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La veneziana e altri racconti
La veneziana comprende una sequenza di racconti scritti in russo da Nabokov, quasi tutti fra il 1923 e il 1925. È questo il periodo che rimane in gran parte da scoprire della sua opera (fino a tempi molto recenti quattro di questi racconti, incluso La veneziana, erano inediti anche in russo, mentre tutti lo sono per l’Italia). Qui Nabokov si mostra già maturo e gioca su mutevoli scenari: la Russia perduta, l’Inghilterra degli studi universitari, la Svizzera di brevi vacanze sulla neve, la Germania, nuova patria casuale e non amata. Ciascuno di questi scenari, che poi rimarranno inevitabili nella geografia mentale di Nabokov, è una sfida per una divorante vocazione narrativa, per una scrittura che sonda con felice stupore le sue latenti possibilità, i suoi molteplici toni e registri. Il giovane letterato russo in esilio sfodera le sue armi senza tremori o esitazioni: ha già individuato il nemico, e alle scontate ma sempre pericolose manovre del «realismo» oppone la gioiosa e massiccia offensiva di un iridato linguaggio ricco di accostamenti imprevisti, fulminee diversioni spazio-temporali, una già smaliziata strategia dell’illusione e del trompe-l’oeil. Così le minime cose dell’anima e del mondo vengono trionfalmente sottratte alla tirannia del tempo e ricomposte in un nuovo arabesco, in una nuova armonia dove nulla è brutto, casuale. Plumbeo e tremendo se guardato con l’austero e presuntuoso pince-nez dell’«obiettività», il reale rivela suoni e colori prodigiosi a chi lo osserva attraverso il diafano cristallo magico del gioco, dell’ironia, della pietà, dell’amore, della creazione artistica. -
Un dramma borghese
Questo romanzo è la storia dell’amore impossibile fra un padre e una figlia che quasi non si conoscono e si ritrovano insieme, per qualche settimana, in un albergo sul lago di Lugano. Il padre è il corrispondente da Bonn di un grande giornale di Milano (in cui sarà facile riconoscere il «Corriere della Sera»), uomo disincantato, lucido, pieno di soprassalti della memoria, di idiosincrasie, di occultate amarezze e nostalgie, ma al tempo stesso con qualcosa di eternamente adolescente, agile e acerbo; la figlia è una ragazza di diciotto anni, che è stata messa in collegio dopo la morte della madre e ben poco ha visto del mondo, ma vive una sua vita intensa di fantasticherie grandiose, di passioni sospese e avvolgenti. La loro convivenza in albergo sviluppa, si può dire fatalmente, un terribile amore: soprattutto da parte della figlia, prorompente e ingenua, eppure dotata di una strana maturità, che rende il rapporto col padre tanto più paradossale. Questa figlia, infatti, non gli si vuole offrire come amante, ma come moglie, e oltre tutto come una moglie protettiva, conscia di quel lato infantile che al padre, poi, appartiene realmente. Diviso fra l’attrazione e la ripulsa per questa «calamità» che si abbatte sulla sua vita, mentre tenta vanamente di fare chiarezza in se stesso e nel suo passato, il padre crede di sfuggire all’incesto buttandosi in una rapida avventura con un’amica della figlia. Ma questo non farà che aiutare il gioco a precipitare nel dramma. La vicenda ha luogo in un tempo sospeso, che può essere anche oggi. Il décor svizzero è accennato con pochi, sapientissimi tocchi, come anche una certa atmosfera di morosità lacustre in cui è immersa la vicenda. Domina, invece, l’opera paziente dello scandaglio psicologico, l’indagine sulle ombre della psiche, sui guizzi dei desideri, e in questo Morselli si muove con la stessa precisione e sicurezza con cui sapeva ricostruire l’operazione militare di cui si parla in Contro-passato prossimo. Spostando continuamente la luce dal giornalista, convinto di essere corazzato dall’esperienza, alla giovane figlia, che alla vita non ha fatto ancora in tempo neppure a esporsi, Morselli riesce a delineare con straordinaria finezza quella zona intermedia in cui questi due personaggi, fino allora vissuti in mondi senza contatto, si incontrano e si scoprono fino a scoprirsi complici e a spaventarsi della propria complicità, sfuggendola e ricadendovi in un circolo senza uscita. -
L' uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
Fra tutti i libri di René Guénon Luomo e il suo divenire secondo il Vêdânta è forse quello che più di ogni altro mostra limpalcatura del suo pensiero. Sottintendendo, naturalmente, che tale pensiero non pretende di inventare nulla, ma soltanto di esporre con la massima precisione un pensiero che da sempre è: la Tradizione primordiale, la cui dottrina, secondo Guénon, non traspare mai con altrettanta precisione come nel pensiero vedantico. Ma che cosè il Vêdânta? Una delle sei «visioni» (darshana) che, secondo le più antiche testimonianze indiane, ci permettono di capire ciò che è. Tutte vere, ma ciascuna in rapporto a un certo livello della realtà. Il più alto, che consente di inglobare in sé ogni altro, è appunto quello del Vêdânta, «il ramo più puramente metafisico di tali dottrine». Così si può dire che il Vêdânta è una sorta di dottrina suprema. Nessuno ha saputo esporla in Occidente con levidenza assoluta che incontriamo in questo libro di Guénon. E nessuno ha saputo sgombrare il campo, con gesto altrettanto autorevole, dai numerosi, tipici equivoci occidentali intorno a tale dottrina, considerata da tanti una filosofia o una religione o «qualche cosa che partecipa più o meno delluna o dellaltra», mentre non è in verità nulla di tutto questo. Come scrisse Daumal: «Se Guénon parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda». È perciò naturale che proprio in questo libro Guénon si soffermi sugli aspetti costitutivi, sulla composizione fondamentale delluomo, del mondo e della realtà extra-cosmica e a queste pagine occorre sempre tornare quando Guénon, in altre opere, applica le categorie qui delineate. Luomo e il suo divenire secondo il Vêdânta apparve nel 1925. -
Betty
Una bella donna dalla condotta scandalosa approda sullo sgabello di un bar degli Champs-Élysées, con la testa confusa dall’alcol. Che cosa c’è dietro? Per lo meno una magistrale indagine nelle zone più remote e più torbide della psiche femminile. -
Giobbe. Romanzo di un uomo semplice
«Un ""Giobbe"""" moderno, dunque: la storia di un pio ebreo orientale, di quelli che si librano a mezz'aria nei quadri di Chagall (""""Portava sempre il suo berretto nero di reps di seta e il caffettano di media lunghezza e gli stivali alti""""), quando i lutti lo sopraffanno, tentato dal Principe delle Tenebre, forse con la connivenza del Signore, a bruciare il suo scialle rituale e sfidare Dio.» (Paolo Milano)"" -
La strage delle illusioni
Non tutti forse sanno che nelle opere leopardiane si cela una vasta e acuminata riflessione storico-politica, rimasta sinora sostanzialmente inesplorata ma degna di figurare tra i classici del genere, da Machiavelli a Tocqueville. Ancorato a una concezione radicalmente negativa della storia, aspramente critico nei confronti della civiltà e del progresso ma al tempo stesso «intatto da superstizioni razionalistiche, come da tentazioni teologiche, sapienziali o morali», Leopardi è un penetrante sintomatologo, capace di scrutare con efferata lucidità «il corpo mostruoso della società e della storia»: la sua visione è «estrema, intimamente divisa e necessariamente irrisolta, ma di rado arbitraria, perché alle astrazioni della scienza storica e dell’utopia politica egli opponeva un’incessante osservazione “fisiologica” dell’uomo e delle cose» (Rigoni). Questa antologia si propone di offrire una scelta ampia e rappresentativa dei pensieri leopardiani sulla politica e sulla civiltà – tratti soprattutto dallo Zibaldone e dall’epistolario. Il lettore vi scoprirà riflessioni di inquietante attualità: sul dissolversi delle nazioni nei governi, sulla polarità «amico-nemico», sulla natura stessa della politica, divenuta occulta e sotterranea – tanto che «si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi» –, sull’irreversibile livellamento della società, e altre ancora. Non manca, nella meditazione di Leopardi, la sfiduciata visione di un’Italia perduta, inabissata nel cinismo e incapace – a differenza di altri paesi – di sopravvivere alla «strage delle illusioni»: «O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile [...] o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto». -
Storia della baronessa Budberg
«Donna di ferro» per Gor’kij, «Mura» per gli amici, «baronessa Budberg» per l’alta società londinese, Marija Ignat’evna Zakrevskaja, in Benckendorff e poi in Budberg, visse i suoi lunghi e intensi anni nell’alone della leggenda da lei stessa abilmente creata con menzogne, silenzi, misteriose scomparse, inattese riapparizioni. Gonfiando la propria biografia, attribuendosi antenati più illustri di quelli che la storia le aveva dato, traendo il massimo profitto dalla bellezza, dal fascino che immancabilmente esercitava sugli uomini, questa donna russa che «aveva qualcosa di Mata-Hari e qualcosa di Lou Salomé», ricordata dalla storiografia sovietica solo come segretaria e traduttrice di Gor’kij, intima di scrittori, diplomatici e uomini politici di primo piano, agì dietro le quinte della storia con un ruolo ancora oggi poco chiaro, enigmatico. Che fosse un agente segreto appare oggi plausibile. Ma chi informava? Qual era la sua missione? La Berberova ha cercato di rispondere a questa e altre domande, di ritrovare il filo di una mobile e sfuggente verità, ricorrendo ai più attendibili documenti storici e insieme alla sua stessa memoria: amica di Gor’kij, infatti, ebbe modo di conoscere da vicino la baronessa Budberg. Che nel suo racconto ci appare come l’esemplare superstite di un mondo e di una classe spazzati via dalla rivoluzione, una donna affamata di vita che della sopravvivenza fece la sua vera professione, non disdegnando alcun mezzo, alcun compromesso. La sua vicenda porta profondi i segni di un tempo e di un ambiente dominati dall’intrigo, dal sospetto, dalla delazione: di quell’epoca – in cui la menzogna era l’unico salvacondotto – la Berberova ricostruisce le più ambigue zone d’ombra con la raffinatezza dello scrittore e l’intelligenza dello storico. Storia della baronessa Budberg è apparso per la prima volta nel 1982. -
Il libro del profeta Isaia
Un Serafino si avvicinò volando a Isaia. Aveva in mano un carbone rovente, preso con le pinze dall’ara sacrificale. Gli toccò la bocca con quel carbone e disse: «Ecco le labbra tue ho toccato / La tua colpa è abolita / Il tuo peccato è strappato via». Allora il Signore chiese: «Chi mando? Chi va per me?». E Isaia risponde: «Eccomi / Manda me». Questa scena maestosa di vocazione accenna all’essenza della parola profetica, parola che brucia e parola di chi è stato toccato dal fuoco. Dall’ottavo secolo avanti Cristo sino a oggi, nella tradizione ebraica, poi cristiana, poi in tutta la cultura del mondo occidentale le parole di Isaia hanno agito come un potente, perenne richiamo: le sue immagini si intrecciano a tutto il nostro passato e continuano a proiettarsi sul nostro futuro. Innumerevoli occhi hanno scrutato per secoli quelle pagine della Bibbia; e innumerevoli volte quei versetti sono affiorati nella memoria. Scrive Ceronetti: «Nella mano del profeta la parola arde come uno strumento affilato e micidiale. La parola nabitica sacrifica fino allo spreco le esistenze umane, popoli interi ammucchiati, buttati a fare carname da roghi, montagne naufragate nel sangue, ma è anche uno strumento fatato, che può trasformarsi in unguento musicale, in sonorità consolatrice, e curare meravigliosamente, in certi casi immediatamente dopo aver dato il colpo irreparabile, le ferite che produce. Nel diradarsi dell’ecatombe, il Resto, qualche scampato di predestinazione assoluta, vedranno il miracolo dello scannatore che diventa medico e Paracleto, e la fine della paura. Non è molto, ma è la condizione umana». Guido Ceronetti ha tradotto il Libro del profeta Isaia in una lingua italiana che riesce a essere, come Massignon scriveva dell’ebraico, «lingua del timore, del sangue, del sacrificio». E il lungo commento, pieno di interpretazioni nuovissime, è un tentativo mirabile e solitario di accostare l’orecchio alla forza pulsante della parola dei profeti, questi «posseduti dalla Visione (visiva e sonora)». -
La musica primitiva
«Gli dèi sono canti». Prima di essere figure e volti, gli dèi furono un ritmo e una melodia, perché l’origine è sonora, una vibrazione. Se indaghiamo con sufficiente tenacia le cosmologie arcaiche, a questo arriviamo. Ma occorreva la combinazione di un musicologo e di un mitologo, oltre che un’inflessibile audacia di pensiero, perché da questo si giungesse a ricostruire un modello di cosmologia (che poi non è altro che l’articolarsi di una «sostanza sonora») tale da illuminarci sia sulle speculazioni vediche sia sul Verbo giovanneo. Marius Schneider dedicò la sua vita al tentativo di ricomporre la cosmologia arcaica fondata sul suono. Ovunque, in Cina, in Australia, nell’Asia Centrale, in Africa, come anche nei capitelli romanici, ne ritrovò le tracce. La sua summa rimase incompiuta. Così questo breve libro, che apparve nel 1960 come contributo all’Enciclopedia della Pléiade, è forse il testo che meglio ci rivela, per la felicità e la densità dell’esposizione, le linee essenziali di quella visione. -
Le due zittelle
Due anziane e devote «zittelle», Lilla e Nena, sprofondate nella più tetra e «muffosa» provincia italiana, prigioniere di un’esistenza sulla quale sembra essersi depositata «un’impalpabile polverina grigia»; una vecchia madre paralizzata ma implacabilmente autoritaria, che comunica solo percuotendosi il petto; una beffarda e turbolenta scimmia, Tombo, unico «maschio di casa», anche se «debitamente castrato»; e sullo sfondo «un’annosetta fantesca», Bellonia, assolutamente simile alle padrone. Ci sono tutti i presupposti per un bonario e ironico bozzetto, per una vecchia stampa provinciale di sapore palazzeschiano. Ma cosa succede se, appena liberate dall’incubo della dispotica madre, le due «zittelle» (e già la grafia, che gioca sul falso etimo «zitta», lascia presagire i biliosi intenti dell’autore) scoprono che di notte Tombo inscena sfrenati e blasfemi cerimoniali nella cappella dell’attiguo monastero? E se, a giudicare dell’operato della scimmia, vengono chiamati due religiosi, monsignor Tostini, appartenente alla più «declamatoria e retriva genia» degli uomini di fede, e il giovane padre Alessio, veemente e appassionato seguace di un Dio estraneo alle «complicate partite di dare ed avere» degli uomini? Succede che i due si scontrano senza esclusione di colpi e che il fortunato lettore può assistere alla più incredibile e fulminante delle dispute teologiche. Ma anche che il tranquillo bozzetto lascia improvvisamente posto al più oltraggioso sarcasmo, alla più acre irriverenza di quello che Landolfi ha sempre considerato «il mio miglior racconto» e Montale definì, nel risvolto della prima edizione, uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea». -
L' enigma di Hu
Questo libro racconta la storia affascinante, ambigua e toccante del primo cinese che si trovò a conoscere lOccidente. Hu era un vedovo quarantenne di Canton, scelto per accompagnare il gesuita Foucquet nel suo viaggio di ritorno in Europa, nel 1722. Venne così esposto allassolutamente altro, un mondo che provocò in lui reazioni violente. A un certo punto lo incontriamo a Parigi mentre predica in cinese ai passanti esterrefatti, accompagnandosi con un piccolo tamburo. Poi lo ritroviamo nel manicomio di Charenton. E infine assistiamo al suo ritorno in Cina, dopo esilaranti e strazianti vicissitudini. Per un curioso caso, sono sopravvissute testimonianze dirette della sua storia. E su di esse si basa Spence, come nel suo mirabile Imperatore della Cina. E, ancora una volta, Spence non ha voluto offrirci uno studio dei fatti, ma una narrazione: la forma è quella del diario. Giorno per giorno, e quasi ora per ora, vediamo svolgersi sotto i nostri occhi una sequenza sconcertante di avvenimenti, «di una bellezza e di una stranezza che fanno venire in mente i racconti di Borges e di Calvino» (Mark Strand). Lenigma di Hu è apparso per la prima volta nel 1988. -
La Marie del porto
Un grappolo di case strette attorno a un piccolo porto di pescatori normanni, un molo sul quale si affaccia il Caffè della Marina, centro focale dell’intreccio, la modesta casa sulla scogliera dove abita Marie, la protagonista, e, sullo sfondo, la città di Cherbourg: sono i luoghi, quanto mai simenoniani, dove si svolge la vicenda di questo romanzo del 1938, a cui Simenon teneva particolarmente, come rivela la sua corrispondenza con Gide, al quale scrisse, a proposito della Marie: «È una buona cosa provare a se stessi che è possibile dare una personalità alle comparse incaricate di venire a dire: “La Signora è servita”». E aggiunse anche: «È il solo romanzo che sia riuscito a scrivere con un tono completamente oggettivo». La Marie del porto è una figura che non si dimentica nella vasta galleria delle donne di Simenon: una ragazzina poco appariscente, una vera «acqua cheta», che riesce a impaniare un uomo sbrigativo e spavaldo, avvezzo a vincere e comandare. Questo personaggio, Chatelard, scorge da lontano la smilza figuretta di Marie che segue compunta il feretro del padre, e se ne innamora. Per starle vicino, compra un peschereccio, che gli fornirà la scusa per tornare in paese e frequentare il Caffè della Marina dove la ragazza è stata assunta come cameriera. Chatelard crede di avere in pugno il proprio destino e quello della Marie, ma in realtà è quest’ultima a tessere con abilità consumata e ironica determinazione una sottile trama di eventi nella quale l’uomo si lascerà avvolgere. -
Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale
Questo libro tratta un grandioso paradosso e misconoscimento storico: siamo abituati a vedere la musica moderna nascere per i rami della musica tedesca e austriaca, fra Wagner e Schoenberg, con l’apporto folgorante del russo Strawinsky. Ma in realtà la poetica del moderno, in tutte le sue ramificazioni, si era già elaborata a Parigi, tra Saint-Saëns e Debussy, innanzitutto in seguito allo choc per la sconfitta militare francese del 1870, che obbligò a ripensare e rimescolare tutti i termini della creazione musicale. Ora, «l’opera di quegli innovatori è singolarmente misconosciuta, anche in Francia, ove nessuno fino ad oggi ha pensato a narrarne la storia. E, quando la cultura francese impazzì per le idee introdotte da alcuni russi, Djagilev e Strawinsky in testa (ritorno all’ordine, neoclassicismo, musica “al quadrato”, culto del Settecento come categoria dello spirito, perennità della musica di corte), non sembrò nemmeno accorgersi che quella poetica, “di bellezza sconvolgente” (Boulez), aveva radici del tutto indigene. Le origini del Novecento musicale dipendono dunque dal gran secolo precedente, non solo, come è ormai ovvio, sul versante austriaco, ma anche su quello di Parigi e del pariginismo, fino ad oggi. Chi l’avesse mai detto, alle avanguardie storiche!» (Bortolotto). La via scelta da Bortolotto per raccontare questa aggrovigliata storia di forme in tutte le sue concatenazioni è la più ardua, ma anche quella che permette continue scoperte: sprofondare nei materiali, secondo un precetto benjaminiano, sorprendere il nuovo nel punto stesso dove si forma, nel respiro di una battuta, nell’incidersi subitaneo di una cifra stilistica. E insieme lasciando giocare tutte le risonanze e le rifrazioni che, nella Parigi che va dal Secondo Impero all’Esposizione Universale del 1900, dal duca di Morny ai mardis di Mallarmé, furono un abbacinante pulviscolo – e costituivano l’impalpabile fondale di quella che fu la capitale della décadence. Come già Fase seconda, questo libro rimarrà un passaggio obbligato per chi voglia capire la stupefacente vicenda del moderno in musica, che si aprì con la Romantik tedesca ed è tuttora aperta. -
La struttura dell'iki
«""Lei conosce il conte Kuki Shuzo. Ha studiato molti anni con Lei"""". """"Rivolta al conte Kuki rimane la mia memoria riconoscente""""». Con queste parole, che si leggono in un celebre libro di Heidegger, si può dire che affiori l'esistenza di Kuki Shuzo in Occidente e lì rimanga sospesa, come il miraggio di un orientale «dal cuore limpido e fine» che capiva il pensiero occidentale meglio degli Occidentali. Eppure Kuki Shuzo è esistito - e la sua storia travagliata e romanzesca va ben oltre quell'immagine, come mostra questo libro, che è il libro della sua vita. «""""Tutto il suo pensare era rivolto a ciò che i Giapponesi chiamano iki"""". """"Ciò che questa parola dice ho potuto solo presagirlo da lontano nelle mie conversazioni con Kuki""""» aggiunge Heidegger. Forse perché Heidegger non poté leggere il trattato di Kuki sull'iki, qui per la prima volta tradotto. E forse all'origine di questo libro vi è proprio la difficoltà provata da Heidegger. Una difficoltà, pensò Kuki, analoga a quella che deve affrontare chiunque tenti di tradurre il termine essere, fondamento del pensiero occidentale, in giapponese. Ma la parola essere si incontra in Parmenide, mentre la parola iki appartiene al gergo delle geishe. Già qui si accenna sottilmente il divario Oriente-Occidente. Che cos'è dunque l'iki? Nel Giappone del periodo Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l'ineffabile fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza. Kuki circumnaviga ogni accezione dell'iki, filtrando la parola con uno sguardo che ne individua i tratti distintivi nella seduzione, nell'energia spirituale e nella rinuncia; la colloca in un sistema estetico rigoroso; ne scopre le tracce nell'acconciatura, nell'incedere, nei gesti e nelle posture della geisha; nei motivi decorativi a righe verticali, nel colore marrone, nell'architettura della casa da tè, nella musica per shamisen. Capire l'iki è come percepire la fragranza di un'intera civiltà. E forse ci aiuta anche a capire l'essere per un'altra via."" -
Roma senza papa. Cronache romane di fine secolo ventesimo
"Roma senza papa"""" fu il libro che rivelò Morselli. Quando il romanzo apparve, nel 1974, Giulio Nascimbeni scrisse sul «Corriere della Sera»: «La prima tentazione è di dire che c'è stato anche un Gattopardo del Nord. Viveva in luoghi profondamente lombardi, tra Gavirate e Varese. Scrisse migliaia di pagine. Sperò a lungo che gli editori si accorgessero di lui. È morto il 31 luglio dell'anno scorso. Adesso esce un suo romanzo, """"Roma senza papa"""", pubblicato dalla Adelphi, e se ne resta attoniti, come davanti a un frutto raro e inimmaginabile»." -
Parole nel vuoto. Ediz. illustrata
«Adolf Loos e io, lui letteralmente, io linguisticamente, non abbiamo fatto e mostrato nient'altro se non che fra un'urna e un vaso da notte c'è una differenza e che proprio in questa differenza la civiltà ha il suo spazio. Gli altri invece, gli spiriti positivi, si dividono fra quelli che usano l'urna come vaso da notte e quelli che usano il vaso da notte come urna.» (Karl Kraus) -
Il presepio
Esiste, certamente, una felicità natalizia – ma essa è intrecciata indissolubilmente a una «infelicità natalizia». Ogni vera festa è gioiosa e angosciosa – e perderebbe senso se uno solo dei suoi elementi prevalesse sino a far dimenticare l’altro. Mai questo appare con evidenza così provocatoria come per il Natale, poiché «si sa che al Natale non si dà fuga; in nessun modo». Anni fa (non sappiamo con certezza quando) Manganelli cominciò a scrivere e portò a termine questo libro, senza farne parola a nessuno. Oggi, ritrovato fra le sue carte, Il presepio ci appare come una importante scoperta: un viaggio sfrenato all’interno della festa per eccellenza. Dopo un magistrale inizio, che illumina l’ambiguità del Natale, con quel senso di inquietudine e angoscia che è il contrappunto della dichiarata euforia, Manganelli prende il coraggio a due mani e decide di iscriversi al presepio, poiché il Natale, che è anche una cigolante macchinazione cosmica, in quanto tale «secerne da sé uno spettacolo, ha personaggi, un paesaggio, luminarie, talora musiche» – e dunque «è lecito affermare, è, diciamo, buona critica affermare che il Natale non è tanto la festa del bambino, o che altro sia, ma una rappresentazione nella quale tutti i personaggi hanno uguale necessità, dal maggiordomo all’imperatore». Così vedremo l’autore trasmigrare nelle figure di cartapesta, diventare «un sodale della Madre, del Padre, del Pastore uno, del Pastore due, della Pastorella, della Vecchietta, del Ruscello, del Bue, dell’Asino, e di quant’altri vorrà accorrere alla celebrazione dell’inizio del Significato». Quale migliore occasione per un teologo-narratore quale fu Manganelli? Così il presepio diventa un vortice fantastico, dove ci trascina una prosa che rare volte è stata altrettanto perfetta. -
La vera vita di Sebastian Knight
Sebastian Knight, un geniale scrittore nato a Pietroburgo nel 1899 ed educato in Inghilterra, muore in giovane età lasciando alcuni romanzi, una serie di racconti e un fratellastro, V., che decide di scriverne la «vera vita» ritornando nei luoghi frequentati dal defunto e rintracciandone le donne e gli amici. Ma V. è uno Sherlock Holmes maldestro e impacciato, le piste s'incrociano e si sovrappongono, i personaggi si sdoppiano, sfuggono, talvolta muoiono mentre la ricerca è in corso, e il libro di V. diventa un romanzo senza fine la cui forma aberrante sarebbe questa: «un autore scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia; di questo autore praticamente non si hanno notizie che non siano ingannevoli o tautologiche, ed anzi l'unica vera ""notizia"""" è che Sebastian, scrittore, ha scritto dei libri» (Giorgio Manganelli). Ma è questo un romanzo o il romanzo di una biografia che è anche autobiografia? Vladimir Nabokov, nato a Pietroburgo nel 1899, si definiva «uno scrittore americano cresciuto in Russia, educato in Inghilterra, imbevuto della cultura dell'Europa occidentale», e di questo «scrittore americano» dalle innumerevoli sfaccettature La vera vita di Sebastian Knight si può considerare l'atto di nascita e il passaporto. È un atto di nascita perché dopo i romanzi e i racconti in lingua russa è il primo libro scritto direttamente in inglese (fu composto a Parigi nel 1938, perlopiù nella stanza da bagno di un minuscolo appartamento, e pubblicato in America nel 1941 da New Directions, la casa editrice diretta dal poeta James Laughlin); ed è un passaporto per l'emigrazione da una letteratura a un'altra, nella quale Nabokov trasferisce e arricchisce il suo armamentario di scrittore-scacchista e scrittore-entomologo, i suoi giochi verbali e numerologici, le invenzioni e i colpi di scena di una regia partecipe e insieme impietosa, non di rado perversa, sempre imprevedibile."" -
Seminari
I testi di questi Seminari, qui tradotti per la prima volta, compendiano l’insegnamento orale dell’ultimo Heidegger, consentendoci di guardare direttamente nel laboratorio del filosofo. In quel periodo (si va dal 1951 al 1973) Heidegger, ormai lontano dalle aule universitarie, dove per lunghi anni aveva presentato le sue opere principali – a partire da Essere e tempo – sotto forma di corsi d’insegnamento, si dedicò in rare occasioni, soprattutto fuori dai confini tedeschi, e in forma ristretta e privata, alla interrogazione diretta, martellante dei testi filosofici. Tanto più preziosa apparirà dunque la testimonianza di questo suo insegnamento che sarebbe fondato definire «esoterico». I temi sono fra i più ardui e imprescindibili (e spesso le formulazioni che essi trovano in questa forma seminariale aggiungono, nella loro stringatezza, qualcosa di essenziale alle trattazioni più diffuse): alcuni frammenti di Parmenide ed Eraclito, la «questione dell’essere», il dominio della natura attraverso la tecnica, il senso della «lacerazione» in Hegel e della «produzione» in Marx, la distruzione-decostruzione da cui nacque Essere e tempo. I Seminari sono stati pubblicati per la prima volta nel 1977. -
Gigi
Gigi, deliziosa quindicenne colta sul punto di sfilarsi i suoi vestiti da bambina, ormai provocatori, e allevata da due donne che parlano dei gioielli delle cocottes con la stessa gravità con cui un agente di Borsa soppesa le azioni delle grandi compagnie, apparve nel pieno della guerra, nel 1942, e si può dire che fu l’ultima creatura di Colette a evocare qualcosa già con il suo nome: una grazia acerba e l’intreccio di una fiaba moderna. Hollywood si incaricò poi – coalizzando Leslie Caron e Maurice Chevalier, Vincente Minnelli e Cecil Beaton – di tingere la storia di rosa pastello. In Colette, invece, i colori sono misti, i sapori a volte pungenti. Non c’è solo la fiaba del libertino convinto e della quasi bambina che finiscono per incontrarsi nel vero amore (e si può ricordare che nel ruolo di Gigi esordì sulle scene di Broadway una giovanissima Audrey Hepburn). C’è anche una magistrale tessitura di chiacchiericcio Belle Époque. La storia di Gigi era realmente accaduta negli anni Venti. Ma Colette la spostò in quell’anno in cui «le automobili andavano di moda alte e leggermente svasate, per via degli immensi cappelli lanciati da Caroline Otero, da Liane de Pougy e da altre signore assai note nel 1899, e quindi si ribaltavano mollemente in curva». Come a volerla situare proprio al centro di quel periodo in cui, guidata dalla mano sapiente e crudele di Willy, Colette era diventata una impeccabile conoscitrice di quel demi-monde parigino a proposito del quale scrisse: «una volta ammessa una diversa angolazione morale, nulla era meno sregolato di quell’ambiente: quanto rigore nelle linee di cattiva condotta, quanta immutabilità nei segni del successo e della potenza, quanta burocrazia nei piaceri».