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Deleuze. La fine degli intellettuali
Abbiamo tutti da imparare da queste conversazioni con Gilles Deleuze. Schegge di un tempo che sembra lontanissimo, le quattro conversazioni con G. Dumur, M. Foucault, F. Guattari e T. Negri, così piene di tracce della cultura e della immaginazione politica degli anni 70 (nel lessico, nelle speranze di trasformazione radicale, nella fiducia vibrante verso una rivoluzione che si annuncia imminente ma che invece non si darà), ecco, a dispetto di prime impressioni superficiali, queste pagine sono percorse da intuizioni, riflessioni, indicazioni che ancora oggi, negli anni della società liberale e della disaffezione dei cittadini al bene comune, potrebbero ridare respiro e vigore alla pratica politica attuale. Dunque, perché leggerle? Perché elaborano il discorso sul legame tra il desiderio e la pratica politica; perché mettono in luce il carattere patologico della modernità capitalistica; perché affrontano la crisi della rappresentazione (e della rappresentanza); perché rilevano la confusione, la mancata distinzione tra evento e storia; perché indicano la necessità di un orizzonte radicale. Un'analisi politica che ha anticipato i temi etico-politici del nostro tempo. -
Autoconservazione e inerzia. Sulla costituzione della razionalità moderna
Da Tálete, che vedeva il mondo pieno di dèi, a Gagarin, che in orbita ne sanzionava l'inequivocabile assenza, si consuma quello che probabilmente è l'evento più impressionante e meno compreso della storia dell'umanità: la morte di Dio. Non si tratta tanto di massimi sistemi, di valori assoluti: da questo punto di vista è evidente che Dio non è affatto morto, anzi il vessillo divino è innalzato su strazi globali di proporzione spaventosa; si tratta di una questione molto più semplice, più quotidiana: per questo è impressionante e incompresa. Dio muore non tanto nel senso morale, nelle svolte epocali, nelle grandi rivoluzioni, nei discorsi pubblici e nelle dichiarazioni di guerra: muore molto più semplicemente nel piano inclinato del moto accelerato. Muore nella fisica spicciola, nel tempo che consuma il movimento, che fiacca le forze: muore nella morte ordinaria di ogni piccola cosa. Nell'epoca antica Dio reggeva tutto, in quella moderna occorre trovare una scusa per giustificare l'inizio e la fine del mondo, o meglio la sua conservazione. La domanda non è più: perché il mondo è stato creato?, ma: perché continua ancora a esistere, visto che non possiamo più ammettere che vi sia un Dio che lo mantiene in essere. Hans Blumenberg, maestro ineguagliato dell'indagine al microscopio dell'età moderna, dedica un gioiello di acume filosofico al concetto di inerzia che, tra il XVII e il XIX secolo, giunge a sostituire definitivamente, pur con una trama complessa e intricata, la mano di Dio. -
Il Paese della sceneggiata
Per tutto il corso del Novecento, fino agli anni Ottanta e Novanta, la sceneggiata è stata la forma di spettacolo prediletta dal proletariato napoletano e campano, dal cosiddetto sottoproletariato urbano - in realtà proletariato marginale - e dal mondo contadino che, quando era costretto a entrare in città, trovava il suo svago al teatro Duemila o al Trianon, vicini alla stazione ferroviaria e a piazza Garibaldi. Gli spettacoli erano tre al giorno, la mattina alle 11, il pomeriggio alle 6, la sera alle 9 e il programma cambiava di settimana in settimana, e si provava il nuovo copione nell'unica mattina in cui il teatro era chiuso. Come nel teatro dell'Ottocento, la compagnia aveva attori in ruoli fissi: al centro, ""isso, essa e 'o malamente"""" e la coppia comica. La scena era il vicolo, e simili erano le storie narrate: l'innocenza insidiata, i buoni e i cattivi, un vicinato partecipe. Tutto diventava pubblico, tutto tornava strada. Al quinto atto, la canzone che dava il titolo a ogni testo e ne riassumeva vicenda e sentimenti. Ci fu un tempo in cui il popolo produceva la propria cultura, le proprie forme di spettacolo, la propria musica. Aveva gusti e idee propri e non quelli imposti dal potere attraverso comunicazioni di massa artefici di una cultura omologata e massificata. È utile ricordarlo."" -
Il mimetismo animale
Perché i soldati di oggi indossano una tuta mimetica persino quando sono di servizio in ambienti urbani? Non è necessario affrettarsi a rispondere. Ci si soffermi a riflettere su questo caso ormai frequente, con calma. Anche senza lambiccarsi su questo esempio, sembra quasi sia possibile mettere in discussione uno dei presunti cardini della condotta umana: l'utilità. Qual è infatti la reale utilità di una tuta mimetica concepita per occultarsi nella boscaglia, nel deserto o sulla neve, all'interno di una stazione di metropolitana? L'intento protettivo, utile in un contesto naturale, sembra dissolversi all'interno di una struttura architettonica. D'altro canto la presenza dei militari armati, evidenziata dalla tuta mimetica, potrebbe rassicurare i pacifici cittadini pur esponendo i soldati a maggiori rischi, considerata la maggiore visibilità. Di certo l'utile dei pacifici cittadini sembra accresciuto rispetto a quello dei soldati posti a loro difesa. Quindi l'utile si riapre una strada, una possibilità di esistenza, ma l'utile di chi? Perché ci si fa passare tanto spesso per ciò che non si è, a volte spacciandosi per feroci gradassi o acuti, raffinati intellettuali e in altri casi gabellandosi invece per essermi innocui o candidi babbei? Per prevalere, per proteggersi? Per paura quindi? Perché lo fanno in tanti? Fastidioso interrogarsi su temi del genere, molto più rassicurante osservare questi fenomeni negli animali posti su un gradino ritenuto inferiore nella gerarchica scala di classificazione dei viventi. È anche più facile analizzare queste modalità comportamentali dal di fuori, un ""fuori"""" che equivale a un """"alto"""", dal momento che è scontato per chiunque ritenersi in una posizione più elevata di un bruco. Il mimetismo è quindi esclusivamente funzionale? Ha soltanto uno scopo difensivo od offensivo? Quali altri motivi possono determinarne l'esistenza e la sua indubbia persistenza? A queste domande Caillois tenta di suggerire delle risposte. Risposte che danno origine ad altre domande, alle quali soltanto nell'intimo il lettore potrà forse osare rispondere."" -
L' antisemitismo e l'Affaire Dreyfus
«L'Affaire Dreyfus aveva cambiato il modo di vedere di Lazare - scrive Stefano Levi Della Torre -, e un effetto analogo aveva avuto su Theodor Herzl, giornalista e scrittore ben inserito nella società viennese, ebreo quasi dimentico ormai di essere tale. Di fronte al massiccio fenomeno antidreyfusardo, entrambi, Herzl e Lazare, scoprivano che, contrariamente alle loro aspettative, l'assimilazione, la normalizzazione degli ebrei nelle società europee era una prospettiva precaria se non illusoria. Herzl concepì un'altra strada e un altro tipo di normalizzazione: il popolo ebraico disperso in ogni paese, senza terra propria ed esposto alla persecuzione avrebbe normalizzato se stesso e i propri rapporti con gli altri popoli se avesse costituito un proprio Stato su una propria terra... Lazare convenne in un primo tempo con Herzl: la questione ebraica era un problema di riscatto nazionale. In una conferenza agli studenti russi del 1898, Lazare aveva spiegato la sua concezione della questione nazionale ebraica. Che cosa c'è di comune tra gli ebrei del mondo? Non la religione: ci sono ebrei credenti e non credenti, panteisti alla maniera di Filone di Alessandria o a quella di Spinoza, ci sono dei positivisti, dei materialisti e degli atei. Non la razza... Ciò che unisce gli ebrei è soprattutto la storia, che comporta tradizioni e costumi comuni. ""Noi guardiamo le cose sotto una visuale che ci è comune"""". Gli antisemiti hanno ragione quando sostengono che l'essere ebrei non si riassume nel fatto religioso, """"certo non sanno perché, ed è semplicemente il loro odio a conferire a essi una Confusa chiaroveggenza""""; che li fa più vicini alla verità che non i giornali che difendono l'ortodossia religiosa come elemento principale dell'appartenenza ebraica. Lazare registrava la resistenza degli stessi ebrei ad accettare una prospettiva nazionale... Ma vedeva """"qualche milione di esseri umani che sono stati sottoposti per secoli alle stesse leggi interne ed esterne, che hanno vissuto in conformità agli stessi codici, che hanno le stesse concezioni e gli stessi costumi: essi chiamano ancora se stessi con il loro medesimo nome di ebrei e hanno la coscienza di appartenere a uno stesso gruppo; Che cosa posso ragionevolmente concludere? Che questi milioni di individui formano una nazione""""»."" -
Il sangue che vince la morte. Storie di vampiri
Non sono nati nel medioevo oscurantista i vampiri e i fantasmi che conosciamo dalla letteratura. Sì, l'irrazionale è sempre esistito, ma è nel secolo dei lumi che il vampiro e l'angelo nero sono usciti dalle tenebre e hanno cominciato a volare sulle pagine dei libri. Francis Lacassin ci introduce in un viaggio che parte dal 1751, con i racconti dell'abate Calmet su strani personaggi quasi sempre provenienti dall'Est (Ungheria, Serbia) che escono dalle tombe e tornano a inquietare le nostre notti. Con Byron e Polidori è l'inizio della letteratura moderna sul vampiro, ma un classico come ""La morta innamorata"""" di Théophile Gautier e altre apparizioni inquietanti come quelle narrate da Dumas e Maupassant, fino a Bloy e Lorrain ci fanno capire quanto i vampiri siano sorprendentemente simili all'uomo e come il bene e il male in loro siano ancora una volta i poli contrapposti ma comunicanti di una ricerca della vita eterna. Così il sangue diventa l'emblema di quella lotta per sconfiggere la morte, e l'incantamento che il vampiro porta con sé quando veste i panni femminili una delle grandi seduzioni della modernità con intrinseci presupposti freudiani. In """"Paris-Vampire"""" di Claude Klotz, il racconto più recente di questa antologia, assistiamo a una singolare parodia del """"povero vampiro"""" che, in cerca di sangue, si trova a bussare a un centro trasfusionale dove invece di ricevere sangue viene coinvolto nell'insolita parte del donatore. E così la modernità riscrive il mito di Vlad Drakul (celebrato dal più famoso romanzo di Bram Stoker) con una ironia tutta postmoderna. Con un saggio di Francis Lacassin."" -
Fondamenti di vita celeste sulla terra
"Il titolo rimanda alla qualità celeste della libertà senza confini: la libertà del """"senza"""", però se sospettate che """"Fondamenti di vita celeste sulla terra"""" sia un trattato filosofico, state sbagliando strada e a proposito di strade, è lì che abitano i protagonisti del libro: uno scombinato gruppo di mendicanti che un bel giorno fugge dai marciapiedi di un'anonima metropoli e si mette in viaggio. Per dove non si sa. Non lo sapevano loro e nemmeno l'autrice lo sapeva avendolo scoperto mentre andava con Cinichetti e gli altri verso una specie di terra promessa; perché non ci si mette in viaggio senza l'inconscio desiderio di un Paradiso. Del resto i nostri amici non hanno nulla da perdere, anzi, non avendo proprio nulla di nulla, sono liberi di andare dove gli pare e piace. Ecco un libro del tutto anacronistico, insensato, squinternato ma gioioso. Fondamenti... è forse qualcosa di nuovo (anzi, d'antico), con una scrittura meditata e fluida, ma bizzarra che di tanto in tanto fa uso di parole inesistenti, """"dialettali"""" o sbagliate. L'autrice ama la letteratura fantastica, la fiaba, il nonsense; suoi autori di riferimento sono Lewis Carroll, Italo Calvino, Aldo Palazzeschi, Cesare Zavattini, Raymond Queneau, Leonora Carrington, ma ce ne sono molti altri, grandi e piccoli; nel cinema ogni commedia scatenata, pazza, fuori dai canoni, come quelle di Wes Anderson, Terry Gilliam, Peter Bogdanovich, Richard Lester, insieme a tanti piccoli e grandi film isolati.""""" -
L' uomo che gioca
"Il poeta tedesco Schiller nel trattato 'Sull'educazione estetica dell'uomo' non esitava a scrivere che 'l'uomo gioca soltanto quando è uomo nel significato più pieno del termine ed egli è interamente uomo solo quando gioca'. In questa luce si riesce a capire perché la cosiddetta 'analogia ludica' sia diventata nella teologia, non solo recente, un modello per parlare di Dio (pensiamo alla Festa dei folli di Harvey Cox o all'Homo ludens di Hugo Rahner). La stessa Bibbia non ha imbarazzo nel raffigurare la Sapienza divina creatrice come una fanciulla che sta danzando divertendosi nell'orizzonte di quel mondo che sta fiorendo dalle sue mani (Pro 8, 30-31). Il creare, quindi, come divertirsi: ne sanno qualcosa gli artisti. Anzi, persino Gesù si lascia catturare incuriosito dal divertimento, sia pure fallito, di un gruppo di ragazzi che giocano sulla piazza di un villaggio e che non s'accordano sul tipo di gioco da adottare: alcuni vorrebbero mimare una festa di nozze ballando al suono del flauto, altri desidererebbero invece imitare un funerale piangendo e lamentandosi. Dopotutto già nell'Antico Testamento l'era messianica era vista anche attraverso il bambino che si diverte con gli animali e che, travolto dalla curiosità che accompagna il gioco, infila la manina nella buca della vipera (Is 11,8). Oppure si sognava una Gerusalemme le cui piazze 'formicolavano di ragazzi e di ragazzi che giocavano divertendosi' (Zac 8, 5). La stessa rappresentazione escatologica nell'immaginario di secoli e secoli di arte ha sognato sempre un 'paradiso' di festa, di musica, di danze."""" (Gianfranco Ravasi)" -
I Balti
Scritto successivamente alla formulazione dell'ipotesi Kurgan, ""Balti"""" è la prima monografia che Marija Gimbutas dedica a una cultura preistorica e ai suoi contatti, intrecci e conflitti con gli invasori venuti dalle steppe uraliche. Il fatto che l'autrice di tale monografìa provenisse proprio dal ceppo di quella cultura preistorica, e avesse visto con i propri occhi gli esiti distruttivi delle invasioni, non può essere considerato una semplice coincidenza. """"I Balti"""" segna una svolta decisiva nell'epistemologia di Marija Gimbutas, nel suo modo di guardare i segni del passato: fino ad allora si era concentrata sulle origini degli indoeuropei e sul dibattito secolare che tali origini hanno suscitato; improvvisamente si assiste a uno scarto decisivo sul piano epistemologico e culturale, per non dire teoretico. Non si osservano più i tracciati degli invasori, ma - a partire da quei tracciati - si risale, come dal calco di un'impronta, alla forma che avevano i popoli invasi. Se sul piano strettamente scientifico e accademico la mossa di Marija Gimbutas è stata appena avvertita, è sul piano della storia della cultura che questa svolta ha avuto gli esiti più dirompenti, perché ha dato l'opportunità di intonarsi a un intero universo di narrazioni, interpretazioni, correnti, ideologie, movimenti, opere d'arte e di teatro, tutte volte a dar voce ai dannati della terra, agli esclusi, agli emarginati, a chi per secoli e millenni era stato sempre sepolto dalla storia ufficiale e che ora, finalmente, poteva essere riesumato. Togliere la patina di polvere dalle tracce dell'Europa antica significava per Marija Gimbutas disinnescare un'idea di storia come documento del vincitore."" -
Il libro dei maghi. Saggio sulla filosofia della natura
«Quando si studiano i caratteri del pensiero dell'Estremo Oriente - scrive Henri Focillon -, non si dovrebbe lasciare troppo spazio ai rivieraschi dello Yangtze Kiang, alla filosofia del Tao, una sorta di hegelianismo asiatico, nel quale si è cercato di riconoscere delle infiltrazioni di metafisica indiana. In ogni caso, i procedimenti con i quali l'arte cinese e l'arte giapponese hanno cercato di fissare una immagine del mondo conforme al loro sentire, sono il risultato di uno sforzo estetico che deve molto sia al buddhismo sia alla dottrina di Laozi. E inutile copiare la natura, perché una copia limita, secca e spoglia della vita il suo oggetto: non si tratta neppure di un oggetto determinato, perché esistono solo rapporti instabili e momentanei. Ma questi rapporti dell'unità e del tutto, ci è permesso suggerirli. Suggestione, ecco il magico segreto di un'arte per la quale la vita si immerge da ogni parte nell'infinito, il solo mezzo per risvegliare nella coscienza la nozione di questi rapporti indeterminati e profondi senza i quali l'universo non sarebbe che un caos di cupe immobilità. Una scatola di lacca abbandonata su una stuoia è solamente, se la si considera come un volume rettangolare di legno annerito, un'illusione senza interesse e persino, in senso profondo, essa non esiste neppure. La sua vita è la mano che l'ha toccata e di cui risente ancora il calore, sono i ricordi che racchiude, è l'ora in cui la si guarda, un certo giorno di una certa stagione, con una certa disposizione d'animo». -
Goethe impolitico
Tre saggi su Goethe, il padre delle letteratura tedesca moderna, scritti fra il 1932 e il 1949. Meno di vent'anni, ma densi di storia, sia quella personale di Thomas Mann (che dopo l'avvento di Hitler decide di emigrare in America), sia quella della Germania e dell'Europa, gravate dall'orrore nazista e da una guerra mondiale. Dalla pubbicazione, subito dopo la fine della Grande guerra, di Considerazioni di un impolitico, la critica si è a lungo interrogata sulla visione politica del ""conservatore"""" Thomas Mann. Un testo che poi, restrospettivamente, ha pesato sul giudizio riguardo la sua posizione verso il nazismo, considerata per certi aspetti ambigua, mentre nel saggio scritto durante il primo viaggio in America - Traversata con Don Chisciotte (riedito l'anno scorso da Medusa) -il giudizio verso il Nazionalsocialismo traspare senz'ombre. Che cosa è cambiato nel frattempo in Mann? I saggi compresi in questo libro ci svelano la lenta ma costante evoluzione del giudizio su Goethe come esponente della borghesia tedesca e precursore del pensiero della democrazia. È anche una specie di autoritratto intellettuale? Gli anni tra le due guerre sono decisivi nella maturazione del pensiero di Mann, il quale abbraccia una visione di moderata, fiduciosa apertura alla cultura democratica. E su questa strada la frequentazione del Maestro del Werther, del Wilhelm Meister e del Faust è sempre più stretta, come se Mann dovesse prendere dalle mani di Goethe il testimone di interprete della coscienza civile germanica. La strada maestra che lo porterà a comprendere le ragioni della democrazia - progresso che i saggi qui raccolti mettono bene in evidenza - passa dalla contrapposizione fra amore della morte e amore della vita. In quegli anni cruciali per l'Europa Mann arriva a dire che il popolo tedesco è affascinato dalla morte, mentre per Goethe «l'ultima parola contro la morte e per la vita, rimane: """"Non si tratta infine che di andare avanti""""». Non lascia molti dubbi sulla posizione di Mann questa lettura di Goethe che diventa implicito giudizio sulla Germania hitleriana."" -
Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontang
Queste interviste a Susan Sontag, raccolte in un arco di tempo che va dal 1975 al 2002, si propongono come un cammino lungo l'evoluzione del pensiero della scrittrice americana. Nella gran varietà dei suoi interessi culturali e politici e nel costante aggiornamento delle prospettive, vi spiccano alcuni punti fermi. Forse il più rilevante è il rapporto col testo e l'esercizio della scrittura come un dovere interiorizzato, come forma necessaria di impegno umano prima ancora che sociale. Le letture più amate, spesso di classici europei - da Gide a Dostoevskij -, l'esercizio costante della citazione e della rielaborazione critica, tutto ci parla di un rapporto con il reale sempre mediato dall'esercizio della scrittura, non come interpretazione, ma come autentico codice in cui la realtà umana si esprime. Il segreto dell'impatto di uno scrittore ""impegnato"""" diventa quindi non l'eteronomia ma una radicale e perseguita autonomia dell'arte, l'unica in grado di percepire le autentiche continuità culturali. La militanza della Sontag in molti temi cruciali del Ventesimo secolo, dal pacifismo al femminismo, fino alle politiche statunitensi dopo 1'11 settembre, è a volte esplicitata, più spesso implicita sotto il tono apparentemente disimpegnato di queste interviste. In realtà le sue risposte seguono il rigoroso senso strutturale di chi è abituato a governare i propri pensieri rispetto a un ideale formale (che coincide con il senso morale), senza preoccuparsi di compiacere l'interlocutore. Come riassume la Sontag a chiusura di una di queste interviste: «Non scrivo perché c'è un pubblico. Scrivo perché c'è la letteratura»."" -
Scrittori «contro». La rivolta nella letteratura francese tra secondo Ottocento e Novecento
Il tema esaminato in questo saggio è uno dei più interessanti della letteratura contemporanea. Dopo un'introduzione generale che esamina i fattori di cambiamento che hanno determinato un nuovo scenario economico e politico-sociale in Francia e in Europa, il saggio esamina alcuni aspetti significativi (il male di vivere, la tragicità della condizione umana, la noia, la stupidità, le ingiustizie, l'avidità di denaro, i tradimenti ecc.) che motivano i perché della ""rivolta"""" messa in atto da alcuni romanzieri, poeti e intellettuali francesi tra Ottocento e Novecento: da L'autré amont a Baudelaire, da Flaubert a Hugo, da Bloy a Péguy e Bernanos... A questi scrittori """"contro"""" se ne affiancano altri che cercano di attuare la """"rivoluzione del reale"""", ossia gli aderenti al movimento naturalista (i Goncourt, Zola, Huysmans...), che si oppongono alla """"falsa letteratura"""" che li ha preceduti, convinti che l'arte nuova che incarnano debba essere fondata esclusivamente sui """"documenti umani"""". Non meno ricchi di suggestioni sono i capitoli dedicati alla """"rivolta cattolica"""", testimoniata dai suoi scrittori più rappresentativi (come Veuillot, Barbey d'Aurevilly, Villiers de l'Isle-Adam), e alla """"ragione in rivolta"""" (Anatole France, Gide, Camus, Sartre), con cui si completa questo quadro della storia letteraria francese fra secondo Ottocento e Novecento, colta in alcuni suoi tratti caratteristici, ma anche nelle sottili differenze che distinguono e talvolta contrappongono per finalità e pensiero gli stessi scrittori qui presi in considerazione."" -
L' origine delle specie. Abbozzo del 1842. Comunicazione del 1858 (Darwin-Wallace)
L'""Abbozzo"""" del 1842 è una sorta di abrégé dell'evoluzionismo darwiniano. Non ancora pienamente formulato è però già consapevole degli effetti e delle implicazioni teologiche che comporta. Alle sue spalle la mole di osservazioni e schizzi raccolti durante il famoso viaggio, ma anche la solida esperienza, molto english, nella campagna del padre medico. Letta nel 1858 alla Società Linneana, la memoria sulla """"Variazione degli esseri organici allo stato domestico e allo stato naturale"""" rappresenta, invece, la sintesi immediatamente precedente l'""""Origine delle specie"""". Il saggio di Alfred Russel Wallace, """"Sulla tendenza delle varietà ad allontanarsi indefinitamente dal tipo originario"""", nella sua straordinaria sintonia con le tesi non ancora completamente formulate di Darwin, è la dimostrazione del convergere quasi casuale di idee e ipotesi in un'unica prospettiva di successo."" -
Il senso di Simenon per la fuga
La presente antologia raccoglie saggi di critici e studiosi dell'opera di Georges Simenon come Francis Lacassin (1931-2008) che a più riprese ha indagato la narrativa del papà di Maigret. Tra gli altri autori che danno vita a questo volumetto Giuseppe Bonura, scrittore e critico letterario scomparso nel 2008, Robert J. Courtine (1910-1998), scrittore e giornalista gastronomico, Ralph Messac (1924-1999), giornalista e avvocato. Il volume si completa con una breve antologia di brani degli scrittori François Mauriac, Jean Paulhan, Henry Miller e André Gide. -
Il circo del Père Lachaise
"Definito da Alvar González-Palacios «un uccelletto», Philippe Jullian era un uomo piccolo e delicato che deliziava i salotti tra gli anni Cinquanta e Settanta con il suo spiccato gusto dell'ironia e della burla di taglio settecentesco, intrisi della leggerezza di Voltaire e Diderot o dei viaggi a Citera di Watteau. Si pensa talvolta a un epigono dell'estetismo come Max Beerbohm che disquisisce intorno ai cosmetici con la stessa noncuranza con cui Jullian ricostruisce, con la disinvoltura dell'amatissimo Praz, la saga di una casata attraverso le peripezie dei suoi arredi, nonché le vicende biografiche dei suoi eroi d'antan: Wilde, D'Annunzio, Montesquiou, inarrivabile modello di Charlus e des Esseintes. Ecco allora che le convenzioni borghesi diventano in questo libro dedicato al Père Lachaise attrazioni circensi: la signora aristocratica, il cui salotto era interdetto ai parenti poveri, deve ora accontentarsi di riceverli nella lussuosa tomba di famiglia; le poetesse sono costrette a recitare i versi delle loro nemiche dichiarate; maghi e fattucchiere vengono scornati dall'umiliazione dell'ottenebramento, aggravato dalla guida fatidica di un gatto rigorosamente nero; i giudici del concorso delle vedove sono gli stessi mariti che, attraverso la loro dipartita, le hanno rese inconsolabili; magistrati e psichiatri vengono assembrati in una fossa comune visitata dagli stessi prigionieri che avevano provveduto a condannare in vita. In questo mondo capovolto gli stessi clowns altro non sono che rappresentanti del sadismo e del masochismo più bieco"""". Pasquale Di Palmo" -
La realtà vola più in alto. Dieci interviste sulla pittura
Uno dei maggiori giornalisti culturali del secolo scorso, Georges Charbonnier, incontra dieci pittori del '900 per interrogarli sul tema oggi più importante per le arti, che sembrano aver perso il contatto con il mondo e si sono trasformate in un megaspettacolo dove l'unica cosa che conta è stupire. Quale realtà ha davanti la pittura? Che senso ha il realismo, oltre le dispute ideologiche del secolo scorso? Le risposte degli artisti, tutti grandi nomi della modernità e tutti diversi per stile e poetica, concordano su un punto: se l'arte non ha più un chiaro concetto della realtà, ciò testimonia, per prima cosa, che l'uomo non ha più chiaro in quale mondo vive e vuole vivere. La finzione ha preso il comando e ha disegnato attorno all'uomo un mondo dove l'artificio è lo strumento della grande manipolazione visiva che affascina ma allontana l'arte dalla sua funzione: la ricerca della bellezza e del vero. -
Il ritorno di Tarzan
Montaggio e smontaggio di un mito che nasce sulla carta, prende immagine visiva sui fumetti e diventa protagonista del cinema, prima muto poi sonoro, dal bianco e nero al colore. Questo l'oggetto della minuziosa ricostruzione della storia di Tarzan di Francis Lacassin. Partorito, è il caso di dirlo, dalla fantasia dello statunitense Edgar Rice Burroughs (Chicago, 1875 - Encino, 1950), il personaggio abbandonato nella giungla, allevato dalle scimmie e formatosi alla dura legge darwiniana della sopravvivenza del più forte, ha alimentato, fin dall'immediato successo del primo libro del ciclo, nel 1914, la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di tutto il mondo. Lacassin racconta non tanto il procedere delle sue avventure quanto il progressivo degrado del suo mito. Lacassin consegna al lettore la storia delle diverse personificazioni di Tarzan, i registi che lo hanno diretto, gli attori che lo hanno interpretato, le attrici che lo hanno baciato, gli scenografi che gli hanno inventato luoghi e panorami, i disegnatori che lo hanno ritratto con grazia, qualche volta, spesso frettolosamente. Chi togliendogli fascino chi accrescendolo, sempre alimentati da un archetipo nascosto e ben piantato nella mente di chi lo ha immaginato. Come scrive Roberto Beretta nella prefazione «il re delle scimmie è l'eremita laico che si ribella alla prepotenza della civiltà e trova il suo spazio veramente umano tra i non uomini. Ma a differenza dell'utopia assoluta del ""buon selvaggio"""" di Rousseau questo nuovo Adamo non sembra desideroso di rivoluzioni, quanto piuttosto di temperare il ritorno alla vagheggiata età dell'oro con una sana e molto americana propensione a non perdere i principali vantaggi del benessere, l'indispensabile del progresso per vivere nel suo felice paradiso». Il libro di Lacassin, e senza l'ausilio di Roland Barthes, descrive la vita del mito di Tarzan, lontano dal suo padre-autore, tra le insidie delle immagini e degli schermi che la società dello spettacolo moltiplica come le liane della giungla tra cui l'uomo-scimmia amava trascorrere il tempo dell'avventura. È lì che si perde Tarzan, nella selva oscura dell'onirismo proliferante, diviso tra immaginazione e box-office, tra inganno di cartapesta e divismo, tra pulsioni insoddisfatte di un erotismo appena accennato e adesione passiva dello spettatore, tra un popcorn e un bicchiere di cola."" -
Il canto della vita. Testo latino a fronte
Al misterioso Lucrezio si deve un poema didascalico in sei libri «sulla natura delle cose», nel quale l'autore si propone di diffondere la dottrina epicurea presso le classi colte di Roma. Scopritore di una verità rivoluzionaria che può trasformare la vita dell'uomo e guidarlo sulla via della sapienza e della felicità, Lucrezio resta fedele al sistema filosofico delineato dal suo grande maestro, che egli esalta come salvatore dell'umanità, un eroe benefattore che ha sottratto l'uomo alle tenebre della paura e della superstizione, utilizzando gli strumenti della ragione e dell'indagine scientifica. Eppure, mentre procede nel grande compito che si è dato, Lucrezio non può nascondere la verità ai suoi lettori-discepoli: il mondo non è fatto per l'uomo, il progresso acuisce il nostro senso di disagio e di infelicità, la natura è indifferente ai nostri bisogni. Il saggio lucreziano è ora un naufrago scampato alle tempeste della vita, che vive nascosto nei giardini felici della filosofia; ora un uomo tormentato dall'angoscia, soggiogato dalla passione amorosa, terrorizzato dai fantasmi dei sogni e della mente. Il centro dell'ispirazione lucreziana risiede proprio nella percezione dinamica delle forze della natura e del cuore umano: nello slancio fantastico e immaginoso del linguaggio poetico, che tanto ha affascinato i poeti postromantici, Lucrezio riesce contemporaneamente nell'impresa di svelare il senso dei magmatici sconvolgimenti materici dell'universo, e di consegnare ai suoi lettori un modello di virtù e di saggezza realmente applicabile nella vita di tutti i giorni. -
La storia di Adamo ed Eva attraverso l'arte
Al contrario di numerose tradizioni che riservano solo rapidi cenni all'apparizione del primo essere umano, senza quasi differenziarlo dalle altre specie (Egitto) oppure lo relegano al ruolo di servitore degli dèi (Mesopotamia), la creazione dell'uomo rappresenta il coronamento della cosmologia biblica. Con questo atto, il creatore conclude e firma la sua opera grandiosa, come se la luce e le acque, i cieli e la terra, la vegetazione e gli animali - emanazione della sua potenza -non fossero che lo scenario e il contrappunto necessari all'apparizione del genere umano: supremo sbocciare dopo il quale la manifestazione divina si riassorbe nel riposo... Intorno alla narrazione della Genesi, tramite il gioco di queste immagini di volta in volta ingenue e superbe che gli artisti hanno suscitato, si è cristallizzata una delle nostalgie fondamentali dell'umanità, quella delle delizie paradisiache, della felicità dell'innocenza primeva, della compiutezza dello stato primordiale, di un luogo originario perfetto. Però, nello stesso tempo, le figure di questi grandi antenati dell'umanità, felici e infelici, innocenti e colpevoli, hanno potuto ricevere un doppio incarico, positivo e negativo, quello di divenire il luogo geometrico di aspirazioni sotterranee o latenti, di servire altrettanto bene da scarico o da rifiuto, che da trampolino alla speranza, o da segno capace di operare una trascendenza liberatrice. Obbedendo a un programma iconografico stabilito dalla Chiesa, attingendo alla poesia popolare degli apocrifi, ispirandosi a leggende che celano verità teologiche, spinti anche da tutte le risonanze umane di un tema dai molteplici insegnamenti e stimolati progressivamente dai loro slanci che li allontanano dai principi imposti alla partenza e lasciano un più libero gioco alla loro immaginazione, gli artisti - dai più celebri ai più oscuri - hanno definito sul muro, fissato nello splendore delle vetrate, scritto nella pietra, dispiegato sulla pergamena o sulla tela, inciso sull'avorio, tramato nella lana o cesellato nel metallo, l'espressione di volta in volta tenera e brutale di una storia meravigliosa e terribile in cui l'umanità può alla volta riconoscersi e sfuggirsi, esaltarsi e liberarsi, che essa può successivamente respingere e ritrovare. Adamo ed Eva, nella storia plastica come nella storia umana dell'Occidente, rappresentano uno dei più forti potenziali di immagini che siano mai stati creati, uno dei simboli maggiormente efficaci dove vengono ad arenarsi e ad amplificarsi, come altrettante ondate successive, alcuni dei più tenaci timori e anche alcune speranze più solidamente radicate nella psiche umana.