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Sull'utilità e il danno della storia per la vita
Incubo e idolo dell’età moderna, la storia – come storicismo e senso storico – non è solo una conquista dello spirito illuminato, ma una «febbre divorante», una «virtù ipertrofica» che può essere rovinosa: questo il punto di partenza di Nietzsche non ancora trentenne nell’affrontare il tema della seconda «Considerazione inattuale», che fu pubblicata nel 1874. Più di cento anni sono passati da allora e l’attualità clamorosa di questo Nietzsche perennemente «inattuale» appare sempre più evidente. Le pagine che qui leggiamo hanno trovato e trovano conferme continue, non più soltanto negli atteggiamenti della cultura, ma in tutti i meccanismi della società. Il passato, ormai disponibile in tutte le sue forme, anche le più remote, minuziosamente archiviato e setacciato, non è per ciò divenuto più vivo né aiuta la vita – anzi appare sempre più come una immane e oppressiva allucinazione. E così è, argomenta Nietzsche, proprio perché il senso storico non permette lo scontro bruciante con le forze del passato, ma vuole inglobarle in sé come reliquia esotica, con ingiustificato sottinteso di benevola superiorità – e quindi cela un movimento ostile alla vita, tende a svellere la sua stessa base, che è quella «cosa sola per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico». -
La nascita della filosofia
Quello che si incontra comunemente, negli studi odierni sulla filosofia greca, è il tentativo di restituire contenuti remotissimi da noi con gli strumenti più moderni, condizionati dalle formule e dai metodi odierni della ricerca storica, in breve con il linguaggio filologico. Qui invece Giorgio Colli prova a far riemergere il periodo culminante della Grecia – il settimo, il sesto, il quinto secolo a.C. –, il più lontano da noi e dalla nostra comprensione, senza suggerire approcci specialistici. L’accessibilità del suo modo di esporre è raggiunta mediante un’inversione di prospettiva: non sono gli occhi del presente a guardare quei secoli, rimpiccioliti dalla grande distanza, e neppure gli occhi del quarto secolo a.C., di Aristotele, ma al contrario si tenta di evocare uno sguardo «alle spalle» di quei secoli, uno sguardo gettato dagli dèi omerici e pre-omerici. In questo spingersi all’indietro, verso un’antichità dal profilo incerto, l’origine della filosofia greca, questo evento misterioso, non è ricacciata in un passato più lontano, ma viene riportata al contrario a un’epoca assai posteriore, è un prodotto mediato che si lega al nome di Platone. Prima c’è l’età dei sapienti. Quando nasce la filosofia, la parabola dell’eccellenza greca ha già iniziato il suo declino. E questa crisi decisiva è anteriore anche a Euripide e a Socrate, è una frattura, un indebolimento che sono interni al mondo dei sapienti, che solo attraverso questo si decifrano. -
Enten-Eller. Vol. 1: Un frammento di vita.
Enten-Eller – generalmente nota, almeno in Italia, col titolo Aut-Aut – è l’opera più lunga, più articolata e più celebre di Kierkegaard. Venne pubblicata nel 1843 sotto lo pseudonimo di Victor Eremita, e provocò subito molto sconcerto in Danimarca. E da allora, a mano a mano che quest’opera capitale è filtrata nella cultura europea, tale sconcerto è diventato quasi il contrassegno della reazione a tutta l’opera di Kierkegaard, costruzione proliferante e labirintica, dove la filosofia viene costretta a bagnarsi in tutte le acque della vita, dove ogni affermazione subisce la prova del paradosso, dell’ironia, degli pseudonimi. Insieme a Nietzsche, Kierkegaard ci appare oggi come il primo filosofo che ha fatto uscire la filosofia dall’area che si era tracciata negli ultimi secoli e perciò si pone sulla soglia di tutto il pensiero moderno, non certo soltanto dell’esistenzialismo, che pure da lui discende. La presente edizione, la prima completa che appaia in Italia, è divisa in cinque tomi. Condotta con rigore filologico da Alessandro Cortese, si propone una puntigliosa fedeltà al testo kierkegaardiano: l’abbandono del titolo Aut-Aut, che falsa la ricchezza di significati del titolo originale, viene giustificata con dovizia di argomenti nell’introduzione al presente volume, dove il lettore troverà già alcuni testi celebri (quali i Diapsalmata e le osservazioni su Don Giovanni) e assisterà al primo orchestrarsi di quel meraviglioso contrappunto romanzesco-speculativo su cui è costruito Enten-Eller e, in genere, il pensiero di Kierkegaard. -
Al di là del bene e del male
L'opera è divisa in nove capitoli: ""Dei pregiudizi dei filosofi"", ""Dello spirito libero"", ""Della mania religiosa"", ""Aforismi e interludi"", ""Per la storia naturale della morale"", ""Noi dotti"", ""Le nostre virtù"", ""Popoli e patrie"", ""Che cos'è aristocratico?"", chiude l'opera un epodo ""Dall'alto dei monti"". Nell'opera N. afferma che il problema morale è più essenziale di quello teologico. Per eliminare il pregiudizio della morale è necessario un nuovo indirizzo di cultura e a tal fine si potranno impiegare gli ""spiriti liberi"", immuni da quel pregiudizio. Conclusione delle tendenze dell'Europa democratica sarà una schiavitù imposta da una forte razza e la futura aristocrazia dominatrice potrà nascere solo da una lunga disciplina. -
Lettere spirituali
Perseguitato dal fascismo durante la vita, dimenticato per anni dopo la morte, Giuseppe Rensi fu una di quelle figure solitarie e testarde che talvolta attraversano la cultura italiana come corpi estranei. Ma, alla fine, sono piuttosto loro a resistere al tempo. Rensi fu sin dall’inizio un filosofo che non si adattava al suo contesto: scettico radicale, inscalfito dalla fede nella razionalità del reale, riusciva già per questo ugualmente irritante per idealisti e scientisti. Ma anche il suo scetticismo era di una specie inquieta e mobile: sempre più, con gli anni, i suoi testi si potevano leggere come pagine di un mistico senza confessione e pretese di salvezza, che rifugge dall’appellarsi alla divinità ma parla di un’esperienza più affine a quella di Meister Eckhart o dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita che non a quella dei filosofi che occupavano le cattedre da cui era stato scacciato. Grande lettore e commentatore dei classici del pensiero, prosatore terso ed efficace, Rensi ha predisposto in queste Lettere spirituali, apparse postume nel 1943, il tracciato perfetto che ci permette di ripercorrere, partendo da un punto vicino alla fine, tutto il suo cammino filosofico. -
Mente, linguaggio e realtà
Hilary Putnam è stato per molti anni, ed è tuttora, una sorta di baricentro della filosofia della scienza. Tutti i temi più caldi e delicati dal rapporto mente-macchine a quello ragione-realtà vengono a un certo punto da lui affrontati e fatti passare attraverso un vaglio quanto mai sottile. E si può dire che, una volta passati da quel vaglio, quei problemi non si presentano più come si presentavano prima. Se trasponessimo in termini medioevali la situazione di oggi, Putnam vi occuperebbe un luogo analogo a quello di san Tommaso, ugualmente opposto al nominalismo (che oggi sarebbe rappresentato innanzitutto da Quine, ispiratore-avversario di Putnam) e allidealismo platonizzante. Putnam, di fatto, è un realista. Ma, contrariamente ai realisti letterari, quelli scientifici sono tenuti a mostrare una straordinaria sottigliezza. La loro scommessa di accettare lesistenza di una realtà li obbliga a procedimenti estremamente rigorosi e sofisticati. Maestro fra tutti loro, Putnam è convinto che, se si vuole ancora dare un senso preciso alla parola ragione questa entità dai contorni sempre più fantomatici , occorrerà sottoporla a prove durissime e controllate passo per passo. E in questo senso le analisi di Putnam si sono rivelate preziose anche per i suoi avversari. Mente, linguaggio e realtà è apparso per la prima volta nel 1975. -
Il canto del pendolo
I saggi di Brodskij sono stati definiti «un’autobiografia intellettuale nel senso più ampio»: talmente ampio che qui troveremo, in naturale e illuminante adiacenza, un discorso sul significato del versetto evangelico sul «porgere l’altra guancia» e un’analisi acuminata di due liriche di W.H. Auden e della Cvetaeva, che si azzarda a risalire «la genealogia di una parola, anzi di una consonante», e ci offre una dimostrazione in atto di che cosa potrebbe significare un’estetica «dal punto di vista dell’artista», secondo la formula di Nietzsche. Nell’un caso come nell’altro, giungeremo in fondo sapendo finalmente che cosa vuol dire «citare un versetto» – o commentare un verso. Ma al tempo stesso tutto questo apparirà come parte di un racconto, di una narrazione erratica e puntuale. «Poeta è qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero» scrive qui Brodskij. Così è accaduto che la prosa inglese sia stata proiettata in una rapinosa fuga di pensieri da questo poeta russo. E su temi disparati, ma tra loro congeniali, siano la tirannia o Dostoevskij, la Achmatova o Platonov, Montale o Kavafis. Ogni volta Brodskij ci aiuta a entrare e a uscire dalla letteratura e dal mondo con una mirabile velocità di passo mentale, lasciando dietro di sé le tracce disperse di un involontario autoritratto. -
Enciclopedia dei morti
L’Enciclopedia dei morti di cui si parla nel racconto che dà il titolo a questo libro è un’opera in migliaia di volumi dove sono ammesse soltanto le voci riguardanti persone che non compaiono in alcun’altra enciclopedia. Vale a dire la massa sterminata degli ignoti, che qui si ritrovano raccontati in un «incredibile amalgama di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica». rnrnrn«Un libro entusiasmante che mostra la grandezza tragica e fertile di cosa può fare, alla vita, l'invenzione della letteratura» - Orazio Labbate, la LetturarnOpera fantastica, ma che ha un sinistro corrispettivo nella realtà: vicino a Salt Lake City, in gallerie scavate dentro la roccia, sono conservate dai mormoni le schede di più di diciotto miliardi di persone. Questo rapporto trasversale, e quasi di esaltazione reciproca, tra il fantastico e la cronaca si ritrova anche in altri racconti di questo libro – e può riguardare, all’occasione, la storia dei funerali di una prostituta o quella dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende dello gnostico Simone o quella dei Sette Dormienti di Efeso, o le vicissitudini dell’infelice Kurt Gerstein, infiltrato fra gli sterminatori nazisti, come se Kiš fosse perennemente ispirato da «quel bisogno barocco dell’intelligenza che la spinge a colmare i vuoti» (Cortazar). Secondo le parole dell’autore, «tutti i racconti di questo libro nascono, in misura maggiore o minore, sotto il segno di un tema che chiamerei metafisico; a partire dall’epoca di Gilgamesh, la questione della morte è uno dei temi ossessivi della letteratura. Se la parola divano non richiedesse colori più luminosi e toni più sereni, questa raccolta potrebbe avere il sottotitolo di Divano occidentale-orientale, con un chiaro riferimento ironico e parodistico». -
Viaggio in Armenia
Per Mandel’štam, il viaggio in Armenia, che durò per qualche mese del 1930, fu una discesa «negli stadi abissali del linguaggio»; là dove «vedere, udire, capire – tutti questi significati, un tempo, confluivano in un unico fascio semantico». Così, in queste pagine, che si presentano con la sprezzatura di una stenografia diaristica, assistiamo al prodigio della continua geminazione delle immagini, a un ultimo convito dell’analogia, prima che il «nero velluto della notte sovietica» inghiotta il poeta. L’Armenia, «regno di pietre urlanti», divenne per lui il luogo di una primordiale fusione geologica fra il mondo cristiano-giudaico e quello ellenico, come dire fra le due lingue della sua poesia. -
Il dialogo della salute e altri dialoghi
Il dialogo della salute, scritto nella tradizione di Platone e di Leopardi, è il testo dove Michelstaedter ci ha trasmesso nella forma più limpida la sua visione della vita e della morte. In parallelo e in contrappunto alla Persuasione e la rettorica, ricompaiono qui molti dei suoi grandi temi, e in una forma che sa mantenere, da un capo all’altro, la leggerezza della conversazione e l’icasticità delle formule: «La vita ci toglie: questo che tu dici crudele gioco, questo è la cara la dolce vita. Mancar di tutto sì e tutto desiderare – questa è la vita. Che se non ci volgessimo al futuro ma avessimo tutto nel presente – appunto non vivremmo più. La vita sotto qualunque forma come anche sia, a prezzo di qualunque dolore si vive volentieri». A questo testo, che è del 1910, anno della morte di Michelstaedter, ed essenziale nella geografia della sua opera, si affiancano alcuni altri dialoghi meno conosciuti, come il Dialogo tra Diogene e Napoleone o il Dialogo tra il borghese e il saggio, che sono altrettante schegge preziose del suo pensiero. -
Enten-Eller. Vol. 2: Un frammento di vita
Con la presente edizione di Enten-Eller si può dire che il lettore italiano viene messo in grado di leggere per la prima volta quell’opera geniale e indispensabile di Kierkegaard finora conosciuta sotto il titolo Aut-Aut. In questo volume molte saranno le sorprese, sia perché due dei quattro saggi qui contenuti (Silhouettes e la singolare, apparente divagazione su Les premières amours di Scribe) compaiono per la prima volta nella nostra lingua, sia perché gli altri testi (fra cui quello memorabile sul Tragico, che anticipa clamorosamente Nietzsche, Wagner e ciò che ne è seguìto) ritrovano finalmente il loro posto giusto nella sapiente e sconcertante architettura, piena di rispondenze e di enigmi, ideata da Kierkegaard. Solo così, per esempio, si potrà cogliere il senso globale di una straordinaria sequenza di figure femminili, da cui Kierkegaard prende ‘occasione’ (e l’occasione stessa diventa qui categoria filosofica) per presentarci le sue riflessioni: l’Antigone di Sofocle, la Marie Beaumarchais di Goethe, Donna Elvira della ‘leggenda’ di Don Giovanni, Margherita della ‘leggenda’ di Faust e infine Emmeline, la fatua protagonista della commedia di Scribe. E proprio con questo accorgimento di far parlare il pensiero attraverso personaggi teatrali, Kierkegaard ci introduce per vie serpentine al cuore del suo pensiero, al tempo stesso inventando quella forma di ‘pensare narrando’ di cui dobbiamo ancora recuperare la modernità. -
L' intelligencija e la rivoluzione
Quando Blok pubblicò il saggio Intelligencija e rivoluzione, nel gennaio 1918, nei giorni decisivi della rivoluzione russa, grande fu l’eco delle sue parole. Perché con esse uno dei più prestigiosi poeti e portavoce dell’intelligencija – questa categoria peculiarmente russa, che è venuta a inglobare in sé tutta la nostra concezione degli «intellettuali» – si schierava dalla parte dei bolscevichi, all’insegna del motto: «Rifare tutto». Ci fu chi gridò al tradimento, altri seguirono Blok con entusiasmo. Ma, se si percorrono i suoi saggi qui per la prima volta raccolti, in parte scritti in quei vent’anni prodigiosi per la Russia che precedettero lo scoppio della Rivoluzione, in parte reazione diretta a quell’evento incommensurabile, vediamo che la posizione di Blok non è tanto il frutto di un convincimento politico («politicamente sono un analfabeta» scrisse una volta), quanto l’annuncio di un rinnovamento globale, dove le ambizioni cosmiche del simbolismo si mescolano con la furia elementare di Bakunin e l’antica spinta messianico-visionaria della cultura russa. Queste potenze diverse, che poi sarebbero diventate nemiche o comunque separate, convivevano in Blok in un precario e stupefacente equilibrio. Ed è anche per questo che leggere oggi i saggi di Blok è così emozionante – e dà una nostalgia che si rivolge al futuro. Come egli scriveva: «La vita ha valore soltanto se le si pone una esigenza infinita: tutto o nulla; attendere l’inaspettato; credere non già “in ciò che non esiste sulla terra” ma in ciò che deve esistere sulla terra, anche se non esiste ancora e non esisterà per lungo tempo». -
Ritratti immaginari
I Ritratti immaginari (1887) ci appaiono oggi non solo come l’opera più perfetta di Walter Pater, ma come la più adatta a introdurci, per vie umbratili e sinuose, al segreto della sua visione. Maestro della Decadenza in terra inglese, appartato monaco del Bello, Pater non riusciva a osservare la storia senza trasmigrarvi, immettendo un «fremito tutto moderno in persone e cose del passato» (Praz). Dietro la maschera di squisito dilettante, era una sorta di sciamano degli oggetti, delle tracce e delle «occasioni sensibili». Anche se il ritegno e il pudore lo imbrigliavano, la sua tentazione non era lontana da quella di Nietzsche negli ultimi giorni di Torino: essere «tutti i nomi della storia». Così questi Ritratti immaginari, oltre che una superba galleria di figure trascorrenti dalle fêtes galantes di Watteau a una Germania invasa dall’«aurora apollinea» e all’Olanda dei limpidi interni seicenteschi, sono una autobiografia indiretta e cifrata, dove un io multiplo si riflette su screziate superfici. Dal Fanciullo nella casa, mirabile anticipazione del Proust che rivive Combray, al Denys l’Auxerrois, crudele, ebbra apparizione di un Dioniso «in esilio» (secondo la formula di Heine) nella Francia medioevale, sino alla furia astratta e annientatrice del giovane spinoziano Sebastian van Storck, in tutti i personaggi di questa fantasmagoria avvertiamo un’occulta aria di famiglia, un accento di «perversa malinconia». -
Il regno segreto
Un oscuro ministro presbiteriano scozzese, Robert Kirk, scrisse verso la fine del Seicento questa incantevole, incantata guida al «regno segreto» dei fairies – e dunque delle fate, degli elfi, degli gnomi, dei coboldi e di tutte le altre specie che appartengono a quelle «aeree tribù». Usando la sobrietà dei grandi etnologi e il tono familiare, pacato di chi racconta di cose con le quali ha avuto a che fare per tutta la sua vita, Kirk voleva innanzitutto trasmetterci una descrizione precisa e fedele degli esseri di quel mondo, delle loro abitudini e del loro modo di intervenire nella nostra vita. Solo così, egli sperava, si potevano dissipare molti pregiudizi: primo fra tutti quello che il «regno segreto» non esistesse e che quel «popolo quasi sempre invisibile» fosse un banale frutto dell’immaginazione umana, mentre la quotidiana esperienza ci vuol dimostrare il contrario. Che cos’è infatti l’inquietante, ciò che ci fa fremere di orrore o di attrazione, se non – ogni volta – uno dei tanti «tentativi benevoli» con cui quelle «creature nostre sorelle» ci avvertono che, oltre al nostro mondo, esiste anche quello del «popolo nascosto» per il quale «lavoriamo tanto quanto per noi stessi»? E i non pochi che hanno l’ambiguo dono della «seconda vista» non sono forse semplicemente coloro che sono sempre accompagnati da «un raggio come quello del sole», il quale permette di vedere in ciascuno degli «atomi» sospesi nel pulviscolo dell’aria un abitante della «città sotterranea pervasa da una luce verde»? Kirk allinea con dolcezza, ma con determinazione, i suoi argomenti. Egli nutriva infatti una fede soave nel progresso, e ben sapendo che «ogni epoca ha qualche segreto lasciato da scoprire», sognava però che un giorno finalmente i rapporti fra noi e i fairies sarebbero stati «liberamente esercitati e tanto bene conosciuti come sono l’arte della navigazione, la stampa, le armi da fuoco, il cavalcare a sella con la staffa e le scoperte dei microscopi, che una volta suscitavano altrettanta meraviglia ed era altrettanto difficile farle credere». Dopo più di due secoli e mezzo il manoscritto di Kirk ha trovato il suo primo adeguato decifratore e commentatore in Mario Manlio Rossi. Con estro sapiente e acume erudito, Rossi ha cercato e trovato le tenui tracce dell’esistenza del «cappellano delle fate», individuando anche finalmente il manoscritto originale del Regno Segreto. Infine ha dedicato a quel testo un lungo saggio, dove attraverso le teorie e gli esempi di Kirk sui nostri rapporti con i fairies veniamo ricondotti al centro di una vasta e oscura area della cultura moderna europea: quella delle dottrine (e delle pratiche) dell’occulto, dei processi alle streghe (e di fatto l’intenzione di Kirk era innanzitutto quella di sottrarre coloro che hanno rapporto con i fairies al sospetto di stregoneria), della vana lotta della scienza contro le fate. Perché alla fine, come Rossi dimostra con scintillante consequenzialità, «sono le fate a rivelare l’inconsistenza della scienza empirica». -
Giornale di bordo dell'aeronauta Giannozzo
Giannozzo, briccone romantico, viene preso dal desiderio di un’ascensione in mongolfiera al solo udire la parola revenant. «Qualcuno la pronunciò per caso davanti a me: io immaginai la gioia ineffabile di essere un fantasma». Spiegate le «azotiche ali» della sua mongolfiera, munito di un piccolo corno da postiglione e di un binocolo da guerra, Giannozzo si libra sui minuscoli Stati della Germania alla fine del Settecento: le città gli appaiono come «banchi di ostriche», abitate da figurine di piombo, semplici comparse, «provinciali senza spirito né religione». Con improvvise incursioni l’aeronauta getta lo scompiglio in quelle terre: libera pipistrelli dalle sue tasche durante un pranzo di Corte, spia incontri amorosi dall’occhio di una rotonda, esorta beffardamente alla coerenza gli abitanti di una lugubre cittadina di esemplare produttività, perché innalzino lo Stato «al punto da diventare una vera e propria casa di pena e di lavoro» – e poi risale sulla sua navicella. È l’eterno trickster, il «briccone divino», che qui si reincarna in Giannozzo, cosmico voyeur di tutti i «teatri della vita», patinato di ironia romantica. Ma l’età moderna non tollera a lungo tali agenti del disordine mercuriale, che obbediscono a un solo precetto: «Lo scherzo è inesauribile, la serietà no». E l’euforia del volo si mescola fin dall’inizio con il presagio pungente della catastrofe. Jean Paul, come Sterne, è un «guardiano della soglia», che segnala l’ingresso a tutta la letteratura moderna. La sua prosa, colma di estri geniali, straripante di metafore, è un preludio a tutte le audacie che verranno – e il Giannozzo, nella perfetta misura del suo incantevole farneticare, potrebbe esserne il simbolo. -
Architettura di vetro
L’Architettura di vetro è un sogno che apparve nel 1914 sotto forma di breve trattato architettonico, fissato in tutti i suoi particolari con una minuzia artigianale che esalta ancor più il carattere di inattingibile fantasmagoria del tutto. Queste pagine segnano la fine della civiltà dell’intérieur borghese, fatta di schermi tra un fuori e un dentro, pesanti tendaggi, ombre, nascondigli – e insieme celebrano il passaggio alla nuova «civiltà del vetro», materiale che, nelle parole di Walter Benjamin, cancella ogni «aura», è «il nemico del segreto» e impone la trasparenza. Ma nulla sarebbe più sviante che intendere questo testo di Scheerbart come manifesto di quella funzionalità aziendale, tra vetro e cemento, che da allora ha invaso il mondo ed è ormai senescente. Tutt’altra è la visione che ci trasmette «l’esperanto astrale» di Scheerbart: quella di un incontro erotico fra la natura e la tecnica, che riveste la terra intera di una patina di luce smaltata, da giardino orientale. «Cittadino onorario degli stati uniti della luna» (Ehrenstein), Scheerbart passò nella Germania guglielmina come un turista cosmico, un ibrido fra Jean Paul e Fourier, fra Jarry e Jules Verne. In lui, nelle sue narrazioni e divagazioni fantastiche, Walter Benjamin e qualche altro appassionato lettore riconobbero subito un irridente, candido visionario, che con «serenità dolcemente stupita» mette a confronto la realtà terrestre con le «strane leggi naturali degli altri mondi», fra le quali si trova tanto più a suo agio, e così aiuta anche noi a guardare il nostro pianeta «sotto altra luce». -
Epistolario
La maggior parte delle lettere che compongono questo volume è del tutto inedita o qui pubblicata per la prima volta nella sua interezza. A distanza di più di settantanni dalla morte di Michelstaedter, che sempre apparve come un temibile enigma, possiamo dire finalmente con questo libro di sapere qualcosa della sua vita. Ed è un qualcosa di immensamente vivo, dettagliato, coinvolgente: un documento prezioso che nulla toglie alla enigmaticità di Michelstaedter, ma conferisce alla sua fisionomia un profilo più netto, una voce penetrante, il fascino di una invincibile gioventù che convive con una maturità precoce e devastatrice. Quando, nellottobre del 1905, il diciottenne Carlo Michelstaedter lasciò Gorizia per andare a studiare alluniversità di Firenze, quella partenza gli appariva al tempo stesso come «esiglio» e come inizio di unavventura. Da principio quasi ora per ora, poi sempre con grande slancio e naturalezza, oltre che con ironia, spesso esilarante, raccontava nelle lettere ai suoi le impressioni che gli venivano incontro: gli amici di famiglia, per lo più della buona borghesia ebraica, che lo accolgono nelle varie città, descritti in brevi tratti corrosivi; le bellezze dItalia che appaiono finalmente dal vero e gli fanno «scorrere nel corpo come unonda di bellezza»; i professori, i compagni, luniversità, la vita di tutti i giorni. Cè unaffettuosa immediatezza in queste lettere, una vitalità prorompente, che evita senza esitazioni ogni paludamento retorico, così frequente nellItalia di quegli anni, e nei giovani non meno che negli altri. Poi, fin dalle prime, bellissime lettere damore, si cominciano ad avvertire i segni dellaltro Michelstaedter, quello della Persuasione: laddensarsi di unesperienza solitaria, la cristallizzazione di un pensiero aspro, estremo, che vive sin dallinizio nellintimità con il proprio naufragio. Da una posizione di apertura totale al mondo, mobile e irriflessa, nel giro di pochi mesi e anni assistiamo a un richiudersi esigente e doloroso. Solo le lettere ci permettono di seguire, momento per momento, questo processo. Così una volta Michelstaedter vi alluse, scrivendo a Chiavacci: «Mi sto richiudendo e godo della curva graziosa che le foglie fanno per riunirsi; in tanto dagli ultimi spiragli scappano precipitose queste poche righe». -
Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello
Gli idoli sono le vecchie verità cui gli uomini hanno creduto sinora. Socrate, per N. ha corrotto l'anima greca col veleno della ""ragionevolezza a tutti i costi"". Affronta poi il problema della trascendenza. Riprende anche un tema favorito, la ""morale come contro-natura"". Successivamente designa gli errori che hanno traviato gli uomini: la confusione tra causa e effetto, il concetto della causalità, il ricorso a cause immaginarie per spiegare le azioni e infine il concetto del libero arbitrio. Nelle notazioni sulla ""psicologia dell'artista"" N. esalta l'arte come stimolatrice della vita e vede l'""ebrezza"" come condizione preliminare di ogni creazione artistica. Predica infine il ritorno alla natura come ""amor fati"". -
Necropoli
Questo libro, di cui presentiamo la prima traduzione al mondo, si apre sugli anni del primo Novecento russo. Era il momento di una equivoca ed esaltante mescolanza fra arte e vita: «Tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano. Questo era l’unico, il fondamentale dogma. Si poteva esaltare Dio come il Diavolo. Si poteva essere posseduti da qualsiasi cosa, entità: l’importante era la pienezza della possessione». Tutto andava offerto sull’altare delle emozioni. «Cogliamo gli attimi distruggendoli» disse Brjusov, gran sacerdote del simbolismo. C’era la posa teatrale e c’era il colpo di pistola. «“Perdo succo di mirtillo!” gridava il pagliaccio di Blok. Ma il succo di mirtillo talvolta si rivelò sangue vero». Chodasevic era allora un giovane poeta, dal segno elegante, dall’aria morbosa, dall’intelligenza acutissima. Oggi sappiamo che era un astro nella costellazione dei grandi poeti russi malmenati dalla storia, accanto alla Achmatova, a Mandel’štam, alla Cvetaeva, a Pasternak, anche se la sua opera solo ora comincia a essere scoperta. «Nell’aria afosa, come prima dei temporali, di quegli anni», troppo colmi di presagi (il suo amico Muni ne era così ossessionato che arrivò a dichiarare: «I presagi sono aboliti»), Chodasevic visse la nascita caotica della letteratura moderna in Russia. Si conoscevano tutti, percepivano miserie e incanti gli uni degli altri, avevano passioni per le stesse donne, litigavano, bevevano, perdevano al gioco. Poi venne la guerra, venne la rivoluzione, ai poeti cominciarono ad accompagnarsi i delatori. Pietroburgo appariva come «una città morta, sinistra». Nel 1922 Chodasevic riuscì ad abbandonare la Russia, non senza aver esortato i suoi amici nelle «ultime ore prima della separazione» a concordare i segnali «da scambiarsi nella tenebra che incombe». Da allora sino alla morte si può dire che non abbia assistito che all’estendersi, intorno a lui, di una sterminata «necropoli». Morivano uno dopo l’altro, suicidi, o assassinati o ridotti al silenzio. E uno dopo l’altro sfilano in questo libro: da Brjusov a Blok, da Esenin a Sologub, da Belyj a Gor’kij. Chodasevic non riesce a parlare di questi scrittori senza darci anche un giudizio penetrante sulla loro opera, ma non riesce a parlare della loro opera senza evocare la loro presenza, il loro gesto, spesso il loro convivere con le più ingombranti contraddizioni. Erano tutti personaggi di un immenso «romanzo russo», e come tali qui ci appaiono. Oscillavano tutti fra estremi, e riuscivano talvolta a mascherarne la natura. Come per Sologub, di ciascuno era difficile dire «da dove è partito e dove è arrivato, se dal sacrilegio alla preghiera o viceversa, dalla benedizione alla maledizione o viceversa». Crudele e commosso, questo libro è un salvataggio nella memoria dell’ultima grande letteratura russa, operato da uno dei suoi protagonisti, prima che la «necropoli» inghiottisse anche lui. Come scrisse lo stesso Chodasevic: «In un certo senso la storia della letteratura russa potrebbe essere definita la storia della distruzione degli scrittori russi». -
La mia Europa
L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Milosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Milosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»? Così Milosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell’«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua «vita di poeta», e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storiche. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Milosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa «sequestrata», dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che «pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo». Chi si è trovato a vivere, come Milosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perché ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto. È parte della grandezza di Milosz aver conservato intatta la forza del ricordare. Guidati da quella forza, siamo qui spinti a immergerci, con stupore, in una selva di dettagli che la storia ha condannato. Così le strade di Parigi come l’intreccio delle generazioni e dei caratteri finiscono per fissarsi in immagine: «re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali».