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La dentiera di Washington. Considerazioni critiche a proposito di illuminismo e modernità
«...l'illuminismo russo e quello rumeno, l'illuminismo pietista e quello ebraico, l'illuminismo musicale e quello religioso: questo illuminismo comincia ad essere tutto, e dunque nulla.Propongo la deflazione». Secondo la vulgata, gli illuministi erano honnêtes hommes, «figli della luce contro i demoni delle tenebre». Eppure i molti illuminismi cui la storia degli ultimi secoli ha dato voce per condurre le proprie battaglie «progressiste» sembrano in verità non aver sortito alcun illuminismo che possa realmente dirsi tale.Con questo breve, brillante intervento, Robert Darnton - uno dei massimi esperti mondiali del secolo dei philosophes - si oppone all'interpretazione comune che legge l'illuminismo come massima espressione del pensiero occidentale moderno, fino a identificare addirittura il primo termine con il secondo. È proprio questa identificazione ad aver fatto sì che lo stesso razionalismo illuministico sia divenuto sinonimo di modernità - e dunque, nel dibattito critico e storiografico contemporaneo, principale bersaglio dell'antioccidentalismo dei postmoderni. In realtà l'età dei Lumi ha coinciso con un periodo di crisi profonda della Francia di antico regime: in seguito, l'aspirazione all'universalismo che aveva contraddistinto il pensiero dei philosophes ha mascherato spesso l'egemonia occidentale, e il suo impatto distruttivo sulle altre culture. E sono proprio, paradossalmente, alcuni esiti dell'illuminismo ad aver fatto da punto di riferimento delle successive ideologie totalitarie. Si tratta, allora, di riformulare una definizione di illuminismo più circostanziata ed accorta, e soprattutto di accogliere, accanto al vecchio nucleo di pensiero razionalistico, nuove istanze di eguaglianza razziale, di effettiva modernità ideologica, di autentica avversione a ogni fanatismo. -
Trenta tesi per la Sinistra
Trenta tesi che cercano di rispondere ad altrettanti quesiti fondamentali; che pongono altrettanti, e forse più, argomenti di discussione. Ma che ruotano - tutte - intorno ad una questione decisiva: è possibile riconoscersi ancora nel nome e nel punto di vista della sinistra? E se è possibile, può la sinistra opporsi all'ultraliberismo dilagante che in nome di un libero mercato sta cercando di prendere la guida dei processi di globalizzazione? Non solo è possibile, ma appare sempre più necessario - sostiene Alain Caillé, fondatore e animatore in Francia del movimento antiutilitarista nelle scienze sociali - a patto che la sinistra sia in grado di rinnovare il proprio patrimonio simbolico, teorico e critico.Circolate fino ad ora allo stato di bozza nei circuiti intellettuali francesi e italiani, queste Trenta tesi per la sinistra costituiscono un vero e proprio manifesto: un appello a quanti ancora non si rassegnano all'idea di un'espansione indefinita della deregulation economica e del corporativismo burocratico, o ad un sistema sociale che vede un'esplosione scandalosa delle diseguaglianze.Attorno alle Trenta tesi si è subito sviluppato un acceso dibattito. Tra le voci più autorevoli, quelle di Franco Cassano, Roberto Esposito, Serge Latouche ed Eligio Resta, che vengono qui proposte come commento alle posizioni dell'autore. Un'introduzione di Carlo Grassi presenta la discussione e confronta i differenti punti di vista. -
Storia contemporanea
UN NUOVO MANUALE DI STORIA PER L'UNIVERSITÀ. STORIA CONTEMPORANEA. Presentazione dell'editore. A dispetto delle periodiche dichiarazioni di crisi, nelle società contemporanee la storia rimane una delle discipline essenziali per la formazione civile. Si modificano i suoi statuti, si trasformano gli ambiti della sua applicazione, mutano i confini e i punti di contatto con altri saperi, cambiano le gerarchie dei fatti e le sensibilità con cui essi vengono rilevati: ma la storia resta al centro dei percorsi intellettuali e delle strategie formative della nostra cultura. Negli ultimi tempi, però, la storia sembra aver perso molte delle sue certezze esplicative, e soprattutto la capacità, se non di divinare il futuro, di prefigurarne almeno la direzione, indicando il senso del movimento che dal passato porta al presente. Caduta l'idea di uno sviluppo lineare delle società umane, spezzatosi il filo di un percorso evolutivo che legasse irrevocabilmente le conquiste e i progressi della conoscenza a un «avanzamento» generale e condiviso, messa in forse la tensione verso un obiettivo ultimo, verso un fine da raggiungere, la storia può sembrare - e a molti così oggi appare - una fatica inutile, un esercizio erudito fine a se stesso.Dove trovare dunque, oggi, il senso della storia? Non più, come è accaduto nel passato, nella presunta univocità della sua direzione; ma forse esattamente nel suo contrario. Nessuna disciplina come la storia sa mostrare la pluralità delle opzioni possibili, il carattere non preordinato degli eventi, la molteplicità dei percorsi che portano in ciascun ambito al prevalere di questa o quella configurazione. La storia mostra, in una parola, il carattere aperto delle vicende umane, e testimonia per questa via come non vi sia un solo mondo possibile.Ma la storia mostra anche, oggi più che mai, quanto i fatti stessi siano poco oggettivi, quanto essi siano opachi, fuori da una accorta selezione e discussione, quanto poco dotati di una evidenza esplicativa. È lo storico a prelevarli dal passato e a organizzarli in sequenza, in racconto, a farne oggetto di storia. Ed è precisamente nel carattere soggettivo di tale selezione e organizzazione dei fatti che la storia si rivela come un atto di conoscenza creativa.A ben vedere, ogni conoscenza storica si è strutturata e si struttura attorno a questioni, a interrogativi che hanno posto e pongono altrettante biforcazioni, a domande che hanno postulato e postulano diverse possibili risposte. La storia, in questo senso, non può mai essere scissa dalla storiografia, giacché essa diviene tale, si fa racconto, interpreta dati e documenti, solo a partire dalle domande che ad essa si pongono. E le domande storiche non hanno mai, per definizione, una risposta univoca, ma corrispondono appunto a diverse possibili ricostruzioni, a differenti possibili percorsi.Da qui nasce l'intreccio tra il passato della storia raccontata e il presente dello storico che la racconta. Si può dire che ogni questione storica ha avuto e ha un proprio tempo: nel doppio senso che ha un tempo rispetto al quale viene posta, e un tempo in cui si pone, un tempo nel passato che... -
Giocare la vita. Storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento
«Napoli» e «lotto» sono due parole strettamente connesse nella nostra immaginazione. Il più classico tra i giochi d'azzardo - il gioco dei novanta numeri, ciascuno dei quali è associato, per il tramite della Smorfia-Morfeo, a un qualche significato onirico e simbolico - lega indissolubilmente cifre e sogni, calcoli e divinazione dei propri destini. E tutto questo ha in Napoli, nei suoi botteghini, nei palazzi, nei vicoli, la sede deputata, il luogo imprescindibile.Questo libro di Paolo Macry da una parte ricostruisce la storia di fenomeni sociali, culturali e istituzionali che hanno avuto indubbia rilevanza in gran parte dell'Europa sette-ottocentesca. Dall'altra, analizza il concreto intrecciarsi, nella pratica delle scommesse, di alcune categorie sulle quali le scienze sociali lavorano da tempo: la casualità e il calcolo, le aspettative «razionali» e i comportamenti «irrazionali», il rischio e l'utile economico, il materiale e l'immateriale. Sottesa a questo lavoro, colto e curioso, rigoroso e insieme partecipe, sta una convinzione: che nel dibattito così attuale tra strutture e culture, tra moderno e postmoderno, i temi della divinazione, del caso, del gioco, abbiano qualcosa da dire. Molto di più di quanto spesso non appaia.A Napoli il lotto costituisce un fenomeno capace di veicolare cultura e diventare idioma collettivo. Al tempo stesso, produce un circuito di ridistribuzione di risorse materiali, che è gigantesco, capillare e polverizzato. L'attenta considerazione di giocate e vincite mostra che alla fine i napoletani vincono poco ma vincono tutti e spesso, mescolando sapientemente la passione per i novanta numeri, l'esperienza personale, i limiti imposti da magri bilanci familiari e, se del caso, trucchi e sotterfugi. Lo Stato, quello borbonico, gestisce il tutto con grande accortezza, creando un clima fiduciario, assecondando la cultura del suo pubblico, cercando di limitare i propri rischi. Il lotto napoletano sarà fonte di grossi guadagni per l'erario e durerà nel tempo come nessun'altra lotteria che si conosca. -
Lo stato sociale in Italia 1997. Rapporto annuale Iridiss-CNR
I risultati del compromesso siglato ad Amsterdam tra il 17 e il 18 giugno 1997, in quella che è stata chiamata la notte dei veti incrociati, ci danno la misura delle difficoltà da superare per trovare linee europee di convergenza sul piano delle politiche sociali, in un momento in cui l'emergenza occupazione colpisce la quasi totalità dei paesi membri dell'Unione Europea. Non meno complessi i nodi da sciogliere in Italia, tenendo conto, da un lato, dei vincoli posti e confermati dal trattato di Maastricht e, dall'altro, della nuova domanda sociale proveniente dalle giovani generazioni.Salvaguardare, rimodellandolo, un sistema di protezione sociale vuol dire assicurare a tutti eguaglianza effettiva di opportunità, assumendo quali priorità la piena occupazione e i processi formativi ad essa funzionali.Occorre partire da questi presupposti per ridisegnare i contenuti e le stesse forme istituzionali del welfare state, per adeguarlo alla nuova configurazione assunta dalla questione sociale all'alba del XXI secolo. È necessario contenere, e in alcuni casi ridurre, il sostegno ai gruppi sociali già tutelati, a partire dal settore pensionistico; abbassare il tasso di universalismo e la protezione nei confronti dei ceti abbienti; spostare le risorse verso la nuova domanda sociale a tutela dei settori più svantaggiati. -
L' imperatore Giuliano e l'arte della scrittura
«Associando curiosamente allo starnuto e alla tosse l'invenzione umana dei miti, Giuliano ci lascia intendere che ci sono sempre stati e sempre ci saranno dei miti sulla terra. Ma perché gli uomini sempre e ovunque inventano delle storie false, prendendole talvolta per storie vere?». Prendendo spunto da una serie di osservazioni di Leo Strauss sulla retorica classica, Kojève si concentra in questo breve ma folgorante saggio sulle implicazioni etiche della cosiddetta «arte di scrivere». La dissimulazione letteraria, la capacità di mascherare i pensieri dietro un discorso che sia in grado di celarne - lasciandolo però intendere - il vero messaggio, è un artifizio retorico che trova le sue radici nell'età classica.Attraverso una parafrasi serrata e puntuale degli scritti filosofici dell'imperatore Giuliano l'Apostata (vissuto nel IV secolo dopo Cristo), Kojève giunge a delineare le principali componenti etiche e dialogiche del parlare «mascherato». L'analisi degli insegnamenti di Giuliano (il primo dei quali è che «non si deve dire tutto, ed anche di quel che si può dire si devono nascondere alcune cose alla grande massa») mostra la polemica che l'imperatore intrattenne nel corso dei suoi scritti con il mito (il mito teologico in particolare), da lui giudicato come parte del discorso inevitabilmente autocontraddittoria perché «racconto di storie false sotto una forma credibile». Ma Kojève mostra come questa avversione alla forma mitica del discorso non impedì tuttavia che lo stesso Giuliano, per convincere sotterraneamente il popolo dell'assurdità del cristianesimo, facesse uso dei miti teologici pagani, dando altresì a questo genere di dissimulazione un sottointeso valore pedagogico ed etico. Da qui si evince la controversa natura del mito, e in genere la complessità e plurivocità del parlare indiretto e cifrato.Modello esemplare di limpidezza teorica e stilistica, questo saggio del grande studioso di Hegel si inscrive nella riflessione sull'etica della retorica e sul mito, mettendo in luce una parte importante e poco conosciuta del suo pensiero. -
L' Italia dei municipi. Il movimento comunale in età liberale (1879-1906)
Il movimento comunale italiano si sviluppa tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento contemporaneamente alla grande crescita economica e alla rivoluzione demografica che investe le città e i paesi di tutta Italia. La costituzione nel 1901 di una struttura permanente del movimento, L'Associazione dei comuni italiani, non avrebbe cambiato di molto l'atteggiamento totalmente negativo che fin dal secolo precedente il governo aveva manifestato verso le richieste degli enti locali.Le novità venivano piuttosto dai comuni, dalle loro proteste organizzate, dalle pressioni che questi, attraverso parlamentari amici - liberali come della sinistra - facevano su un governo che caricava di spese i municipi e sottraeva loro risorse per ripianare il deficit dello Stato, un governo che scioglieva i consigli comunali spesso calpestando le leggi. La novità soprattutto era nell'originalità delle iniziative dei comuni. La più importante era quella - del 1906 - per la costituzione di un Consiglio superiore dei comuni che avrebbe dovuto regolare i rapporti tra governo e il complesso dei municipi, ma che sarebbe stata realizzata solo nel 1996, con la nascita della Conferenza Stato-Città e Autonomie locali.L'atmosfera di collaborazione tra comuni instaurata nelle assemblee dei sindaci avrebbe favorito la nascita, nel 1905, vent'anni prima dell'Istat, dell'Unione statistica delle città italiane, un'organizzazione che elaborava dati statistici sulla realtà urbana, indispensabili per programmare l'attività comunale. Lo stesso spirito di cooperazione avrebbe poi permesso l'avvio, nel 1909, della Federazione nazionale delle aziende municipalizzate.Lo studio di Oscar Gaspari narra di questa vicenda che ha visto tra i protagonisti, insieme ad amministratori e politici di tutti i partiti, e di tutta l'Italia, personalità di grande rilievo come Salvemini, Bonomi, Sturzo. Una vicenda della quale non si aveva quasi nessuna memoria, come se la storia del movimento comunale non fosse stata degna di passare dalla prime pagine dei giornali e delle riviste dell'epoca a quelle dei libri di storia di oggi. -
Lettera di una professoressa. Trent'anni dopo Barbiana
Quanto è lontana e inattuale, oggi, la Lettera a una professoressa? Merita ancora una risposta, il ragazzo a cui don Lorenzo Milani affidò trent'anni fa la sua caustica denuncia dei mali della scuola italiana? In realtà, in questa scrittura autobiografica di una professoressa «inguaribile», il confronto con i sensi di colpa e le speranze che quel libro evocava costituiscono un filo che si dipana, fino a contenere l'esperienza vissuta di trent'anni di scuola. L'interlocutore continuamente si sdoppia: al ragazzo di Barbiana si sovrappongono con forza le immagini di alunni reali, che si sono avvicendati nel corso degli anni, mentre si chiama in causa con rabbia chi ha contribuito a mettere la scuola in ginocchio. Lo scenario è mutevole e descrive un mondo attraversato da una crisi radicale, ma in cui la vita non si rassegna a morire. E la lettera non è una risposta, non ha certezze da brandire: si traduce piuttosto in un racconto di motivazioni profonde, di affetti forti ed essenziali, i soli argini alla distruzione incombente, che minaccia sempre più da vicino la scuola.Così, Barbiana è lontana e vicina a un tempo. Non è solo un luogo di radici e di inizio. Certamente ci rimanda l'immagine di un mondo diverso, in cui l'ingiustizia sembrava semplice e univoca, e che però già conteneva il presentimento di molti dei mali presenti. Quella tensione morale, intanto, non è più una ricetta: ma costituisce ancora una forza. -
Storie dell'arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali
Quello dello storico dell'arte è un mestiere difficile, per certi versi atipico, che ancor oggi trova ostacoli «nel difendere la propria parità di diritti tra le discipline storiche». Una volta vagliata, nella maniera più rigorosa, la quantità delle testimonianze e dei referti, una volta ricostruita la gamma dei temi iconografici, rimane infatti, sottesa ad ogni operazione di lettura critica di un'opera d'arte, la questione della «qualità figurativa», dello «stile» (tanto di maestri singoli, quanto di scuola e di epoca). È una questione che non può essere né aggirata né rimossa, e che rinvia al vero carattere della storia dell'arte, situata all'intersezione tra tradizione e innovazione individuale, tra tecniche, culture e creatività.Giovanni Romano sceglie di affrontare - in questo libro che suona quasi come un'autobiografia - i nodi del suo mestiere di storico d'arte attraverso un dialogo fitto e serrato con i protagonisti della storia dell'arte di questo secolo. Il portato della grande tradizione idealistica, così come si esprime in Toesca e Longhi, con la necessità però di riconoscere al lavoro critico anche uno spessore di riferimenti concreti; il caso - anomalo per l'Italia - di Wittkower, che costeggia l'introduzione nel nostro contesto della storia culturale per immagini proposta da Aby Warburg; il difficile tentativo di Giovanni Previtali di ritrovare un equilibrio tra interpretazione e contesto storico.Momenti diversi - «storie dell'arte», appunto - non riconducibili all'unitarietà di una ricostruzione univoca. Luoghi di una riflessione aperta su un mestiere che trova nella difficoltà della propria definizione parte essenziale del suo fascino. -
Ti ricordi, Baggio, quel rigore? Memoria e sogno dei mondiali di calcio
Pasadena, '94. Italia e Brasile sono in finale e Baggio deve calciare il suo rigore. Cosa gli passa per la testa, in quell'attimo? E che cosa passa per la testa a tutti noi, a ciascuno di noi che lo guardiamo? Ora, tutti sappiamo come è andata a finire. Ma per quale fattura, per quale magia Baggio, di fronte al portiere brasiliano Taffarel, ha combinato quello che ha combinato? L'autore di questo libro - un brasiliano che vive in Italia e che racconta il pallone con la stessa abilità con cui Garrincha lo toccava - dilata il senso di quel rigore, di quella partita, di quel mondiale. E, affidandosi alla propria storia e alle mille storie altrui, «convoca», in un match che somiglia maledettamente alla vita, Bearzot e Paolo Rossi, Tabucchi e Camus, Arpino e Soriano, Zico e Maradona. In palio ci sono i sentimenti, le passioni, le memorie. Un ragazzo che desiderava diventare un grande centravanti come Pietro Anastasi, e che si ritrova a inseguire - del pallone - i segni, le metafore, i sogni. Tutti i mondiali, a memoria. Tutte le partite. Tutti i risultati. Tutte le formazioni. Una mole mostruosa di dati condivisi, su cui ci si interroga a vicenda, per vedere chi è più bravo. Ma alla fine, nel fondo del cuore, ognuno ha il «suo» mondiale: guai a chi glielo tocca. -
La chiesa post-moderna. Verità e consolazione
Dopo un lungo tempo di emarginazione, la Chiesa cattolica è tornata nuovamente e prepotentemente in prima pagina. Un protagonismo stimolato dalle folle che accolgono il papa nei suoi viaggi, dai media che ne amplificano continuamente le immagini, i gesti, le parole. A questa nuova attenzione si accompagna una rinnovata capacità: la Chiesa sembra oggi in grado di rispondere, meglio e più acutamente di tante altre istituzioni del nostro tempo, a una generale richiesta di senso, di serenità, di benessere interiore. Solidamente collocata al centro di questo nostro mondo post-moderno, l'istituzione cattolica conosce così, forse come non mai, la soddisfazione del successo; molti la esaltano, tutti la rispettano, nessuno o quasi più la combatte.Ma - sostiene Filippo Gentiloni in questo intenso pamphlet, un sasso scagliato dall'interno dello stesso mondo cattolico - si tratta di un successo che la Chiesa rischia di pagare al prezzo di un notevole appiattimento della sua cruciale missione. Non più e non tanto la verità sembra infatti essere l'oggetto della sua predicazione, quanto piuttosto la ricerca della consolazione; non tanto l'al di là, quanto piuttosto l'al di qua. Il prete stesso, un tempo figura centrale dell'annuncio della verità, finisce con l'essere spesso un succedaneo dell'operatore sociale o dello psicologo. Una supplenza che rischia di non giovare né alla nostra società pluralista e multiculturale, né all'autenticità del messaggio cristiano. -
Manuale di filosofia pratica. Vol. 2
"Io vivo, dunque io spero. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza"""". (Giacomo Leopardi). La felicità è il tema di questo secondo percorso, tracciato da Leopardi sul retro della stessa scheda che contiene anche gli Indici del Trattato delle passioni, quasi a segnarne così la specularità e la necessità reciproche. Di fronte alla passione, che vince sempre sulla ragione, e quindi di fronte all'analisi delle pulsioni che muovono il comportamento individuale, si delinea il discorso del Manuale di filosofia pratica, definito dall'autore «un Epitteto a modo mio»: questa definizione dà il significato del discorso leopardiano, volto in prima istanza a tracciare sull'esempio di Epitteto un manuale, cioè un insieme di regole per cercare di essere felici.La ricetta per la felicità risiede, secondo le norme dell'insegnamento stoico epittetiano, nel controllo delle passioni, nel limite al desiderio, nella scelta di una regola fondamentale cui attenersi per vivere moralmente. A questa scelta filosofica, che comunque sente come sua per elevatezza e senso elitario, Leopardi si oppone, non riuscendo ad arginare nell'incalzare del suo discorso la violenza del desiderio che caratterizza di per sé la vita dell'uomo. L'uomo in quanto tale si ama, e amandosi, naturalmente, non può fare a meno di desiderare. Così ogni momento della vita è un atto di desiderio che invano le regole delle antiche filosofie morali tenteranno di ricondurre nei limiti consentiti per raggiungere la quiete, il non turbamento, l'apatia: di fronte alla quiete dopo la tempesta delle passioni, si erge l'inquietudine da’ desiderii che connota ogni forma del sentire umano. La disperazione della felicità, allora, risiede nell'impossibilità di porre un limite al desiderio, infinito e illimitato come l'amore, e come l'amore fonte essenziale di vita e di piacere. PIANO DELL'OPERA. I. Trattato delle passioni.II. Manuale di filosofia pratica.III. Della natura degli uomini e delle cose.IV. Teorica delle arti, lettere. Parte speculativa.V. Teorica delle arti, lettere. Parte pratica.VI. Memorie della mia vita." -
Storia medievale
UN NUOVO MANUALE DI STORIA PER L'UNIVERSITÀ. STORIA MEDIEVALE. Presentazione dell'editore. A dispetto delle periodiche dichiarazioni di crisi, nelle società contemporanee la storia rimane una delle discipline essenziali per la formazione civile. Si modificano i suoi statuti, si trasformano gli ambiti della sua applicazione, mutano i confini e i punti di contatto con altri saperi, cambiano le gerarchie dei fatti e le sensibilità con cui essi vengono rilevati: ma la storia resta al centro dei percorsi intellettuali e delle strategie formative della nostra cultura. Negli ultimi tempi, però, la storia sembra aver perso molte delle sue certezze esplicative, e soprattutto la capacità, se non di divinare il futuro, di prefigurarne almeno la direzione, indicando il senso del movimento che dal passato porta al presente. Caduta l'idea di uno sviluppo lineare delle società umane, spezzatosi il filo di un percorso evolutivo che legasse irrevocabilmente le conquiste e i progressi della conoscenza a un «avanzamento» generale e condiviso, messa in forse la tensione verso un obiettivo ultimo, verso un fine da raggiungere, la storia può sembrare - e a molti così oggi appare - una fatica inutile, un esercizio erudito fine a se stesso.Dove trovare dunque, oggi, il senso della storia? Non più, come è accaduto nel passato, nella presunta univocità della sua direzione; ma forse esattamente nel suo contrario. Nessuna disciplina come la storia sa mostrare la pluralità delle opzioni possibili, il carattere non preordinato degli eventi, la molteplicità dei percorsi che portano in ciascun ambito al prevalere di questa o quella configurazione. La storia mostra, in una parola, il carattere aperto delle vicende umane, e testimonia per questa via come non vi sia un solo mondo possibile.Ma la storia mostra anche, oggi più che mai, quanto i fatti stessi siano poco oggettivi, quanto essi siano opachi, fuori da una accorta selezione e discussione, quanto poco dotati di una evidenza esplicativa. È lo storico a prelevarli dal passato e a organizzarli in sequenza, in racconto, a farne oggetto di storia. Ed è precisamente nel carattere soggettivo di tale selezione e organizzazione dei fatti che la storia si rivela come un atto di conoscenza creativa.A ben vedere, ogni conoscenza storica si è strutturata e si struttura attorno a questioni, a interrogativi che hanno posto e pongono altrettante biforcazioni, a domande che hanno postulato e postulano diverse possibili risposte. La storia, in questo senso, non può mai essere scissa dalla storiografia, giacché essa diviene tale, si fa racconto, interpreta dati e documenti, solo a partire dalle domande che ad essa si pongono. E le domande storiche non hanno mai, per definizione, una risposta univoca, ma corrispondono appunto a diverse possibili ricostruzioni, a differenti possibili percorsi.Da qui nasce l'intreccio tra il passato della storia raccontata e il presente dello storico che la racconta. Si può dire che ogni questione storica ha avuto e ha un proprio tempo: nel doppio senso che ha un tempo rispetto al quale viene posta, e un tempo in cui si pone, un tempo nel passato che... -
Scritti politici
Gli scritti politici di Max Weber rappresentano uno dei momenti fondamentali del pensiero strategico del nostro secolo. Uno dei passaggi costitutivi dell'identità etico-filosofica del Novecento. Questa raccolta - la prima ad essere condotta sull'edizione critica tedesca - ricostruisce tutto il percorso della riflessione weberiana, dalla prolusione accademica del 1895 intitolata ""Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca"""", attraverso i saggi concepiti negli anni drammatici della prima guerra mondiale, fino agli scritti dei giorni della sconfitta del Reich e della nascita della Repubblica di Weimar.Autore contraddittorio, drammatico, addirittura luciferino, Max Weber, come ogni classico, è discusso e discutibile. Teorico dello stato di potenza e spietato cartografo del volto diabolico del potere, addirittura predecessore spirituale di Carl Schmitt come hanno sostenuto autori quali Karl Löwith e Wolfgang J. Mommsen? O, al contrario, disincantato cultore delle ragioni della ragione, ostinato difensore della sobria distinzione tra «fatti» e «valori», tra «etica della convinzione» ed «etica della responsabilità» come preferisce la tradizione analitica dei paesi anglosassoni? In ogni caso dalla lettura di questi saggi, alcuni dei quali sono anche da un punto di vista letterario davvero sorprendenti - si pensi ai riferimenti all'opera di Tolstoj o a quella di Baudelaire - esce confermata la straordinaria, tragica grandezza spirituale di un autore che sulle orme di Marx e Nietzsche ha, anche personalmente, sofferto oltre che profeticamente anticipato i caratteri contraddittori e le inconciliabili aporie del pensiero moderno."" -
Cool Britannia. Gli inglesi (e gli italiani) visti da Londra
"Cool Britannia"""" è un'espressione chiave per comprendere l'Inghilterra di oggi; """"cool"""" vuol dire più o meno quello che in Italia vuol dire """"ganzo"""", """"figo"""": qualcosa di nuovo, di creativo, qualcosa che fa tendenza. E' certo che la Gran Bretagna è oggi """"un punto d'osservazione molto elevato per leggere la modernità: forse è il punto più elevato d'Europa"""". Forte di questo convincimento, Antonio POLITO, uno dei più prestigiosi e autorevoli giornalisti italiani, ha deciso, qualche tempo fa, di accettare l'incarico di corrispondente da Londra per il suo giornale, «La Repubblica». Ma questo libro non è la raccolta di articoli già editi. È, al contrario, lo sforzo di praticare un differente e originale registro di riflessione. L'Inghilterra ha imboccato con più decisione di ogni altro paese la strada della deindustrializzazione, della deregulation, della flessibilità: tutte cose cui Polito guarda con dichiarata simpatia. E i cambiamenti non riguardano solo gli aspetti esteriori, ma coinvolgono in profondità gli stili di vita.Una serie di sguardi taglia quest'isola della trasformazione in atto, e la riconnette con i suoi tratti costitutivi di lungo periodo: le """"geometrie"""" della politica britannica, in cui maggioranza e opposizione siedono contrapposte, e non affiancate senza soluzione di continuità; i meccanismi """"popolari"""" della stampa e dell'informazione; le tre regine - la regina madre, la regina regnante, e Diana, la regina di cuori - disposte a configurare l'intero spettro psicologico delle possibili identità; la prostituzione e il liberalismo; l'individualismo e il mare; la disoccupazione e lo spogliarello maschile come risorsa. Leggere Londra con lo sguardo di un italiano significa riattivare, contro ogni pigrizia, la riflessione su di noi. Significa anche leggere l'Italia da Londra, cercando di vedere in che cosa, eventualmente, questi benedetti inglesi sono meglio di noi." -
Storia moderna
UN NUOVO MANUALE DI STORIA PER L'UNIVERSITÀ. STORIA MODERNA. Presentazione dell'editore. A dispetto delle periodiche dichiarazioni di crisi, nelle società contemporanee la storia rimane una delle discipline essenziali per la formazione civile. Si modificano i suoi statuti, si trasformano gli ambiti della sua applicazione, mutano i confini e i punti di contatto con altri saperi, cambiano le gerarchie dei fatti e le sensibilità con cui essi vengono rilevati: ma la storia resta al centro dei percorsi intellettuali e delle strategie formative della nostra cultura. Negli ultimi tempi, però, la storia sembra aver perso molte delle sue certezze esplicative, e soprattutto la capacità, se non di divinare il futuro, di prefigurarne almeno la direzione, indicando il senso del movimento che dal passato porta al presente. Caduta l'idea di uno sviluppo lineare delle società umane, spezzatosi il filo di un percorso evolutivo che legasse irrevocabilmente le conquiste e i progressi della conoscenza a un «avanzamento» generale e condiviso, messa in forse la tensione verso un obiettivo ultimo, verso un fine da raggiungere, la storia può sembrare - e a molti così oggi appare - una fatica inutile, un esercizio erudito fine a se stesso.Dove trovare dunque, oggi, il senso della storia? Non più, come è accaduto nel passato, nella presunta univocità della sua direzione; ma forse esattamente nel suo contrario. Nessuna disciplina come la storia sa mostrare la pluralità delle opzioni possibili, il carattere non preordinato degli eventi, la molteplicità dei percorsi che portano in ciascun ambito al prevalere di questa o quella configurazione. La storia mostra, in una parola, il carattere aperto delle vicende umane, e testimonia per questa via come non vi sia un solo mondo possibile.Ma la storia mostra anche, oggi più che mai, quanto i fatti stessi siano poco oggettivi, quanto essi siano opachi, fuori da una accorta selezione e discussione, quanto poco dotati di una evidenza esplicativa. È lo storico a prelevarli dal passato e a organizzarli in sequenza, in racconto, a farne oggetto di storia. Ed è precisamente nel carattere soggettivo di tale selezione e organizzazione dei fatti che la storia si rivela come un atto di conoscenza creativa.A ben vedere, ogni conoscenza storica si è strutturata e si struttura attorno a questioni, a interrogativi che hanno posto e pongono altrettante biforcazioni, a domande che hanno postulato e postulano diverse possibili risposte. La storia, in questo senso, non può mai essere scissa dalla storiografia, giacché essa diviene tale, si fa racconto, interpreta dati e documenti, solo a partire dalle domande che ad essa si pongono. E le domande storiche non hanno mai, per definizione, una risposta univoca, ma corrispondono appunto a diverse possibili ricostruzioni, a differenti possibili percorsi.Da qui nasce l'intreccio tra il passato della storia raccontata e il presente dello storico che la racconta. Si può dire che ogni questione storica ha avuto e ha un proprio tempo: nel doppio senso che ha un tempo rispetto al quale viene posta, e un tempo in cui si pone, un tempo nel passato che... -
Venezia e le acque. Una metafora planetaria
Nato tre anni fa come un piccolo libro, questo volume è cresciuto progressivamente, tra le aggiunte per le varie edizioni straniere e una corposa integrazione inedita relativa agli ultimi due secoli, fino a rappresentare un testo in larga parte nuovo. Vi si racconta una storia che si può davvero definire straordinaria. La storia di una sfida, di un equilibrio tra natura e uomini da sottrarre volta a volta alla precarietà, continuamente da riconquistare. Almeno a partire dall'anno Mille, Venezia ha dovuto sostenere una lotta quotidiana e di lunga lena contro l'insabbiamento della laguna. Gli innumerevoli fiumi che sboccavano in quel golfo dell'Adriatico, con il loro trasporto di sabbia e fango alimentavano la formazione delle paludi, alterando la salubrità dell'aria e minacciando, con la diffusione delle febbri malariche, la vita della città. Ma lo stesso processo di interramento delle acque interne costituiva una insidia mortale per l'avvenire di Venezia, perché portava alla distruzione dei suoi porti e al fatale declino delle sue economie marittime. La lotta è continuata anche negli ultimi due secoli e richiede tuttora una fortissima concentrazione di intelligenze, tecnologie e risorse.Al di sotto della parabola spettacolare con cui Venezia si è affermata quale centro di prima grandezza nei traffici internazionali, Stato regionale fra i più potenti del mondo, patria delle arti e crocevia di culture, e da ultimo come città simbolo di una intera civiltà, scorre dunque una storia oscura e drammatica, che vede protagonisti pescatori, tecnici, periti idraulici, ingegneri alle prese con un habitat fragile e delicato. Non diversamente dagli abitanti attuali del pianeta, i cittadini di Venezia hanno dovuto fronteggiare i problemi di un microcosmo minacciato. Com'è stato possibile un tale successo? Dietro la riuscita del progetto tecnico si nasconde una più segreta e importante chiave per spiegare la vittoria della città. Una politica severa e lungimirante di conservazione degli equilibri naturali, il governo delle risorse e dei beni sotto il segno di una precoce e sorprendente «economia della riproducibilità», fanno dell'azione statale delle classi dirigenti veneziane un modello di condotta universale che ha pochi termini di paragone nella storia dell'Occidente. -
I governi del maggioritario. Obiettivi e risultati
Qual'è il rendimento dei tre governi del maggioritario? L'introduzione di un nuovo sistema elettorale e gli altri importanti mutamenti intervenuti nell'ultimo decennio, tutti preordinati in vario modo a rafforzare la stabilità e l'efficacia dell'esecutivo, ne hanno effettivamente migliorato la capacità di realizzare gli obiettivi di programma? Governi di diverso orientamento politico si differenziano in modo significativo per i risultati ottenuti? Sono queste le principali domande alle quali il libro intende dare risposta attraverso la misurazione dei risultati conseguiti dai governi Berlusconi, Dini e Prodi in sei politiche, quelle di razionalizzazione normativa, privatizzazione, contenimento della spesa, decentramento, semplificazione amministrativa, liberalizzazione.Tutti i governi del maggioritario hanno inserito questi obiettivi nel proprio programma e dedicato al perseguimento degli stessi un numero corrispondente di iniziative. Ciò consente di svolgere l'indagine su un duplice livello: quello della comparazione dei risultati ottenuti da governi diversi e quello della valutazione dell'efficacia decisionale degli apparati governativi in quanto tali.L'esame è articolato su tre distinti piani. Il primo è quello del confronto tra le iniziative e i programmi al fine di verificare se gli atti intrapresi dal governo corrispondano ai propositi annunciati. Il secondo analizza la sorte delle proposte del governo in parlamento e serve a misurare la capacità dell'esecutivo di guidare la propria maggioranza. Il terzo ha per oggetto l'attuazione delle misure adottate e mira a valutare la capacità del governo di indirizzare l'azione delle amministrazioni in modo coerente agli obiettivi. I dati, raccolti ed elaborati da un gruppo di giuristi ed economisti specializzati nello studio delle singole politiche, forniscono le basi per rispondere a uno degli interrogativi fondamentali della democrazia italiana alle soglie del XXI secolo. -
L' ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria
Qual è il significato delle Fosse Ardeatine? Quale memoria ha lasciato la strage nazista compiuta a Roma il 24 marzo 1944, come rappresaglia dell'attentato partigiano di via Rasella, in cui il giorno prima erano morti 33 tedeschi? E quale rapporto si può istituire tra il ricordo di quella strage e l'identità collettiva di un'intera città? L'eterogeneità sociale e politica delle 355 persone uccise fa delle Fosse Ardeatine un avvenimento emblematico, che lega insieme ""tutte le storie"""" di Roma: a cadere sotto il piombo tedesco furono infatti generali e straccivendoli, operai e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, liberali e comunisti, ma anche persone prive di appartenenza politica.Protagonista assoluta del libro è la voce diretta dei portatori della memoria: duecento intervistati, di cinque generazioni, e di diversissime estrazione sociale e politica (compresi fascisti ed ex fascisti). Il volume colloca la strage delle Fosse Ardeatine in un contesto di lungo periodo della storia della città e l'azione di via Rasella nel contesto della Resistenza. Quell'atto di guerra partigiana è presto diventato anche l'asse di una polemica che ne ha messo in dubbio l'utilità e la legittimità, e ha asserito che la strage avrebbe potuto essere evitata se i partigiani si fossero consegnati ai tedeschi. In realtà, non vi furono né il tempo, né la richiesta per la presentazione; né vale, d'altra parte, il presunto automatismo del rapporto fra azione partigiana e rappresaglia. Ciò che è certo è che a partire da quegli eventi si è scatenata una vera e propria battaglia della memoria, che ha conosciuto varie fasi, dalla guerra fredda al processo Priebke, al revisionismo storico. Le vicende personali dei superstiti e dei protagonisti (e a sopravvivere e a ricordare sono soprattutto donne) mostrano come tutti abbiano convissuto, e convivano ancora, con una drammatica eredità. Ancora oggi, in modo singolare,le Fosse Ardeatine rappresentano un banco di prova della coscienza delle nuove generazioni. Raccolte da Alessandro Portelli, con uno scrupolo che è pari alla passione civile e alla tensione letteraria, le voci di questo libro danno adito a una ricostruzione di grande respiro corale, che si struttura attorno alla elaborazione e alla fissazione di un linguaggio. Ed è il linguaggio, alla fine, a farsi storia: una storia parlata; parlata a Roma."" -
Dai Balcani agli Urali. L'Europa orientale nella storia contemporanea
La storia non serve a spiegare meccanicamente il presente, e meno ancora a leggere il futuro. Ma alla nostra coscienza di contemporanei, turbata da conflitti e violenze che sembrano invadere di nuovo la scena, non sfugge la sensazione che un qualche nesso debba pur esserci tra i processi storici che abbiamo alle spalle e i tragici esiti attuali. Così è certamente di quel composito teatro che siamo soliti chiamare Europa orientale. Gli eventi che da qualche anno insanguinano i Balcani, e le vicissitudini attraversate dalla Russia e dagli altri paesi che fecero parte dell'Urss, costituiscono l'evoluzione di fenomeni che hanno come origine comune il disfacimento di tre grandi imperi - russo, asburgico e ottomano - sotto la pressione del processo di formazione, anche in quelle regioni, dello Stato nazionale moderno. Gli sforzi di modernizzazione e di nazionalizzazione si sono scontrati in quell'area con un grado eccezionale di compenetrazione di comunità linguistiche e religiose diverse, caratterizzate tra l'altro da un differente insediamento sociale.L'«Europa orientale», intesa come il luogo dei grandi imperi sovranazionali ottocenteschi, sembra dunque essersi progressivamente ridotta, rimpicciolita, contratta, nel corso di vicende che hanno attraversato tutto il Novecento. Ridotta, ma non ancora esaurita. Due nazionalità dominanti, abituate a concepirsi come il nucleo portante di aggregazioni statali sovranazionali, hanno resistito fino a poco tempo fa a questo processo di ridefinizione geopolitica: quella serba, e ancor più quella russa. La stessa complessa esperienza del comunismo sovietico, più che contrapporsi a questo insieme di tensioni, ne è stato forse il sintomo più profondo. Questo libro di Andrea Graziosi raccoglie due saggi concepiti e scritti come lezioni per il «Manuale Donzelli di Storia contemporanea»: il primo di essi è dedicato a Imperi e nazionalismi nell'Europa orientale; il secondo al Comunismo sovietico. Si è pensato di pubblicarli insieme, con una nuova introduzione dell'autore, perché entrambi si rifanno a un unico disegno storiografico. Di là dagli indirizzi che il corso della storia prenderà in quelle regioni - e nel più vasto scenario europeo - nel prossimo futuro, essi spingono verso un necessario, imprescindibile punto di consapevolezza. Capire il passato non basta, ma certo serve molto a chi voglia provare a capire il presente.