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Stamattina stasera troppo presto
Parigi, una vigilia. Un attore americano - bellissima moglie svedese, un figlio che saluta con «bonsoir» e un amico regista a cui deve il successo - sta per vivere la sua ultima serata in terra straniera. Si tratterebbe della fine di un esilio, della strada verso casa; ma non è così. Per un nero americano il momento del ritorno è sempre mancato. E stamattina stasera troppo presto, come l'ora di chi nasce espatriato. E una lunga e agitata notte di incubi. La nostalgia irrisolta di un uomo a cui hanno negato le radici. Col suo percorso biografico, negli otto blues della raccolta, James Baldwin rivive e dischiude momenti dell'intero spirito nero americano. Senza patria e senza padre nell'infanzia passata fra i vicoli e le scale antincendio di Harlem. Solo contro il peccato e la minaccia della pena di fronte ai sermoni e lo spettacolo estatico dei gospel. Disadattato e frustrato contro i pregiudizi dei razzisti, dei buonisti alla zio Tom, dei neri disillusi e abbandonati a loro stessi fra le strade e i punti esclamativi di Manhattan. Commosso sulle note di un fratello - di ogni fratello - che ha gettato la vita per inseguire Charlie Parker. Nella lotta per l'identità di una coscienza, quella nera, da sempre lacerata, la discesa fino all'inconscio appare come l'unica salvezza contro l'ossessione del colore e la paura per la propria vita. Così Baldwin si fa universale: bianco e nero, saggista e narratore, moralista e libertino. Scava nell'anima fino al peccato originale in cui è svelata, come un fuoco, la più gratuita delle brutalità dell'uomo contro il corpo dell'uomo. -
Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose
Non c'è stato momento in cui la forma breve non abbia accompagnato il fiume narrativo di Virginia Woolf. Schizzi, immagini, prose da cui trarre un'intera poetica: in quel brusio dell'essere, tappeto armonico per l'intera opera della scrittrice, i racconti sembra abbiano fatto da accompagnamento ritmico. In parte pubblicati in vita, in parte postumi, oppure custoditi in un quaderno, oggi costituiscono il battito letterario di Oggetti solidi. Un libro della vita. Sia perché testimone di un'intera biografia, sia perché eloquente di uno sguardo e di un orecchio teso verso niente più, e nientemeno, che la vita stessa. Potrà sembrare astratto, ma è bene coglierne la solidità nascosta. La potenza dei moti d'animo, la forza delle passioni al di sotto di quel volo leggero che sembra planare sopra un chiacchiericcio troppo mondano, come nei racconti della «festa». Le escursioni in una lingua nuova, polifonica anche in seno alla coscienza, che non fatica a far sentire il suo peso. E poi ovunque la gioia, e il fardello, dell'immaginazione: animali che prendono vita su di un pezzo di stoffa, case stregate o piene di tesori sorvegliati da pappagalli, diari colmi di confessioni inascoltate, pensieri racchiusi in uno stagno e la creazione, fra i tanti, di personaggi come Mrs Dalloway e Mrs Ramsay. Raccolti in un'edizione impreziosita dalla curatela di Liliana Rampello, ognuno di questi oggetti ricompone tutta la complessità di un respiro libero, sottile e colmo di ironia, in un rinnovato classico della narrativa breve e non solo. -
Bere caffè da un'altra parte
Una giovane donna di chiesa, studentessa diligente, è seduta sul bancone di un five-and-dime di provincia. È da un po' che ha ordinato il suo milkshake, ma pare che dovrà attendere. Doris è nera - come i ragazzi dei fatti di Greensboro - mentre il decennio appena iniziato ha un cartello con su scritto: whites only. Quali pensieri le passano per la testa? E quali opportunità si dischiuderanno per le future generazioni, a partire dalla forza che sarà in grado di dimostrare? Non c'è Storia di un popolo che non viva nei racconti della sua gente. ZZ Packer prova a riscriverla ripercorrendo ogni piccola esperienza, ogni vicolo dietro la strada principale e ogni radice che si dirama da quel fusto. Lì nascono storie per chi ha bisogno di colmare una mancanza: quella di un bluesman senza una gamba e di un'infermiera bigotta che non riesce a toglierselo dalla testa, o quella di una ragazzina in fuga da casa e in cerca di sua madre fra i travestiti di Atlanta. Sono storie aggrovigliate come le immagini che si vedono dai treni in corsa e che proprio in quella matassa, tuttavia, riescono a sigillare un attimo di verità: piccole scout che imparano a odiare, ragazze del college che imparano ad amare, e altre ragazze in esilio che scoprono cosa si può arrivare a fare quando si è affamati per davvero. A una vita di distanza dagli anni '60, e da quella ragazza sul bancone, ""Bere caffè da un'altra parte"""" significa potersi inventare un futuro facendo i conti col passato. Come in un film di Spike Lee: per quanto tu possa essere un ragazzo modello, c'è ancora un padre idealista e galeotto da sfidare sotto canestro."" -
Non chiamarmi col mio nome
«Purdi è un campione nel gestire intensità emotive elevate conservando un'eleganza che confina col decoro e lasciando allo stesso tempo tracimare sottotraccia un senso di sordido disagio che ogni volta suggerisce che non vi sono possibilità di redenzione.» - Vanni Santoni, La lettura - Corriere della SerarnJames Purdy e la sua scrittura rimangono un rebus oggi come ieri. Amato da autori che non potrebbero essere più diversi - tra gli altri Jonathan Franzen, Gore Vidal e David Means che firma l'introduzione a questo libro -, non ha mai incontrato il favore del grande pubblico né lo ha mai ricercato. Forse proprio perché non l'abbiamo capito meriterebbe ancora un'altra chance per confonderci e sviarci, per mostrarci come la letteratura possa ancora essere un oggetto misterioso che prescinde da regole di scrittura fissate come fossero le tavole del tempio. La prosa di Purdy potrebbe suonare anacronistica, con le sue didascalie, il suo marchiano ""tell don't show"""", questi personaggi che fulminano a bruciapelo gli interlocutori con domande sul senso delle cose, stridenti nella loro chiarezza e crudeli nel loro essere stralunate. I neon di un cinema notturno piuttosto equivoco squillano """"uomini uomini uomini"""", e nella sala buia qualche marchettaro è intento a conoscere col tatto corpi e fremiti propri e altrui. Così come gli Holden efebici che perlustrano gli anfratti più bui di un parco sordido varcano quel territorio di confine che è l'omosessualità, allo stesso modo la lingua di Purdy sta e si misura fra ciò che dice e ciò che esclude dall'esser detto, ciò che rimane fuori ma soprattutto sotto l'abito di parole confezionato da questo formalissimo sarto letterario. Sotto una spessa patina di urbanità e manierismi, pulsa una voragine di desiderio e gli interpreti azzimati e ossequiosi di queste turpitudini mai esibite, ma solo ruminate e vissute, hanno un'onomastica e una """"quirkiness"""" tutta dickensiana. Nell'America che ha fatto una patologia della sua purezza, Purdy si prende il rischio di addossare la colpa alle vittime, con una prosa perturbante che non disvela e non smaschera, ma anzi fa più buio quando ci sono tutte le luci accese."" -
Birra scura e cipolle dolci
«Leggere Cheever mi fa sentire come se facessi parte di un mondo d’improvviso interessante, di un paradiso, o perlomeno di un mondo che paradiso lo è stato o potrebbe esserlo.» - John Updikern«Cheever è il Cechov dei sobborghi» - Elmore Leonardrn«Chi conosce e ama i racconti di Cheever conosce il fascino della stringatezza, l’incanto della sospensione. Una sobrietà che deplora svolte melodrammatiche, e si comprime in una feroce essenzialità. C’è un’intensità quasi insostenibile in ogni riga di Cheever. Un’intensità che potrebbe essere la causa della sua sofferenza privata e del suo pubblico successo.» - Alessandro PipernornrnrnrnJohn Cheever scrive questi racconti tra i venti e i trent'anni. Sono short stories imbevute di idealismo e della sua necessaria scia di disillusione, giovanili eppure di uno scrittore già formidabile e formato, da principio pubblicate su riviste di sinistra con tirature risibili e poi via via su magazine sempre più alla moda come Cosmopolitan e Collier's. Non siamo ancora alle cronache minute di ciò che succede dietro i prati perfettamente falciati e le staccionate imbiancate di fresco, ma tra commessi viaggiatori al tramonto dei loro giorni di gloria e marxisti puritani che osservano gli altri bere e divertirsi mentre loro immaginano un'umanità nuova. Parteggiamo per la rivincita di una spogliarellista in là con gli anni e subito dopo assistiamo agli innumerevoli piccoli fallimenti di giocatori d'azzardo sempre alla ricerca di un'ultima opportunità, di un cavallo finalmente vincente e di una felicità mai raggiunta e sempre inseguita con la pervicacia di un baio adombrato. È l'onda lunga della Grande depressione post '29, un'America che va imparando il sapore della nostalgia per un'era mai vissuta e un'innocenza tutta da perdere. Cheever accarezza grazia e peccato, muovendosi tra case sfitte, inquilini che non pagano la pigione e torchi fermi da troppe stagioni. E così incontriamo zingari ubriaconi travestiti da pellerossa e cameriere disposte a ogni sgambetto pur di tenersi strette lavoro e dignità. Incontri che, come sostiene Christian Raimo nell'introduzione, ci ricordano perché vale la pena leggere. -
Dal tuo terrazzo si vede casa mia
Candidato al Premio Strega 2018rn«Avevo storie in testa e ho incominciato a scriverle, in italiano, lingua in cui avevo iniziato a leggere» - Elvis MalajrnFra due case che si vedono l'un l'altra potrebbe esserci una strada. Lastricata e sicura, a volte, ma più spesso tortuosa, o liquida come il mare fra l'Italia e l'Albania. La via fra le sue onde è faticosa come una lingua da imparare, andando e tornando, pensando una cosa e dicendone un'altra. Ma non sono soltanto le parole a mutare, ad assumere nuovi significati in questo relato sono i fatti stessi e le persone che troviamo sul cammino. Sempre a metà del guado, Elvis Malaj ci restituisce qualche tappa di questo percorso: due mondi, due lingue, fra noi e loro, me e te. Declinazioni dell'inadeguatezza - per forza di cose - poiché a camminare in cima al bordo si finisce per barcollare, e non corrispondere ad alcuna definizione. E così una prima volta non sarà mai abbastanza bella, o abbastanza prima, un approccio mai abbastanza azzeccato, una battuta mai capita fino in fondo, e una metafora? O troppo astratta o presa troppo alla lettera. E qualche volta, per evitare il confronto, si chiederà scusa e si scapperà via approfittando di un incidente; oppure si preferirà il silenzio sin da subito e l'incidente lo si andrà a cercare. Si indosserà una maschera per diventare le persone che vogliamo. Perché il confine, sfumando, è tra finzione e realtà. ""Dal tuo terrazzo si vede casa mia"""" è l'invito a venire dall'altra parte, a scendere di casa e passare per quella strada. Un'istanza di condivisione e meticciato, di sguardo altro, di cui sentiamo il richiamo."" -
Il vizio di smettere
«La bella raccolta di racconti di Michele Orti Manara Il vizio di smettere è un’antologia delle possibilità.» - Gianni Santoro, Robinson – la RepubblicarnQualche tempo fa l'autore di questo libro si è chiesto a chi assomigliassero i propri personaggi. Quale carattere fosse possibile tratteggiare oltre le loro differenze di genere, età, orientamento sessuale e modo di raccontarsi. Intravedeva qualcosa, un'immagine composita. Alcuni di loro risultavano irretiti in grattacapi che l'autore stesso non avrebbe mai saputo risolvere, mentre altri sembravano annegare in un bicchier d'acqua: era possibile che, pur ricamando diverse sintassi, componessero un'unica trama? Perché a sentire di una madre intenta a tappare ogni spiraglio di luce per far dormire il figlio, e di una donna braccata dal proprio assicuratore, si era pronti a ipotizzare la stessa categoria d'ossessione. La stessa materia oscura a tenere unite le confidenze di un adolescente in attesa del migliore amico e la parabola di Wali Gupta, il colpevole uomo delle pulizie in attesa dei padroni di casa. Di cosa era fatto questo collante, una comune dif denza nei confronti del futuro? Forse, si è risposto l'autore, ma più quel leggero panico che ci prende quando crediamo ci sia qualcuno a scrivere i nostri passi, come un assassino inseguito dalla propria missione. Non è tanto il fastidio per i li, quanto le poche aspettative riposte sulla clemenza del burattinaio. È qualcosa di indefinibile, per cui si finisce sempre sul bancone del bar a prestare l'orecchio ai deliri di una vecchia, o sul divano di casa a dar retta a un gatto smorfioso. Un po' come tifare per la tartaruga, e quella sua cocciuta lotta contro Achille. L'autore se l'è chiesto varie volte chi o cosa fosse questo volto nascosto, e ogni tanto ha pensato di aver riconosciuto qualcuno. Dopo un po', però, non sapendo bene come porre la questione, ha deciso di smetterla con questo vizio di farsi domande, e si è rimesso a scrivere. -
Fantasie di stupro
Ma si può avere una fantasia di stupro? Quattro colleghe giocano a carte durante la pausa pranzo e conversano sull'ossessione delle riviste rosa per un certo tipo di fantasie, quelle che prevedono l'irrompere in casa di uno sconosciuto fascinoso ma violento. Mentre le due bionde, una receptionist e un'archivista, ammantano di romanticismo questa fantasticheria tutt'altro che innocua e Sondra tace perché forse qualcosa da dire lo avrebbe, Estelle confessa i suoi sogni, quelli in cui si serve soltanto dell'ironia per dissuadere gli stupratori goffi, maldestri e profondamente umani che la molestano. «Nelle mie fantasie finisce sempre che mi dispiace per lui, insomma, dev'esserci qualcosa che non va in loro.» La vittima considera a loro volta vittime i carnefici, del resto «come potrebbe un uomo fare una cosa del genere a una persona con cui ha appena chiacchierato a lungo, una volta che capisce che anche lei è un essere umano, che anche lei ha una vita, non riesco a immaginare come possano andare fino in fondo, sai? Insomma, so che succede ma non lo capisco, questa è la parte che proprio non riesco a capire». -
Novelle disincantate
Nel 1990 le Novelle disincantate vinsero il premio Goncourt dedicato al racconto salvo poi sparire dalla scena internazionale, mai pubblicate in Italia. rn«Pescivendoli inventori. Maghi della pioggia ansiosi di vendetta sui meteorologi. Amate Perec e il teatro dell'assurdo? Accomodatevi: Jacques Bens è il folle che fa per voi» - Gaia Manzini, RobinsonrnPer Jacques Bens – fra i fondatori storici della celebre Oulipo, l’officina di letteratura potenziale di Perec e Queneau – si trattava quasi di un riconoscimento alla carriera, prima di morire a soli settant’anni dieci anni più tardi. Le novelle del resto sembrano il contraltare breve dei più famosi romanzi oulipensi: medesima leggerezza, ironia e vena di romanticismo concentrati in racconto. Eppure per vocazione pseudoscientifica si avvicinano più alle elucubrazioni di Jarry, o alle scienze inesatte dei Figli del limo. Gli inventori del moto perpetuo sono non a caso dei pescivendoli, a usufruire delle macchine del tempo sono musicisti impacciati con le donne, chi sa come far piovere a comando viene lasciato dalla moglie proprio per il meteorologo. È questa la cifra ironica di Bens. Scienziati impacciati, maghi che non chiedono troppo alla vita, maestri che per spiegare come si scrive un racconto finiscono per scriverselo addosso. -
Ovunque sulla terra gli uomini
L’invito è ad ascoltare i riverberi, perché anche quando si giunge all’epifania finale, cristallina, si ha la sensazione di aver gravitato attorno a una resistenza sempre impermeabile alla parola: un nucleo indicibile – bestiale e istintivo, spirituale e immateriale – a cui i protagonisti e il lettore finiscono per dedicarsi anima e corpo.rnrn«Una raccolta di dieci racconti che colpisce per la prosa ricercata e abilmente modulata, dalle sfumature poetiche della storia di Manuelita e Rema alla crudezza agghiacciante che descrive la disciplina del colleggio giapponese di Bokujou» - Luigi Gaetani, RobinsonrnrnLe vicende del protagonista di Bocca d’Arno e della sua ebbra discesa in acqua, quelle di Gombo e Tuya e del loro simulacro d’amore, o di Rema e Manuelita e del loro vincolo segreto, resteranno impresse per molto tempo, ci scommettiamo, nelle orecchie del lettore; perché questo libro si apre come un carillon di melodie memorabili anche se in continua e incessante variazione. Da ogni angolo del globo ci arrivano storie, miti, diari e confessioni che mai lasciano schiudere interamente i loro luoghi d’origine prima che la pagina venga recitata. Ovunque sulla terra gli uomini è anzi un borgesiano atlante di esseri immaginari le cui geografie rivelano tanto quanto nascondono. Nella prosa di Marrucci sembra infatti non aprirsi alcuno scenario che scavalchi o anticipi l’evocazione letteraria in sé; come se il lettore assieme alla voce narrante partecipasse all’apparizione dell’universo in cui pure si ritrova, frase dopo frase, parola dopo parola. -
Un attimo immobile
Quando il bandito James Murrell e il predicatore Lorenzo Dow finiscono per incontrarsi dopo una cavalcata furiosa sulla Pista di Natchez si apre al lettore un momento simbolico. Davanti a loro appare un terzo uomo, l'ornitologo Audubon, tutto assorto nei suoi disegni e nella contemplazione della natura, ed è come se il bene e il male arrivassero improvvisamente a una resa dei conti. Quale verità attende loro, e noi che li osserviamo col fiato sospeso? In ""Un attimo immobile"""" ci sembra di ascoltare gli umori e le agitazioni di un'autrice in nuova tensione - una Eudora Welty più che mai devota alle descrizioni. Questo Sud abbandona il grottesco di """"Una coltre di verde"""" per ripiegarsi su di sé, in una continua trasfigurazione dei luoghi e dell'anima. Osserviamo le stagioni cambiare di fronte agli occhi dei protagonisti, i fiumi rallentare, ingrossarsi, esondare, mentre la scrittura tenta un'impossibile fotografia dell'attimo. Talvolta nell'immagine si scorgono persino gli spiriti del passato: l'infanzia degli Stati Uniti, animata dai complotti di Burr, ma anche quella della piccola Josie e del suo sogno d'amore in una burrascosa notte di equinozio. Forse le paturnie della scrittrice e dei tre personaggi del racconto hanno solo una verità a cui chiedere ragioni: il tempo, contraddittorio e divino, a cui questo libro sembra rendere omaggio."" -
A casa quando è buio
Chissà che non siano le stesse ordalie dell'autore, quelle di un disperato che barricato dentro una cabina telefonica cerca qualcuno a caso a cui poter raccontare una storia, la sua, fatta di una moglie stanca di topi, pappa d'avena e appartamenti fatiscenti. rnrn«I racconti di questo libro, uno più bello dell'altro, sono quasi sempre confronti, dialoghi a due in cui si svela lentamente, con grande sapienza, tutto quello che c'è intorno: personaggi, ambienti, situazioni emergono in modo nitido eppure fuggevole, chiaro e insieme distorto» - Marco Rossari, DrnrnJames Purdy del resto ha faticato a incontrare il gusto del grande pubblico e il suo seguito è sempre stato costituito da un manipolo di devoti ben nascosti. Fuori da tutti i giri e alieno alle mode letterarie, come scrive Giordano Tedoldi nella postfazione a questo libro, Purdy non ha fatto parte nemmeno di una controcultura; piuttosto è sempre e"" stato contro la cultura stessa. I racconti contenuti in """"A casa quando è buio"""" sembrano confermare questa sua tensione verso un'aporia finale, una continua evocazione di spettri e assenze attraverso la parola e il simbolo. La scrittura di Purdy è cava, i suoi sono sempre incontri mancati e su di essi aleggia incombente un senso di minaccia. Dialoghi platonici irti di """"non sequitur"""" che indagano il baratro, il cuore oscuro dell'uomo, la sua vulnerabilità, e i desideri che si agitano sotto maniere e abiti inappuntabili. Non sappiamo se sia Mr Diehl, oscenamente bagnato come un tritone, a impartire una lezione alla povera Polly, ma leggendo la storia di questo alterco a bordo piscina la nostra quiete è incrinata. Quando due amici discettano a pranzo di un collega culturista il realismo borghese è solo apparente e il quotidiano sconfina nell'onirico. Un attraversamento che diventa definitivo nell'ultima storia di questa raccolta, un sermone all'umanità firmato da Lui in persona."" -
La felicita è come l'acqua
L'acqua non disseta e non bagna, piuttosto si disperde in rivoli fra le mani; è la felicità, passeggera e per questo preziosa, raccontata nelle moderne fiabe africane di Chinelo Okparanta. Leggendo le sue storie cí immergiamo, accompagnati da una lingua lirica e una cadenza folclorica, in un nuovo mondo sorretto da parole antiche, ascoltate di sottecchi mentre si cucina un riso jollof, tuonate da pulpiti, o peggio ancora mai pronunciate e sepolte in un quotidiano limaccioso e misterico, riaffiorando in superficie, annaspando per trovare l'aria. Una società rigidamente patriarcale in cui le donne sono disposte a tutto pur di sbiancarsi la pelle nel tentativo impossibile di assomigliare alle modelle lattiginose di Cosmopolitan, oppure vengono ripudiate dai mariti ed etichettate come mgbaliga, «botti vuote», quando non riescono a fare figli. Un mondo ancestrale di pozioni sciamaniche che danno la morte e di una nuova ricchezza che avvelena i pozzi e i parchi gioco. ""La felicità è come l'acqua"""" è anche una controstoria orale in cui la Shell e le perdite di greggio nel delta del Niger possono essere il salvacondotto per raggiungere un amore lontano, una donna che vive negli Stati Uniti tanto idealizzati. Eppure la Nigeria, impersonata da un padre manesco, è capace di inseguire una bambina e sua madre fin nella sofisticata Boston, dentro gli alloggi universitari in cui convivono africani, caraibici e indiani, tutti muniti di un prezioso visto di studio che vale bene qualche livido e occhio nero."" -
La mia guerra segreta
Quando Robert Culper, uno spacciatore di mezza tacca, viene prelevato da misteriosi agenti federali e si ritrova a Guantànamo, torturato da musica death metal e deprivazioni sensoriali solo per essersi lasciato andare a commenti spregiativi postcoitali durante il crollo delle Torri gemelle, non sa ancora che la sua vita sta per cambiare per sempre. La guerra che ha combattuto tutta una vita - un conflitto a bassa intensità contro una normalità strisciante, i vialetti con l'auto parcheggiata e il prato ben rasato - sta per essere persa una volta e per tutte. Philip Ó Ceallaigh torna a scrivere di uomini stanchi di essere cinici, solitari sbriciolati di ogni certezza che percorrono le strade brulicanti del Cairo o i disabitati boschi transilvani armati solo di scarponi e del desiderio di trovare un angolo di mondo dove non essere più raggiunti. Il racconto è la speciale forma di questo viaggio, una forma di esplorazione del reale e delle sue estensioni, condotta con mano sicura da chi è a suo agio sia nella satira del romanzo sapienziale à la Coelho sia in un tour de force letterario ambientato tra i signori della guerra georgiani. Il consiglio è di infilare il vostro paio di scarponi più resistenti e seguire le tracce dello scrittore irlandese. -
Come in una tomba
Fresco di Vietnam, sfregiato in modo orrendo, Garnet Montrose fa ritorno alla sua cittadina d'origine in Virginia e diventa immediatamente un paria. Schifato dai suoi amici per il suo aspetto, ma tutt'altro che scoraggiato, decide di riprendere il corteggiamento della sua antica fiamma dei tempi del liceo, la vedova Rance. rn«C’è sempre un momento in cui il lettore forte scopre James Purdy.» - Vanni Santoni, La Letturarn«Feroce e semplice, visionario e realistico: riesce a bilanciarerndue pulsioni narrative inconciliabili in apologhi crudeli, meravigliosi. Ha scritto Jonathan Franzen che dove gli scrittori come lui e Bellow si fermavano, lì cominciava James Purdy. Ecco, cominciate anche voi.» - Marco Rossari, D La Repubblicarnrn«È bello perdersi nelle inquietudini di uno dei più sottovalutati autori contemporanei, capace di ignorare non solo la cultura ma anche la controcultura statunitense.» - Lorenzo Mazzoni, Il Fatto QuotidianornGarnet Montrose ritorna sfregiato dal Vietnam alla sua cittadina d’origine in Virginia e diventa immediatamente un paria. Schifato dai suoi amici per il suo aspetto ma tutt’altro che scoraggiato, non demorde e riprende il corteggiamento della sua antica fiamma dei tempi del liceo, la vedova Rance. L’unico a rimanergli accanto è un altro sbandato, un ragazzino bellissimo ma sdentato, tale Potter Daventry, che ha assunto come suo tuttofare: legge per lui, consegna le sue lettere d’amore alla vedova Rance, gli lava i piedi come fosse un dio. Sia Garnet che la vedova finiranno per essere irretiti da questo strano e perturbante ragazzo. -
La casa della fame
Continuamente trasfigurati da un'incredibile cantilena di metafore, iconizzati in un particolarissimo espressionismo delle immagini, si aprono invece i trascorsi di un'intera esistenza, e forse di più: le vicende politiche di uno studente sacrificato all'identità africana, la dissoluzione di una famiglia, pestaggi, i ricordi d'infanzia, le disavventure sessuali, la storia della Rhodesia, le elucubrazioni artistiche di un intellettuale formato nel bozzolo di una cultura bianca da cui viene fatalmente attratto e disgustato, e poi i sogni, gli ideali e soprattutto gli incubi di un vagabondo sconfitto dalla nascita.rn«È un intreccio di racconti in cui l'autore, cresciuto in una famiglia povera, ha trasfigurato con un linguaggio unico la sua avventura intellettuale e umana breve e tragica» - RobinsonrnAl crepuscolo degli anni '70, uno spettro nell'imbalsamato ambiente letterario di Oxford, Dambudzo Marechera gettava sul foglio alcune righe che lo avrebbero reso di lì a poco una celebrità e una meteora. ""Presi le mie cose e me ne andai"""", così rimbombava l'incipit di quel testo: una sentenza drammaticamente segnata dall'ironia di una dipartita incombente e inevitabile, dall'Inghilterra e poi dal mondo, come ultima tappa di un processo autodistruttivo in cui per ogni eccesso della mente era il corpo a incassare. L'origine di quel vortice soffocante è custodito nella """"Casa della fame"""", un classico svanito nel tempo. Come tempestato da una pioggia di pensieri, in questa novella infinita, lo scrittore protagonista si immerge e riemerge, piomba e si inabissa, in una memoria spontanea che vivifica e scuote l'impellente decisione di andare. Ma via da dove e verso dove non sarà mai chiaro."" -
La parabola dei ciechi
Sono pochi i racconti che hanno saputo inabissarsi nelle possibilità narrative scandagliate dalla Parabola dei ciechi. A metà degli anni '80, a circa quattrocento anni di distanza dall'omonimo dipinto di Bruegel, Gert Hofmann si propose di scrivere una genealogia teatrale del quadro, una sua messa in scena che raccontasse il diventare arte dei personaggi, seguendo l'assurda idea che si potesse spiegare un'immagine a partire dall'incespicante prospettiva di un gruppo di ciechi. Così, ascoltando l'eco di un'Europa dilaniata dalle guerre di religione, brancolando senza guida nelle Fiandre di Pede-Sainte-Anne, assistiamo alla continua interrogazione e sofferenza di questo «noi» impacciato che, ignaro del perché, si dirige dal «pittore» per farsi ritrarre nella posa che la parabola biblica e il proverbio fiammingo imporrebbero: ""Quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa"""". Bruegel e Hofmann ne immaginano sei, aggiungendo anelli a una catena di capitomboli che quella prima persona plurale sembrerebbe moltiplicare all'infinito, fino ad abbracciare l'intera umanità. Noi, i ciechi, ascoltiamo i lamenti di un mondo straziato, gattoniamo per uscire dai fossi, siamo inseguiti dai corvi, ci fidiamo e veniamo traditi dai consigli di chi ci accompagna, spesso li travisiamo, siamo costretti a """"cacare"""" in pubblico, ci rendiamo ridicoli, siamo attori di un grande equivoco, l'esistenza. E per far sì che questa caduta pieghi di un poco la sua traiettoria - e si faccia parabola - non ci rimane che vederci per quello che siamo e farci immortalare nell'opera d'arte. Correndo il rischio di trasformare la verticale in cerchio, di girare in tondo alla cieca, di cadere per l'eternità, in attesa della fine, scambiando un equivoco per un altro."" -
Viaggi sulla luna
Racconti di Dino Buzzati,rnJames G. Ballard, rnTommaso Landolfi, rnEdgar Allan Poe,rnStanley Weinbaum e molti altri dedicati alla Luna.rnrn«Ci sono solo due problemi da risolvere quando si va sulla Luna: primo, come arrivarci; ernsecondo, come tornare indietro. La chiave sta nel non partire prima di aver risolto entrambirni problemi.» - Neil Armstrongrn«In realtà non sarà un uomo solo ad andare sulla Luna, ma sarà un’intera nazione. Perché tuttirnnoi dobbiamo lavorare insieme per mandare quell’uomo sulla Luna.» - John F. KennedyrnrnPrima di concedersi il famoso bacio del ’69, nelrnbuio dello spazio più profondo, Luna e Terra hannorndovuto danzare a velocità supersonica per millenni,rnsenza mai staccarsi gli occhi di dosso. Perchérnsi facesse il gran passo (per quanto piccolo secondornNeil) ci sono voluti propulsori, moduli erncalcoli computerizzati, ma a niente sarebbe servitarnla risolutezza scientifica senza un po’ di poesia,rndi archetti, insomma, senza un po’ d’atmosfera.rnMolto prima che l’Apollo 11 toccasse il suolornlunare è stata l’arte, in tutte le sue forme, ad accomodarernl’attrazione preparando fatalmente il terrenornper l’allunaggio. Nei suoi sogni e desideri –rnspesso perdendo il senno come l’Orlando – l’uomornè stato sulla Luna infinite volte, eleggendo ilrn«pianeta» prediletto a simbolo romantico dei migliorirnviaggi d’avventura. Senza che esistesse un’astro-rntecnica su cui fantasticare, per esempio, al celebrernHans Pfaall erano bastati i debiti, una mongolfierarnben equipaggiata e un’interpretazionerntutta sua delle leggi di natura, per salire al cospettorndella Luna. Laddove al miliardario Harriman,rnnel racconto di Heinlein, non sembravano bastarerntutti i soldi e i razzi di questo mondo, pur avendornil satellite a portata di mano. Forse che dopo tantarnletteratura, dopo tanto vorticare nello spazio quelrnbacio strappato, rubato con astronavi vere e proprie,rnabbia tolto il gusto del racconto? Alla vigiliarndello sbarco Buzzati intonava una preghiera: Nonrndeluderci, Luna. Ma come l’astronauta ubriaconerndi Ballard sembrerebbe confidarci – e come questirnracconti confermeranno – quel piccolo contattornnon ha spento, semmai ha amplificato, la vogliarndi sussurrare ancora alla nostra dama di ballo. -
Lot
Riconosciuto da innumerevoli premi come uno degli esordi più interessanti dell'anno, Lot rivela un talento del tutto singolare, con uno stile anch'esso a metà; fra la veracità di una prosa rapida, fradicia di melting pot e street knowledge, e la poeticità propria di certi orizzonti oleosi, di certe insicurezze sessuali e di alcuni, rari e centellinati, momenti catartici.rn«Una magnifica raccolta di racconti autoconclusivi eppure legati tutti da un filo, come in un romanzo più ampio che guarda dentro le finestre di un condominio di periferia, dentro vite che popolano la stessa topografia» - Francesca Pellas, Il FogliornrnAttorno a Downtown, dove i grattacieli delle compagnie petrolifere riflettono come prismi la luce del sole texano, la vera Houston è una distesa di parchi malmessi, immensi quartieri popolari, parcheggi, club, lavanderie a gettoni, superstrade e sottopassaggi. Qui la vita è nascosta e multiforme, colorata dai volti degli immigrati e da quelli dei loro figli, ma anche segnata da un certo tipo di destino, da possibilità lasciate per strada, dalla lottizzazione delle abitazioni e delle esistenze. È questo l'eco di significati riverberato da Lot. Fra i quartieri e gli incroci di questa Houston tentacolare, Bryan Washington concepisce un'opera a metà fra due forme letterarie. Da una parte il racconto, l'istante in cui ognuna di queste vite assume il proprio significato, il pettegolezzo delle viejas davanti alle loro shotgun house: cugine ex-prostitute che leggono Calvino per dimenticare un aborto, chupacabra alla deriva, squadre di baseball queer che improvvisano una partita dopo le devastazioni dell'ennesimo uragano. Dall'altra il romanzo, la spina dorsale di tutta la raccolta, che sembra canalizzare i sospiri di una città e dei suoi milioni di disperati: la lunga parabola di un protagonista senza nome che cresce fra l'assenza della sorella, la fuga del padre e le scelte violente del fratello maggiore, facendo i conti sia con la propria omosessualità sia con la propria complicata e immobile patria aliena, per una sorta di doppia e quasi impossibile emancipazione. -
La ragazza nel portabagagli. Prediche e acqua minerale
«Racconto affascinante, tra Scott Fitzgerald e Honoré de Balzac, La ragazza nel portabagagli è un tuffo nella vasta piscina a forma di cuore della società americana tra le due guerre.» - Italiaoggirn«O'Hara dà il meglio di sé in questa amara novella e la postfazione di Stefano Friani ci parla a lungo di lui: di un uomo - piuttosto sbagliato - e dei suoi grandi racconti» - Vittorio Giacopini, Il Sole 24 Orern«È un gioiello capace di evocare gli anni della Depressione e dell'avvento del cinema sonoro senza mai uscire da una cornice quasi intimista» - Il fatto Quotidianorn«Volevo registrare come parlava la gente dell'epoca, come pensava e sentiva, e farlo col massimo dell'onestà e dell'attenzione alle sfumature…». Dovessimo partire da questa esplicita dichiarazione d'intenti non avremmo esitazioni inquadrare La ragazza nel portabagagli all'interno di una cornice realista. Proprio come O'Hara, del resto, il protagonista Jim Malloy muove i suoi primi passi da reporter: passa in rassegna i documenti, si attiene ai fatti, intervista persone, riporta notizie. Eppure Manhattan non è Gibbsville, non è la Pennsylvania né la provincia; qui l'aria è viziata dallo smog, dalle illusioni, e da ciò che rimane del sogno americano. Di che realismo si tratta? Più ci guardiamo attorno in questa novella e meno luoghi riusciamo a scorgere. La New York della Depressione e degli speakeasy è lasciata sullo sfondo, tratteggiata su un pannello scenografico, mentre il racconto sembra scaturire direttamente dalla rivoluzione del sonoro. Il giovane Malloy si inventa press agent di una grande azienda cinematografica e i suoi giorni estivi vengono scossi dall'arrivo di una diva in declino a cui dovrà dedicare tutte le sue attenzioni. Chottie Sears chiacchiera, si racconta, spesso è adulatrice, si concede e poi si ritrae. Le parole scambiate con lei hanno l'aria di un'educazione sentimentale - la prima, nella trilogia Prediche e acqua minerale - che però solo a tratti, e a fatica, parla d'amore. Se di realismo si tratta, allora, è tutto in questo rapporto verbale, mutevole, al limite del capriccio. Nell'attrazione che diventa autoinganno, nel sesso e nella gelosia, nelle parole che intendono altro. E solo alla fine, con una certa dose di cinico distacco, nel dramma.