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Socialismo
«Oggi, tutti i partiti che rivendicano un carattere schiettamente sociali-sta sono partiti democratici. Vorrei anzitutto misurarmi brevemente con questo carattere democratico. Che cosa significa, oggi, democrazia?» (Max Weber) -
Abbecedario. Le parole dell'economia
Finalmente l'educazione finanziaria ha assunto un ruolo centrale. Se ne parla in Senato dove sono stato ascoltato, a fine febbraio, insieme a Magda Bianco di Bankitalia, dalla Commissione Cultura e, sempre più spesso, sui giornali. Anche il conflitto Russia- Ucraina ha rilanciato la necessità di conoscere le parole della finanza a proposito delle sanzioni contro Putin. ""Abbecedario"""" spiega in modo semplice il significato dei termini più utilizzati in economia ed è scritto per i ragazzi desiderosi di comprendere la realtà che li circonda."" -
In simmetria con la morte. Ediz. italiana e inglese
Yang Lian scrive in versi innumerevoli osservazioni, mostra i particolari, produce sguardi ravvicinati, immagini concatenate, solo apparentemente scollegate, stridenti ma ritmate, musicalmente intonate nei più vari registri. Queste di Yang Lian sono cose vocianti, sprizzano colori e, in ondate di versi sbattono sulla risacca della pagina-battigia una molteplicità di figure di pensiero. Figure in perpetuo movimento, ben calibrate, pur nella loro asprezza, e comunque necessarie alla forma stratificata delle sue architetture compositive. -
Testimoni
"... una densa e composita partitura, attraversata da alcuni Leitmotive che rintoccano da una pagina e da una sezione all'altra: si tratta, per situare subito questa nuova voce poetica, di motivi poetico-filosofici che la grande poesia del Novecento italiano ed europeo ha alimentato, variato, declinato per decenni e che tuttavia, se è vero il monito di Ernst Bloch che Franceschetti ha trascritto nell'epigrafe della prima sezione della sua silloge («Ciò che è accaduto, è sempre accaduto solo a metà»), continuano a bruciare, a fermentare nella coscienza di chi scrive versi obbedendo più a una necessità espressiva ed esistenziale («cruento atto esistenziale», definiva Bartolo Cattafi la sua scrittura) che a un qualsiasi programma.""""" -
Atlante di chi non parla
"Come molti libri di poesia italiana recente - ad esempio Dimora naturale (Einaudi) di Andrea Bajani, che fa eco misteriosa nel titolo alla silloge Questioni naturali con cui Maddalena Lotter si è presentata all'attenzione dei lettori nel XIV Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos y Marcos) - anche questo Atlante di chi non parla ci si presenta racchiuso, già a partire dai versi di quella che chiamiamo la """"stele nera"""" di copertina, nella conchiglia di un concept album, nella variante, variazione e reiterazione di un tema, concettuale appunto e musicale. Nucleo radiante che consiste qui nell'ossessione di dare voce «a chi non ha avuto voce sulle scelte che hanno condotto il nostro pianeta a diventare quello che è» e a chi se anche l'ha avuta non l'ha più: i nostri morti, umani e animali, ma anche i grandi mammiferi e cetacei estinti, che con la loro fine hanno fatto spazio ad altro - a noi - migrando in un non-essere di eco e di tracce. Fine e inizio del resto coincidono, come nei fotogrammi di un tramonto riavvolti al contrario per diventare l'alba, nel poemetto Il testimone, in cui si toccano cosmogonia esiodea e calviniana cosmicomica: mentre, assecondando il movimento ampio della nuova poesia/pensiero che in Italia come altrove si pensa nello spazio e nel tempo - che sia catastrofe, diorama o paesaggio - di un tempo umano costretto a fare i conti col presto-non-poter-essere-più-tale, il soggetto poetico scivola via dall'antropocentrismo, si mostra non al centro ma accanto. Il senza del non agire e della rinuncia, filo che tiene il tutto, «una rinuncia non solo necessaria, ma specialmente operosa, creativa», à la Simone Weil, diventa ora - troppo tardi? - non più un contro ma un con."""" (Laura Pugno)" -
Faldone zero-cinquantanove, novantotto-novantanove
Non ha inizio né fine, il Faldone di Vincenzo Ostuni. Il suo «principio di infinitudine», come l'Aion degli antichi, è un processo e non un dato, un'attitudine e non un conseguimento. Eppure un mitobiografico incipit lo prevede: il componimento del cinquenne che, antivedendola, commenta tutta la sua opera a venire («dio ci ha creati», con quel che segue). A sorpresa, ora, un non meno virtuale scioglimento: introdotto da notarili Disposizioni contraddittorie e incomplete per la composizione del Faldone in caso di nostro improvviso decesso o incapacità di impartirle altrimenti. Non è un mistero che, fra i suoi maestri, Ostuni si sia rifatto in primis al Sanguineti di Scribilli, Scartabelli e Corollari tutti virtualmente provenienti, però, da un infantile quadernone Tutto. L'envoi del Faldone ricorda allora il Novissimum Testamentum che negli anni Ottanta riepilogava un'apocalittica delusione storica e personale. Ma è diverso questo Testamento Postremo, e post-Novecentesco, che dà in un vuoto, anzi uno zero. Annichilente era il lascito di Es: «vi lascio cinque parole, e addio: non ho creduto in niente:». Ma lo zero non è il niente. In termini matematici è uno strumento polivalente; un punto da cui, almeno per ipotesi, ricominciare: fuori, magari, dalle mura di parentesi e virgolette che, allegoriche, incorniciano ogni discorso di Ostuni. E infatti questa ""emersione"""" cartacea è insieme la più """"politica"""" (contro «questo zombi boreale, capitale» teorizzando una «violenza di terzo segno») ma anche la più metalinguistica o meta-meta-linguistica (si veda la virtuosistica ottava poesia del Faldone undici). Insomma «il mondo andò in pezzi, ma tutti i pezzi sopravvissero separati». Sul terreno restano «frammenti di risulta da associare, vedi, questa mercataglia di brevi componimenti»; ma con «questi corollari vestiti da teoremi», come il Barone di Münchhausen tanto di Sanguineti che di Zanzotto, è forse possibile puntellare le nostre rovine. Sino magari a intravedere la coda di «una cometa-sistema / ultraluminale»: che, nei suoi «passaggi fra gli universi», miracolosamente li «ricucia forando»: «li strizzi tutti assieme esplodendo». Andrea Cortellessa"" -
Elegia sanremese
"Al tramonto d'un secolo breve quanto sterminato, Elegia Sanremese brillò come una Supernova. In apparenza spenta, da allora continua a emettere invece segrete radioattività fossili. Ne era autore il più erudito il più splenetico il più esoterico dei poeti, quello che un destino iperletterario, e hilarotragicamente epigrafico, se l'è scritto nel nome: Tommaso Ottonieri. Concept album se ce n'è uno, Elegia Sanremese - col parodiare inVersa le sublimi Duinesi di Rilke, che il Novecento iscrivevano nell'Autentico da cercare nella Povertà - il tempo di dopo la fine, morto di fame di smodata Ricchezza, spettrografava come Regno del Posticcio: indovinandone la più compiuta, la più autentica espressione nella canzonetta sanremese. Cos'è infatti la Canzone, che usurpa il nome dai più siderali costrutti Provenzali e post-tali banalizzandone dispositivi metrici e sempiterne ossessioni, se non appunto una contraffazione della poesia? Con crudeltà millimetrica l'Ottonieri ritorceva la parodia sui musicarelli, all'impazzata remixandoli coi lacerti più squisiti di quel Canone Estinto che vi era per tempo colliquato (i «24mila baci», delle memorie d'Adriano, nient'altro che un Catullo for dummies). Così che l'«aria di vetro» di Montale può stare a pigione nella «casetta piccolina in Canadà»: in un labirinto di copie, e copie di cover, che - vent'anni dopo e più - ancora e sempre è il nostro. Ma con terrore d'ubriaco il dj metafisico di questo Juke Box all'Idrogeno, nonché stigmatizzare quel repertorio «trash'endente», da quell'ipnotica melma sonora si scopre medusato. Spedito in uno Shining rivierasco a fare il kulturkritik da un accigliato giornale di sinistra, e ridotto ormai a «bulbo videodromico», l'Ottonieri vagheggia il corpo ultrafanico della modella cèca sul palco dell'Ariston. E in un altro suo lp, L'album crèmisi, lamenta «come tutto ciò che è solido nell'Aperto si sfarina!» (contaminando Marx, già, con l'Ottava Elegia) - per concludere, però: «Tanto profondamente amiamo quello che ci colonizza». Mentre qui scandisce che «il solo amore vero / è quello che si perde». Perché - la verità fa male, lo so - quello che si perde è quello che ci perde."""" (Andrea Cortellessa)" -
Fuoco degli occhi
"Marilena Renda apre con una bella idea: seguire le tracce di alcune apparizioni di grandi artisti e pensatori in Sicilia, terra posta al confine tra vero e falso, tra natura e cultura, cioè tra corpo e acqua e tra oggetto e ombra dell'oggetto, dunque tra vivi e morti, in un'atmosfera eliotiana di tempo circolare, sempre tornante, senza inizio né fine. Il tempo è forse quello dell'infanzia e l'infanzia è la veduta di un'isola lontana, abbracciata da fuori con lo sguardo, isola nella quale ogni volta si torna a prendere fiato e, insieme, l'amaro della memoria. Isola-magnete e fuoco centrale della poesia di Renda, caproniana res amissa della biografia che zampilla parole: quando l'infanzia coincide col luogo geografico, la nostalgia e la sua eco narrativa sono doppie, spaziotemporali, sono «una conversazione antica» come quella col Cretto, perché «il dimenticato viene da ogni direzione» e non c'è scampo alla memoria - o a quella che crediamo sia la nostra memoria, che spesso trasfigura invece in invenzione, fata morgana o favola nera. Attraversando la terra prodiga e crudele delle madri, si raggiunge una zona di confine, bianca e sfumata di profezie e visioni e, ancora una volta, di metamorfosi: le mutazioni descritte dalle favole sono ora concrete e tridimensionali, cose vive che davvero si aggirano nelle zone radioattive del mondo, specie estinte che tornano a camminare. Tutto il libro di Renda sembra il ritorno dopo più di un'estinzione, come capita ai vivi. Fuoco degli occhi è resoconto, inventario di quello che regge quando un pezzo di strada è stato fatto, dopo che un terremoto è stato subito e gli occhi hanno visto, del mondo, tradimenti e pericoli, guadagnando una malinconia pacata, adulta, che lascia spazio alla vita, propria e altrui, che si osserva crescere «indisturbata»: vita così vicina e così lontana, se noi siamo capaci di lasciare «la presa sulle creature» e fare che la vita torni alla vita, al proprio micidiale, al proprio formidabile nutrimento."""" (Maria Grazia Calandrone)" -
Memoranda
«Quando si interessa qualcuno agendo nella maniera più insignificante, ecco che questa maniera insignificante significa e che ci si interessa di interessare. Maledetta vanità, cardine su cui giriamo senza staccarci» Barbey d'Aurevilly -
Trattato del perfetto cancelliere e altri scritti
Bartolomeo Carli Piccolomini (1503-1538) fu cancelliere della repubblica senese nel 1529. Leggere gli scritti di un cancelliere di una repubblica del Cinquecento significa entrare in un ""laboratorio"""" nel quale non bisogna mai perdere di vista l'articolazione tra lingua e politica. È il caso dei testi che qui si presentano: precoce lettore di Machiavelli, il Carli Piccolomini """"usa"""" il suo più illustre collega fiorentino per pensare ed agire nella crisi politica della sua città. Quest'edizione non interesserà solo chi voglia approfondire la conoscenza della prima circolazione extra-fiorentina delle opere machiavelliane, ma anche chi desideri scoprire una nuova voce senese nel dibattito sulla """"questione della lingua"""". Discepolo e amico di Claudio Tolomei, Bartolomeo Carli Piccolomini intende confermare le tesi esposte dall'autore del Cesano, applicandole alla filosofia morale e spingendosi a delineare, talvolta anche in opposizione nei confronti del Bembo, la lingua perfetta per un """"perfetto cancelliere""""."" -
Termini per una resa
"Diversamente da altre voci, anche autorevoli, mi sembra che Del Prete, sin dal testo d'esordio, si proponga con decisione l'intento di indicarci una strada da intraprendere, qualcosa che ci aiuti, che ci permetta di rinunciare """"al pantano dei discorsi"""" dominanti. […] Il richiamo al silenzio dell'ascolto non è certo (e nemmeno vuol essere) originale, ma proprio per questo, proprio nel momento in cui accetta il rischio di venire banalizzato e non intercettato, mi pare coraggioso e necessario. Oggi ci vuole, infatti, molto coraggio a indicare la necessità di riscoprire, nel silenzio e nell'ascolto dei mondi, la risposta alla crisi antropologica e sistemica che ci riguarda. […] In definitiva, non solo """"denunciare in pena il presente"""", come scriveva Turoldo, ma anche indicare concretamente un futuro percorribile, per quanto dentro un paese e un tempo devastato e precario: questo forse è il destino toccato alla generazione dei poeti nati negli anni '90. Una generazione che dovrà imparare come avanzare nelle acque, tenendo insieme il senso della storia e il valore della biografia dentro la storia, ed evitando di preoccuparsi per questioni marginali e stantie, che poco hanno a che fare col reale motivo che sta alla base della necessità di scrivere. Di questa generazione Del Prete sarà, senza dubbio, uno dei poeti il cui percorso andrà seguito, augurando a lui, come a noi, che tutto quello di intenso che già si esprime nei suoi versi, continui a maturare e a dare frutto."""" Prefazione di Gabriel Del Sarto" -
Le stagioni della lucertola
Il libro Le stagioni della lucertola, curato da Vincenzo Guarracino, comprende due saggi critici, uno di Carlo Bo e uno di Mario De Micheli, oltre un brano di Salvatore Quasimodo ed è una raccolta di tutte le poesie selezionate, a partire dalle prime del 1965 (La giornata provvisoria - che vinse l'allora famoso Premio Cervia), sino all'inedito L'autunno della metratura, 2020) -
Trent'anni di storia della cultura a Torino (1920-1950)
…Di fatto, tra le due guerre mondiali la cultura italiana era uscita dalle università, dalle redazioni delle riviste, dalle case editrici, dai cenacoli intellettuali dell'Italia liberale, per dilagare nello spazio pubblico attraverso il cinema, la radio, il teatro, la fotografia, i giornali popolari, in una valanga di nuovi linguaggi segnati tutti dalla dimensione novecentesca raccontata da Karl Polanyi nella ""grande trasformazione"""". Ne erano stati travolti tutti i vecchi riferimenti che avevano orientato i percorsi degli intellettuali ottocenteschi. Nuove figure avevano fatto irruzione sulla scena: l'intellettuale militante, ma non solo; gli studenti dei Guf e quelli che avevano partecipato ai Littoriali, funzionari bene inseriti nelle istituzioni culturali del regime, negli uffici-studi delle grandi aziende, negli ambienti finanziari e bancari, insieme a quelli che affollavano le trasmissioni della radio o gli schermi cinematografici avevano dato vita a un ceto professionale che si guadagnava da vivere producendo cultura e che anzi vedeva i propri emolumenti garantiti grazie all'impalcatura istituzionale messa in piedi da Mussolini. Alle élites intellettuali del passato (prevalentemente di estrazione altoborghese, quando non legate alla rendita fondiaria) subentravano gruppi che occupavano gradini diversi della piramide sociale allestita dal fascismo, sedotti dalla prospettiva di essere finalmente sottratti alle angustie e alle ristrettezze della loro tradizionale collocazione accademica per essere inseriti nel vivo dei meccanismi decisionali del regime, chiamati a una partecipazione diretta non solo all'organizza-zione della produzione e dell'economia ma anche al controllo del consenso delle grandi masse… Giovanni De Luna, introduzione"" -
Di buio in buio
"Dio, non perdonare chi poteva essere poeta e s'è perduto chi poteva essere santo e non è neppure un uomo."""" La poesia, croce e delizia, per Manganelli, ma anche la poesia come maledizione. La poesia che lo insegue, non gli dà respiro, """"vuole essere scritta"""". E il Manga ubbidisce." -
Quella cosa priva di nome. La quadratura del cerchio
Parafrasando una battuta di Victor Hugo sul Rinascimento, disse una volta Claude Debussy che la rivoluzione di Wagner, che si voleva un'alba, era invece un tramonto. Di ogni confine si possono esaltare tanto le costanti che le varianti; ma non c'è dubbio che Wagner abbia salato il sangue a più generazioni di novatori, da Baudelaire a Nietzsche (il quale farà in tempo a cambiare idea; ma anche Debussy era un «bidello del Walhalla» pentito) sino a d'Annunzio, Campana e Joyce. Per un media philosopher come Friedrich Kittler, senza il Gesamtkunstwerk non sarebbero concepibili neppure il progressive rock o la disco. Ma tutta la multimedialità di oggi, in fondo, viene dritta da Bayreuth. I suoi grandi testi teorici sono affetti dalla stessa ipertrofia delle opere di Wagner: momenti splendidi, e interminabili quarti d'ora (per dirla con un altro collega malevolo). Così Federico Capitoni, che tra i saggisti dell'ultima generazione è quello dalla più spiccata vocazione interdisciplinare (illuminando, di questo pensiero, quello che «è vivo» e quello che «è morto»; non senza indicare quanto di ancora-wagneriano alligni nella sperimentazione di oggi), ha pensato bene di ""pescare"""" dagli scritti più agili e d'occasione. Faville del maglio che si rivelano piccoli gioielli. Una volta per esempio, in alternativa alla formula più vulgata (e volgare) di «arte dell'avvenire», Wagner definisce la sua opera «quella cosa priva di nome». Un po' come «il sogno di una cosa» di cui parlava il giovane Marx."" -
Il breviario del principe di Kiev
Vladimir Monamach (XII sec.), conosciuto anche come Vladimir II di Kiev, ha legato il suo nome alla «Istruzione [Poučenie]», che qui si presenta con il titolo editoriale di Breviario del principe di Kiev. Quest'opera rappresenta un unicum nella storia della letteratura russa antica. Con essa infatti è la prima volta che un laico, un non religioso, si prodiga nell'indirizzare ai propri figli degli insegnamenti di carattere morale. Dal punto di vista personale egli li esorta a seguire la virtù, a evitare ogni forma di eccesso, ad essere morigerati, mentre dal punto di vista sociale l'insegnamento è a venire in soccorso dei più deboli e dei poveri, a praticare la clemenza, a esercitare la prudenza, a non praticare nessun abuso e ad avere rispetto degli altri. L'opera conserva l'eco delle guerre che numerose si combatterono e insanguinarono la terra di Rus' a quel tempo. Tuttavia Monomach si dimostra un uomo moderato ed equilibrato e nella sua Istruzione egli insiste molto sulla riconciliazione, sulla riappacificazione, in russo «primirenie», un vocabolo che ha in sé proprio la tanto auspicata parola «mir» che vuol dire per pace. -
Il tribunale verde
«Il primo libro che scrissi, una plaquette per nozze, una fantasia heiniana dal titolo Tribunale Verde traeva argomento appunto dalle mie prime esperienze curialesche. Si trattava di una causa di oltraggio al pudore che mi venne intentata dal Mondo Vegetale per aver io abbracciata in un momento di panica distrazione una gentile betulla in cospetto di tutta la gente vegetale, e del processo che seguiva davanti all'Alta Corte degli Alberi d'alto e di basso fusto. Fece un certo chiasso». -
Il giardino di Ciro
Pubblicato quasi quattro secoli orsono, Il giardino di Ciro è un'opera raffinata e misteriosa, animata da uno spirito scientifico di stampo baconiano e impreziosita da suggestioni geroglifiche dettate da un gusto squisitamente barocco e da una sensibilità per molti versi ancora rinascimentale. -
Luigi Pericle. Il maestro ritrovato
Luigi Pericle, artista assolutamente non catalogabile secondo i canoni, le mode e le correnti artistiche del Novecento, non fu soltanto un pittore né fu unicamente un pensatore. Fu un autentico maestro, in grado di unire i due mondi in una ricerca sapienziale su forme, colori, materia e segni, e inserì il suo lavoro pittorico in un più ampio contesto di indagini e riflessioni sul misticismo, l'astrazione, l'alchimia, l'astrologia, la calligrafia e la filosofia, all'inseguimento del sogno - per lui una ragione di vita - di una sintesi universale dei saperi. Di lui oggi rimane un corpus di quasi 4000 opere originali comprendenti tele e chine, un ricchissimo carteggio con vari intellettuali dell'epoca, taccuini e quaderni di studio, un romanzo inedito e una vasta biblioteca personale. Qui, attraverso i libri, aveva accumulato tutte le conoscenze possibili per costruire il proprio mondo, un universo che parlava le lingue della letteratura, delle arti visive, della meccanica, delle religioni ma anche delle scienze occulte. -
Ulrich von Hutten e i rapporti fra rinascimento e riforma
Nella biografia intellettuale e politica di Delio Cantimori il saggio su Ulrich von Hutten, pubblicato nel 1930, e mai più ristampato occupa un posto importante. Il libro, frutto della rielaborazione della sua tesi sul cavaliere umanista Ulrich von Hutten discussa col professor Giuseppe Saitta, ricostruisce in pagine di taglio vivamente saggistico ma di robusta base filologica la vita e le opere del celebre scrittore e polemista tedesco, protagonista accanto a Franz von Sickingen della fallita rivoluzione del 1522 della minore nobiltà. La tesi di Cantimori è che Ulrich von Hutten sia stato dominato dalla scoperta dell'idea di nazione e si sia dedicato alla causa di ridare vita a una nazione tedesca investendo in questo obbiettivo tutto quello che gli offrivano i due grandi movimenti intellettuali e religiosi del suo tempo, il Rinascimento e la Riforma. Il giovane Cantimori, seguace di un'ideologia politica nazionalista e fascista e fortemente attirato dalle correnti nazionaliste della Germania post-prima guerra mondiale, vide nell'opera di Hutten il modello positivo di ciò che era mancato al Rinascimento italiano dove il distacco dalla religione tradizionale aveva prodotto isolate figure di eretici, ma non un movimento nazionale di riforma.