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Lo stato culturale. Una religione moderna
Quando si è costretti a scrivere tra virgolette la parola «cultura», vuol dire che la cultura è davvero mal ridotta. Quando la differenza fra la promozione turistica, mediatica, celebrativa e la cultura non viene più chiaramente percepita, vuol dire che la «cultura» trionfa. Quando di un libro, di una mostra, di un concerto non si parla più per dire ciò che rispettivamente sono, ma solo per discutere su quanto pubblico hanno attirato e con quali modalità, vuol dire che il senso dei libri, dellarte e della musica si allontana in una nebbia indefinita. Tutto questo succede ogni giorno sotto i nostri occhi. E talvolta accade come oggi in Francia che sia lo Stato stesso a fomentarlo e amministrarlo, trasformandosi in imprenditore che gareggia in sontuosità e inventiva con limprenditore privato, con un gesto di apparente devozione alla cultura e una celata volontà di manomissione della stessa, per utilizzarla ai propri fini. In breve, tutto sembra congiurare perché venga dimenticata limpeccabile intuizione di Jacob Burckhardt secondo cui lo Stato e la cultura sono potenze naturalmente nemiche e tali devono rimanere, per il bene di entrambe. Per valutare questo fenomeno, che è planetario ma assume forme diverse in ciascun paese (e ovviamente ben diverse da quelle francesi in Italia, dove lo Stato si è rivelato incapace perfino di garantire la sopravvivenza fisica delle testimonianze della cultura), occorre uno sguardo capace di abbracciare vasti insiemi, di riconoscere sia che cosè la cultura sia che cosè la «cultura». Marc Fumaroli ci è riuscito, con appassionata verve polemica, con solidissimo giudizio storico, con felice insofferenza. La sua analisi si concentra sulla Francia, risalendo alle origini di un fenomeno che si è manifestato platealmente negli anni di Mitterrand pur essendo già predisposto negli anni di Malraux. Ma il discorso va molto più in là e si applica a tutto quel sottile e onnipresente involucro di plastica che ci avvolge e tenta di soffocarci con le migliori intenzioni. Quellinvolucro si chiama «cultura». Lo Stato culturale è apparso per la prima volta nel 1991. -
Breve storia dell'infinito
«C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l’Etica; parlo dell’Infinito», così ha scritto J.L. Borges – e le sue parole stanno sulla soglia di questo libro, dove un matematico ha provato a ripercorrere, con eleganza, penetrazione e perspicuità, le vicende di questa categoria temibile, dalle origini greche sino alla ormai cronica «crisi dei fondamenti» del pensiero scientifico. Prima parola occidentale per designare l’infinito è l’ápeiron, il «senza limiti», quale appare già in Anassimandro. Ma l’infinito greco, dai Presocratici alla sistemazione aristotelica, proprio in quanto lo si riteneva un principio «divino, immortale e indistruttibile», viene maneggiato con estrema cautela nei procedimenti del pensiero discorsivo. E si tratterà sempre, allora, di un infinito potenziale, concepito nel segno della «negazione» e della «privazione» (la stéresis di Aristotele). La contesa tra il finito e l’infinito appariva dunque come una delle forme della contesa ultima fra tutte: quella fra l’Uno e il Molteplice. Il numero, sinonimo di misura e armonia, valeva in essa da misterioso punto di mediazione fra il limite e l’illimitato. Dalla Grecia antica a oggi la sequenza delle metamorfosi dell’infinito sarà vertiginosa. Lo svilupparsi della matematica vi s’intreccia con radicali mutamenti nel modo di concepire la realtà cosmica e mentale dell’infinito. A poco a poco vedremo delinearsi quella che è la grande attrazione e tentazione del pensiero occidentale: l’infinito attuale, che i Greci avevano schivato e ora viene ad assumere un ruolo sempre più centrale. Nell’ultimo, bruciante tratto di questa storia, che va da Leibniz a Bolzano e a Cantor, assisteremo a sempre rinnovati tentativi di «indicare in modo esplicito l’infinito con ‘qualcosa’», finché questo ‘qualcosa’ si rivelerà «suscettibile per di più di essere manipolato come segno tangibile della meccanica algebrica». Una soggiogante realtà cosmica si tramuta così in un esile segno sulla carta. Ma una volta giunti, con la teoria cantoriana del transfinito, alla fioritura di una specie inaudita della matematica, cominceranno immediatamente ad aprirsi le falle insidiose dei paradossi e delle antinomie, che metteranno in crisi i fondamenti stessi della scienza. Da questa crisi, in cui siamo ancora immersi, discenderanno le più rilevanti scoperte epistemologiche del nostro tempo. Zellini ha saputo raccontare queste trascinanti vicissitudini del pensiero unendo il rigore alla duttilità: ha seguito passo per passo l’evoluzione tecnica della nozione matematica di infinito e al tempo stesso l’ha riavvolta in quelle ricche speculazioni mitiche, teologiche, letterarie che da sempre l’hanno accompagnata. Così, in controcanto ai testi dei grandi matematici, incontreremo quelli di Musil e di Simone Weil, di san Tommaso e di Boezio, di Broch e di Florenskij. Dalla sconvolgente scoperta pitagorica dei numeri irrazionali allo horror infiniti che serpeggia in tutta l’antichità, dalle ardite teorizzazioni medioevali alla furia mistica di Bruno e di Cusano, dalle innovazioni scandalose (e fondatrici in rapporto alla scienza moderna) di Cartesio e di Leibniz sino all’abbagliante «paradiso» di Cantor (e alla subitanea cacciata da quel paradiso con la scoperta delle antinomie) e alle suggestioni attuali dell’«infinito aperto»: disparati, sorprendenti e nettamente... -
Zhuang-zi (Chuang-tzu)
«La realtà del fantastico in Zhuang-zi. Non viene mai ridotto a qualcosa di ideale. L'intangibile è la realtà stessa, e non qualcosa dietro di essa … Oggi per noi non esiste lettura che ci tocchi più da vicino di quella degli antichi filosofi cinesi. Tutto l'inessenziale qui cade. Per quanto è possibile, qui ci risparmiamo la deformazione imposta dalla concettualità. La definizione non è fine a se stessa. Si tratta sempre di possibili atteggiamenti verso la vita e non verso ""concetti"""".» (Elias Canetti)"" -
Il Cantico dei cantici
Il più grande testo d’amore di tutte le letterature. «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico fu dato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma Il Cantico dei Cantici è santissimo» - RABBI AQUIBÀ «Solo quelli che hanno amato la Sapienza come una donna, e una donna (sublime cortesia, inaudito conoscere) come la Sapienza, hanno ricavato dal Cantico tutta la possibile luce». - GUIDO CERONETTI -
Storia d'Europa nel secolo decimonono
«... con grata emozione ho fra le mani la ""Storia di Europa nel secolo decimo nono"""" e guardo la pagina con la dedica e la bella citazione dantesca ... Leggo il libro spesso e con attenzione, e sebbene a causa della lingua io veda la Sua opera come attraverso un velo, la luce spirituale che da essa si diffonde ne risulta di poco smorzata. Ammiro il Suo immenso sapere, la Sua vivida arte della rappresentazione, e amo il pensiero che anima il tutto. C’è da augurarsi di cuore che questo nuovo dono del Suo spirito possa essere presto tradotto nella nostra lingua. Dio sa se la Germania di oggi non ne ha bisogno.» (Thomas Mann a Benedetto Croce, 15 febbraio 1932)"" -
Snob
I sapienti hanno da tempo rinunciato a definire che cosa sia lo snobismo. Come la santità, esso sfugge alle etichette. Ma la domanda rimane, se non altro perché «lo snobismo suscita un’eco in ogni cuore». Certo, si tratta di un «argomento inesauribile», e un libro che si chiamasse «Gli snob di tutti i tempi, se mai fosse scritto, sarebbe di dimensioni inimmaginabili». Così, ad uso di coloro che sono troppo impazienti per attendere il compimento di tale ciclopica impresa, Jasper Griffin, professore a Oxford e uno dei massimi filologi classici viventi, ha raccolto in un delizioso bouquet alcuni fiori trascelti fra ciò che di memorabile sullo snobismo fu scritto, nell’età che va press’a poco dal paleolitico a Elsa Maxwell. E con queste parole lo ha presentato: «Lo snob a corte, lo snob che prega, lo snob innamorato: snob sublimi della cronaca e dell’invenzione, del romanzo e della poesia, dell’aneddoto e dell’autobiografia: irose denunce e disarmanti confessioni – da Virginia Woolf a Wodehouse, da Petronio a Proust, da Boston al Giappone: questa è una galleria dove noi stessi potremmo trovare un nostro posto – se non fra gli snob almeno (chi può mai dire?) fra gli snobbati». -
Jacques e il suo padrone. Omaggio a Denis Diderot in tre atti
Kundera scrisse questa commedia – unico suo testo teatrale, mai tradotto finora in Italia – dopo l'invasione russa della Cecoslovacchia, quando il suo nome e la sua opera erano stati ufficialmente cancellati dall'esistenza. Si tratta, dunque, di un «divertimento in tempi di peste». Ed è un caso di straordinaria simbiosi con un autore amato, Diderot, come se con un salto mortale nella letteratura Kundera riuscisse a evadere dall'oppressione incombente. Al pari del romanzo di Diderot, Jacques il fatalista, sulle cui figure e scene è ricalcato, questo testo di sfrenata leggerezza nasconde le sue punte acuminate (che non sono poche) in un «festino dell'intelligenza, dello humour e della fantasia». ""Jacques e il suo padrone"""", scritto in ceco, è stato pubblicato per la prima volta nel 1971."" -
Il giorno della civetta
Leonardo Sciascia pubblicò questo romanzo nel 1961. Allora, nelle parole dell'autore stesso, «sulla mafia esistevano degli studi, studi molto interessanti, classici addirittura: esisteva una commedia di un autore siciliano che era un'apologia della mafia e nessuno che avesse messo l'accento su questo problema in un'opera narrativa di largo consumo». La stessa parola mafia era usata con tutte le cautele e quasi di malavoglia. Eppure noi sappiamo che proprio in quegli anni avveniva la radicale trasformazione che spostò la mafia dal mondo agrario a quello degli appalti, delle commesse e di altre realtà «cittadine», non più regionali ma nazionali e internazionali. Lo scrittore Sciascia irrompe dunque in questa realtà come nominandola per la prima volta. Basta leggere la pagina iniziale del Giorno della civetta per capire che essa finalmente cominciava a esistere nella parola. Sciascia sottopose il testo a un delicato lavoro di limatura, riducendolo ai tratti essenziali con l'arte del «cavare»: e, visto a distanza di anni, tale lavoro si rivela più che mai un'astuzia dell'arte. Qui infatti Sciascia ha scoperto, una volta per tutte, quel suo inconfondibile modo di narrare che non si concede ambagi e volute, ma fissa lo sguardo sempre e soltanto sulle nervature del significato, fossero anche in un minimo gesto o dettaglio. In questo senso, se Il giorno della civetta è diventato il romanzo più popolare di Sciascia, è anche perché lo rappresenta in una forma che, nel più piccolo spazio, raggiunge la massima densità. -
Racconti d'inverno
«Riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare su questa terra». - Karen Blixen -
Mappa del nuovo mondo. Testo a fronte
«Sono nessuno o sono una nazione»: questo verso può valere come epigrafe per tutta l’opera di Walcott. Della quale si può dire, innanzitutto, che ci offre la forma più alta, oggi, della lingua inglese – forse anche perché proviene da quei luoghi dove «il sole, stanco dell’impero, tramonta», da una immensa periferia marina, i Caraibi, dove quel sole, tramontando, «porta all’incandescenza un crogiolo di razze e di culture» (Brodskij). «Io sono soltanto un negro rosso che ama il mare» dice un altro verso, ma (leggiamo altrove) uno i cui «occhi ardevano per la prosa cinerea di John Donne». Già questa congiunzione di elementi, questa somma di tribù divise nelle stesse vene, e insieme la stupefacente felicità verbale, la capacità di nominare le cose come in un remoto e scintillante «canto dei marinai» rendono unico Walcott e rimandano alla più sobria e precisa descrizione che a lui ha dedicato il suo critico, ma anche poeta, più congeniale, Iosif Brodskij: «Walcott non è un tradizionalista né un “modernista”. A lui non si adatta nessuno degli “ismi” disponibili e degli “isti” che ne conseguono. Non appartiene a nessuna “scuola”: non ce ne sono molte nei Caraibi, se si eccettuano quelle dei pesci. Si sarebbe tentati di chiamarlo un realista metafisico, ma il realismo è metafisico per definizione, così come vale l’inverso. E poi, è un’etichetta che saprebbe troppo di prosa. Walcott può essere naturalista, espressionista, surrealista, imagista, ermetico, confessionale – a scelta. Semplicemente, egli ha assorbito, al modo in cui le balene assorbono il plancton o un pennello assorbe la tavolozza, tutti gli idiomi stilistici che il Nord poteva offrire: adesso cammina con le sue gambe, e a grandi passi». -
Una pinta d'inchiostro irlandese
Questo romanzo rivelò Flann O’Brien nel 1939, l’anno di Finnegans Wake (e Joyce riconobbe subito in lui «un vero scrittore»). Oggi sappiamo che con questo libro cominciava a spuntare un nuovo, inconfondibile ramo nel grande albero irlandese della follia e della letteratura. Ma Flann O’Brien, bisogna aggiungere, non somiglia che a se stesso. «Come Dio, occorre definirlo con una tautologia» scrisse di lui Anthony Burgess. I non pochi lettori che hanno già amato Il terzo poliziotto ritroveranno qui il sapore di un singolare, allarmante humour nero, surreale e iperreale, imperturbabile nella sua capacità di sconvolgere a ogni passo le carte dell’immaginazione. Non sarebbe urbano chiedere a qualcuno di raccontare la trama di un romanzo di Flann O’Brien. Basterà quindi dire, per chiarire le cose, che si tratta di un romanzo-dentro-un-romanzo-dentro-un-romanzo, che è esilarante, che contiene parodie di un vasto numero di generi letterari – dalla poesia dei bardi gaelici alla disputa erudita – e che Dylan Thomas lo consigliava come «il libro giusto da regalare alla propria sorella se è una sporca ubriacona chiassosa». Infine: è un romanzo di alto virtuosismo linguistico, che ha avuto la fortuna di trovare in Italia il traduttore più congeniale che si potesse escogitare, per estro e umori: J. Rodolfo Wilcock. Alla fine di queste pagine, il lettore non mancherà di assentire pensosamente alle parole di Graham Greene: «Ho letto questo libro con passione e divertendomi dall’inizio alla fine, oltre che con quella specie di esultanza che si prova a teatro quando qualcuno sfascia delle porcellane sulla scena». -
Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte
«Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi»: questa frase, che incontriamo in una lettera di Kafka, e che la Bachmann riprende, può valere come epigrafe per queste celebri lezioni, pronunciate a Francoforte nel 1959-1960. In poche pagine limpide e vibranti la Bachmann ha consegnato l’essenza del suo pensiero sulla letteratura, vale a dire – per lei, almeno – su tutto. La forma è piana e pacata, di una trasparenza educata su Hofmannsthal e Musil. Il senso è audace e inflessibile: l’idea di una letteratura che per essere tale deve nascere «laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso». Una tale letteratura, già nel manifestarsi della sua forma, «contrappone alla vita una utopia della lingua». Queste lezioni ci confermano che in questo secolo le parole decisive sulla letteratura le hanno dette i grandi prosatori e i grandi poeti, da Proust a Benn, da Auden a Mandel’štam – e accanto a quei precedenti esse si dispongono. -
L' ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica
Questi scritti del leggendario pianista compongono una sorta di storia della musica a mosaico, altamente idiosincratica e non meno illuminante delle sue grandi interpretazioni. -
Incontri con uomini straordinari
Le avventure picaresche raccontate in questo libro «con una semplicità orientale che sconcertava per la sua apparenza di ingenuità» sono per Gurdjieff innanzitutto uno strumento per iniziare il lettore alle sue dottrine, per sottoporlo a una serie di choc e di paradossi che possono orientarlo verso il risveglio. -
L'immortalità
«Nessuno, oggi, possiede la grazia di Kundera: il suo tocco: quella combinazione inimitabile di ironia e amarezza, di malinconia e leggerezza. Basta aprire il libro, leggere due righe, corteggiare un'immagine, inseguire disperatamente un motivo; e ci diciamo sorridendo: ""È Kundera"""".» (Pietro Citati)"" -
Le religioni della preistoria. Paleolitico
L’opera di Leroi-Gourhan è paragonabile per importanza, in rapporto agli studi sulla preistoria, a quella di Lévi-Strauss in rapporto all’antropologia nel suo complesso. Le sue teorie continuano a essere discusse, e comunque è inevitabile tenerne conto. Con Leroi-Gourhan si può dire che lo studio della preistoria abbia raggiunto un alto rigore nel metodo e insieme una imponente ricchezza di risultati. Una sintesi felice e accessibile di tutto ciò egli presentò nel 1964 con questo breve libro. Come i suoi maestri Mauss e Granet, Leroi-Gourhan sa esporre il risultato di ricerche complesse e laboriose in formulazioni limpide e asciutte. Qui, in particolare, è il significato stesso dell’arte del Paleolitico – quest’arte che nasce perfetta, a un altissimo livello formale, e insieme ci appare del tutto misteriosa, poiché presuppone appunto «le religioni della preistoria»- che viene illuminato da una luce nuova, mentre vengono lasciate cadere molte delle teorie che a lungo hanno avuto corso, e che spesso erano pure proiezioni psicologiche degli studiosi, confermate nel tempo dalle proiezioni di altri studiosi. E Leroi-Gourhan è stato giustamente crudele nello sgombrare il campo e nel precisare ciò che non si può dire. Ma questo andava insieme con altre, poche cose che si possono dire e aspettavano solo di essere scoperte, come ad esempio l’abbinamento segni-animali nell’arte parietale o «l’equivalenza segno femminile-ferita». Con l’umiltà del grande studioso, Leroi-Gourhan si è proposto di «dare una certa vita al messaggio lasciato dall’uomo delle caverne senza contaminarlo con elementi moderni». -
Lettere e scartafacci (1912-1957)
Nel 1912 uno studente di storia dell’arte appena laureato decide di scrivere una lettera a Bernard Berenson. Lo studente si chiama Roberto Longhi. Nessuno lo conosce. Berenson ha già pubblicato tutto ciò che lo ha reso famoso. È un uomo sulla cinquantina, al colmo dell’attività e della gloria. La lettera è un capolavoro di passione, umiltà, sincerità, improntitudine. Un capolavoro di seduzione. Il giovane spiega a Berenson chi è Berenson, e si offre come suo traduttore. Nasce così un carteggio che durerà cinque anni: un carteggio dallo sviluppo drammatico, non uno scambio di lettere ma un duello, fatto di reciproche incomprensioni ma anche di fulminea capacità di capirsi e di riconoscersi. «Eva contro Eva»: un carteggio tra due primedonne permalose e suscettibili, dove ogni parola educata e civile è un’occhiata di fuoco. Per colmo di complicazione, scoppia la guerra. Il carteggio si tinge di grigioverde e fa nascere una scintilla di affetto come tra padre e figlio. Ma è solo un istante. La storia finisce male. La traduzione non verrà mai fatta, i due non si vedranno e non si scriveranno più. Si ritroveranno nel 1956, in occasione dei novant’anni di Berenson. Longhi ha raggiunto la sessantina. «Non l’avrei riconosciuta» mormora Berenson. L’incontro di due tra i più grandi storici dell’arte di tutti i tempi è durato il tempo di queste lettere. Gli interlocutori si sono annusati quel tanto che è bastato per accorgersi che due orsi non possono vivere nella stessa tana. A ognuno il suo regno. -
Sillogismi dell'amarezza
In questi pensieri sul tempo e sull'Occidente, sull'amore e sulla solitudine, sulla religione e sulla musica, la ribellione appare venata da ironia, lo sgomento da humour. Rimasti dapprima senza eco, i Sillogismi divennero poi il libro più letto di Cioran in Francia e in Germania e il più rappresentato nelle antologie di aforismi. -
Sulla materia della mente
«Siamo all’inizio della rivoluzione delle neuroscienze; alla fine, sapremo come funziona la mente, che cosa governa la nostra natura e in quale modo conosciamo il mondo»: sono le parole ambiziose e ferme che si leggono sulla soglia di questo volume. Di esse tutto si può dire, eccetto che siano infondate: con un’impressionante progressione, a partire dalle ricerche sul sistema immunitario, che gli valsero il Premio Nobel all’età di quarantatré anni, sino alla recente elaborazione degli artefatti Darwin I-IV, e in particolare dell’ultimo, denominato anche NOMAD, Edelman è riuscito a sviluppare una riflessione di vasta portata, forse l’unica che oggi possa pretendere di offrirci una prima sintesi della mente appoggiandosi alle indagini di una dozzina di discipline. E Sulla materia della mente è appunto il libro che finalmente espone e illumina, tentando di conquistare ogni lettore intelligente, lo stato ultimo e più complesso della sua teoria. Come ha scritto Oliver Sacks, «è un libro stupefacente per varietà e ampiezza tematica, che passa dalla filosofia alla biologia alla psicologia alla modellistica neurale e tenta di sintetizzare queste visioni in un tutto unificato». Molta strada rimane ancora da fare – e uno dei pregi di quest’opera è proprio quello di permetterci di misurarla –, ma è indubbio che con la ricerca di Edelman un passo decisivo è stato compiuto nell’impresa, che sembrerebbe ovvia se non fosse la più elusiva, di «reintegrare la mente nella natura». -
L' ultimo tocco di Lubitsch
Fra le leggende del cinema spicca quella del ""tocco di Lubitsch"""": l'impronta, il sigillo che faceva sì che qualsiasi storia, toccata dalla mano di Lubitsch diventasse qualcosa di unico. Ma chi era Lubitsch? Questa testimonianza su di lui, pubblicata nel 1981 sul New Yorker, mai raccolta in un volume fino ad ora, appare pertanto preziosa e si potrà notare che """"il tocco di Lubitsch"""" si è trasmesso, per uno strano processo di osmosi, anche all'amico e collaboratore Samson Raphaelson. Con una nota di Enrico Ghezzi.""