secolo si traducono nella definizione degli elementi essenziali del linguaggio pittorico, i dodici Princìpi, e nella formulazione di una serie di precetti inerenti la loro applicazione, le venti Regole. Nel testo l'anziano pastellista parla di temi quali l'importanza del disegno, la grazia o l'armonia, facendo riferimento alla propria opera e a quella di altri pittori contemporanei o del passato, primo fra tutti il venerato Correggio. Liotard ha qui sintetizzato un lungo lavoro di osservazione e classificazione empirica di dati relativi all'attività pittorica, deducendone poi le leggi: «la pratica ha quindi generato la teoria». Così, nelle Regole gli enunciati di carattere generale sono seguiti da esempi e dimostrazioni tratti dalla conoscenza e dalla vicenda professionale del maestro. -
Boccioni e il futurismo
«Mi conosco un poco in arte italiana, e vi posso assicurare che di grandi scultori non ne abbiamo avuti molti; ma alcuni grandissimi addirittura, che bastano. Sono Giovanni Pisano - Giotto - Jacopo della Quercia - Antonio Rizzo - Michelangelo. Eppoi di grande tradizione scultoria di grande stile - poiché voi credete bene al grande stile, lo so - più nulla. Ho già detto di passata perché non si può pretender nulla da Bernini; varrebbe la pena di cercare più tardi se non fosse per fermarci a Rosso che per quanto grande ci appare troppo spaesato per poterlo includere in questo glaciale menù di grandezze? Non credo. Bisogna dunque cercare tutti i modi - dalla impersonalità storica più irreprensibile ai pugni e alle bastonate - per far comprendere a chi spetta di comprendere, in Italia, che a quella schiera magica va aggiunto al più presto, subito, il nome di Boccioni - questo grande scultore». Postfazione di Maria Cristina Bandera. -
Il poeta e gli antichi dei
"La ricostruzione sensibile e partecipe di alcuni momenti decisivi della poesia e della riflessione hölderliniane consente a Otto di farne il paradigma del tentativo più alto e più religiosamente ispirato di riafferrare l'antico in seno alla modernità ma, al tempo stesso, il paradigma anche del suo ineluttabile fallimento. La definizione di ciò che è il «tragico» dell'esperienza hölderliniana, dietro la quale s'intravede l'ombra lunga dello scacco per molti versi analogo di Nietzsche, è la premessa dell'ultima mossa dell'indagine di Otto. Essa consiste nella riproduzione, dinanzi al fallimento del naturalismo goethiano col suo anarchico individualismo così come dinanzi al fallimento della mistica cultualità hölderliniana, della religiosità olimpica come autentica, eterna creazione del genio greco, nell'ambito di una Kulturkritik radicale, senza nostalgia né utopie. Tale è dunque la linea ispiratrice del libro, che si risolve nella constatazione dell'incapacità della poesia moderna di rivivere l'esperienza della grecità olimpica, di rifarsi epos eroico."""" (Dallo scritto di Gianni Carchia)" -
Autoritratto
Prima della Grande guerra, Man Ray già apparteneva al gruppo di pittori le cui opere avevano fatto epoca nello sviluppo delle idee artistiche rivoluzionarie. Le sue tele del 1913-1914 rivelano il risveglio di una forte personalità attraverso l'interpretazione particolare che egli dà del cubismo e della pittura astratta. Giunse a Parigi nel 1921, già noto come dadaista, e si unì al dinamico gruppo parigino con Breton, Aragon, Eluard, Tzara e Max Ernst, che avrebbero fondato il surrealismo tre anni dopo. Il cambiamento di ambiente impresse un nuovo impulso alle attività di Man Ray. Si dedicò alla fotografia e giunse a trattare l'apparecchio fotografico come trattava il pennello, ossia come un semplice strumento al servizio della mente. E sempre a Parigi, all'istituto Poincaré, che venne attirato dagli « oggetti matematici sempre belli nella loro specifica natura» e che dipinse numerose tele la cui intrinseca bellezza è posta a contatto con temi organici. Oggi, ritornato a Hollywood, dove scrive, dipinge e tiene conferenze, Man Ray ha preso posto tra i « vecchi maestri dell'arte moderna». (Marcel Duchamp. 1949) -
La Gioconda. L'illustre incompresa
"L'irresistibile evoluzione della fama della Gioconda illumina in profondità le esigenze e la povertà della cultura di massa. La notorietà dubbia, popolare, esposta al riso e alle lacrime facili, concerne un oggetto che non ha più nulla a che vedere con l'opera di un certo Leonardo da Vinci, pittore in una certa epoca del Rinascimento. Nella fabbrica insaziabile dei media, essa appartiene a un altro regno, quello delle finzioni in agguato dei divi, i personaggi destinati a un largo consumo. E distaccata da ogni realtà storica e umana. Lo scarto dalle conoscenze storiche e critiche è diventato incommensurabile.""""" -
Baudelaire e la poetica della malinconia
« Pubblicato la prima volta nel 1946, questo libro ha subìto negli anni vari processi di arricchimento. Intorno al tema centrale, la poetica della malinconia, si sono venuti disponendo altri temi e problemi che ne hanno reso più vasta e articolata la struttura. Il lettore non si sorprenderà se delle parti di questa nuova edizione la seconda sia dedicata soltanto ai ""progetti"""". Nell'arco di un'ideale biografia, delineata in quelle pagine, dalla dichiarazione del ragazzo: """"Je suis un esprit à projets"""", fino ad una delle ultime confessioni: """"Je pas encore connu le plaisir d'un plan réalisé"""", l'opera di Baudelaire così finita e impeccabile sembra specchio deformante, infinito e illusorio, dove immagini chiare, riconoscibili, cedono ad altre oscure, indecifrabili. Sono i progetti, e riflettono la condizione tipica del poeta moderno, torturato dalla critica, atterrito dalla sterilità, visitato dall'""""impuissance"""", e che sente d'esser prossimo al naufragio.»"" -
Pellegrinaggi d'arte
"In passato, quando mi ponevo di fronte a un lavoro d'arte, la sua appartenenza a una particolare serie di lavori, a una certa epoca, a una determinata scuola, mi assorbiva in modo così completo ch'esso perdeva per me la propria specificità. Era mia regola costante, allora, cercar di conoscere tutto quello che si sapeva in proposito. Non intendo dire dell'oggetto in questione, bensì del genere al quale apparteneva: cristiano dei primi secoli, bizantino, romanico, gotico e così via. Mi sprofondavo interamente nell'uno o nell'altro di quei grandi capitoli e li vivevo in serie successive. L'individuale, lo specifico lavoro artistico da cui avevo preso le mosse non era che un ago dentro il mucchio di fieno costituito dal suo genere: un ago da scoprire, il giorno che ne avessi avuto voglia, sulla scorta delle indicazioni affidate alla memoria o alla carta. (...) Ora capisco bene di aver perduto gran parte di quanto in passato mi accompagnava come un patrimonio sempre disponibile. Ho perduto memoria di fatti e di nomi, ho perduto moltissimo di quanto costituiva il corredo dottrinale riferentesi a questa o a quell'opera: quasi tutto ho perduto, ma non la prospettiva e la processione del tempo, ossia ciò che costituisce il senso da cui la cultura viene generata."""" (Bernard Berenson). Con uno scritto di Emilio Cecchi." -
Caravaggio
«Non può sorprendere che, per una vicenda tormentosa e sciagurata come quella del Caravaggio, gli storiografi del Seicento più romanzevole e del più romantico Ottocento si industriassero a trasformarne ogni passo, fin dai princìpi, ad uso di un ritratto spiccatamente popolare (ciò che per essi suonava ""plebeo"""") e cioè adatto a spiegare la spregiudicata e, si diceva, """"indecorosa"""" naturalezza dell'artista. Fu così che il Caravaggio, già da ragazzo, in Lombardia, si tramutò in figlio di muratore, in rimestatore di calcine e preparatore di colle per gli imbianchini milanesi. Il resto della sua vita, soprattutto negli anni di Roma, Napoli e Malta, non aveva certo bisogno di esser rinforzato nelle tinte, ma pure non si mancò di farlo e persin la sua morte, per ragioni di corrispondenza simbolica, si amò fissare un anno prima del vero»."" -
Querido doctorcito. Lettere a Leo Eloesser
«Il carteggio tra Frida Kahlo e il dottor Leo Eloesser dura anni - dal 1931 al 1951 - e racchiude indizi di quotidianità, del rigore di un'amicizia profonda, di un dottore che conosce oltre ai dolori del corpo, quelli dell'animo della propria paziente. Si presentano qui le lettere di Frida, scritte a mano o a macchina, che permettono di ricostruire la sua storia clinica e i sintomi nell'animo: i dolori alla schiena e alla gamba destra, la stanchezza cronica, il brutale dimagrimento... ma anche la ferita aperta per l'amore tradito, l'impulso politico. Musa dell'artista è sempre il dolore.» (M. Cristina Secci) -
Lettere e interviste
Balthasar Klossowski, in arte Balthus (1908-2001), è stato uno dei maggiori e più discussi pittori del Novecento. Figlio di uno storico dell'arte e di una pittrice, amico di famiglia di Bonnard, Derain, Gide e soprattutto di Rilke, col quale la madre ha un lungo legame sentimentale, inizia a dipingere giovanissimo, raccogliendo le istanze classiche del Ritorno all'ordine. La sua pittura, inizialmente vicina al «teatro della crudeltà» di Artaud e pervasa da un ansioso erotismo, si incentra in seguito su un mondo di bambine e adolescenti insieme provocatorie e angeliche. Il volume raccoglie, per la prima volta in Italia, le più importanti lettere dell'artista: quelle scritte da Arezzo e dal Marocco, in cui Balthus registra esperienze ed emozioni (la visione di Piero della Francesca, il colore di Kenitra); quelle al padre, a cui racconta ideali, difficoltà, insuccessi; quelle ad Antoinette, a cui lo lega un tenero e contrastato rapporto sentimentale, e a cui confida il significato dei suoi maggiori dipinti. Alle lettere si aggiungono alcune testimonianze altrettanto preziose: le interviste in cui l'artista, ormai vecchio, ripercorre le vicende della sua vita, parlando della pittura, dell'eros, delle sue modelle, e rivelando tra l'altro un'inaspettata tensione religiosa. -
Chagall
«Léger e Delaunay, racconta Chagall, gli rimproveravano (prima del 1914) d'essere un pittore ""letterario"""". Se tengo a questo banale aneddoto al punto di farne la frase iniziale del libro che comincio a comporre su di un soggetto particolarmente esaltante, Chagall e la sua opera, è perché testimonia l'irritazione o il dispetto, il fraintendimento o la gelosia mostrati da quegli artisti che sono soprattutto esecutori manuali verso quelli che pongono le loro dita al servizio della propria intelligenza o di un grande sogno appassionato. Mi hanno detto, e me lo diranno ancora, che proprio perché sono uno scrittore e (ancor peggio) un """"letterato"""" e un """"intellettuale"""" preferisco la seconda specie alla prima. Non è affatto così. Credo di non falsare la verità scrivendo che raramente mi sono trovato in disaccordo con i semplici, gli innocenti e i primitivi (che d'altra parte non sono, questi ultimi, né semplici né innocenti), e che le reazioni di questi o di quelli non sono che di rado molto diverse dalle mie quando osserviamo insieme delle cose dipinte, disegnate, scolpite, modellate, tessute, così da rientrare in una delle innumerevoli categorie di ciò che viene chiamato arte, con la """"a"""" minuscola o maiuscola. La letteratura ordinaria, ahimè, è tanto priva di fantasia quanto lo è la pittura ordinaria, e in Francia un po' più tristemente che altrove»."" -
Pollock painting
«La mia pittura non nasce sul cavalletto. Non tendo praticamente mai la tela prima di dipingerla. Preferisco fissarla non tesa sul muro o per terra. Ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Mi sento più a mio agio se la tela è stesa sul pavimento. Mi sento più vicino, più parte del quadro: posso camminarci intorno, lavorare sui quattro lati, essere letteralmente nel quadro. È un metodo simile a quello degli indiani del West che lavorano sulla sabbia. Mi allontano sempre più dagli strumenti tradizionali del pittore come il cavalletto, la tavolozza, i pennelli... Preferisco la stecca, la spatola, il coltello e la pittura fluida che faccio sgocciolare, o un impasto grasso di sabbia, di vetro polverizzato e di altri materiali non pittorici. Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che faccio. Solo dopo, in una sorta di ""presa di coscienza"""", vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di modificare, di distruggere l'immagine, perché un quadro ha una vita propria. Tento di lasciarla emergere. Solo quando perdo il contatto con il quadro il risultato è caotico. Solo se c'è un'armonia totale, un rapporto naturale di dare e avere, il quadro riesce».""