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Su Caravaggio
"I dipinti di Caravaggio ci dicono cosa dovrebbe essere la pittura, e questo è uno dei suoi meriti incontestabili. Le qualità della perfezione vengono costantemente sospinte in avanti, verso il primo piano del dipinto, dove è impossibile non coglierle. Caravaggio comunica l'ansia e l'urgenza implicite nei meccanismi dell'espressione pittorica, riuscendo al tempo stesso a far compiere a questi stessi meccanismi miracoli assoluti. Oseremmo chiedere di più?"""". In appendice: """"vita di Michelangelo Merigi da Caravaggio"""" di Giovan Pietro Bellori." -
Il sublime, adesso
"Una tela di Newman oppone alle narrazioni la sua nudità plastica. Tutto è presente: dimensioni, colori, tratti, senza alcuna allusione. Tutto è presente a tal punto da divenire un problema per i commentatori. Che dire, che non sia già dato? La descrizione è semplice, ma piatta come una parafrasi. La miglior glossa consiste nell'interrogazione: che dire?, nell'esclamazione: ah!, nella sorpresa: allora è così! Altrettante espressioni di un sentimento che ha un nome nella tradizione estetica moderna (e nell'opera di Newman): il sublime. È il sentimento del: ecco, è così. Non c'è dunque quasi nulla - o un non-so-che - da """"consumare"""". Non si può consumare l'occorrenza, ma solo il suo senso. Sentire l'istante è istantaneo"""". (Dallo scritto di Jean-Francois Lyotard)" -
I pittori italiani del Rinascimento
«Fu mia intenzione abbozzare in questo volume una teoria delle arti; specialmente delle arti della figura, ed in quanto si manifestano in forme pittoriche. Prescelsi esempi italiani, non soltanto perché mi trovo ad avere più intima conoscenza dell'arte italiana, ma perché l'Italia è il solo Paese dove le arti della figura siano passate per tutte le fasi: dall'inetto al sublime, da forme semibarbare agli estremi fastigi della bellezza intellettuale; per ricadere in condizioni barbariche a malapena dissimulate sotto gli spogli logori e stinti dell'età superba. Trattai di ciò che costituisce le arti del disegno, e, più precisamente, le arti della figura». Con uno scritto di Flavio Caroli. -
Scritti
«Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico. Nascono dall'esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti teatrali senza vergogna. Non è possibile prevedere né descrivere in anticipo quale sarà l'azione o chi saranno gli attori. Tutto ha inizio come in un'avventura sconosciuta, in un mondo mai veduto prima. È solo nel momento del compimento di questa avventura che ci rendiamo conto, come per un'illuminazione improvvisa, che ciò che si è concretizzato sulla scena è proprio quello che deve concretizzarsi. Tutti i programmi, tutti i concetti che avevamo all'inizio erano solo una via di uscita che ci ha permesso di abbandonare il mondo da cui questi stessi concetti hanno avuto origine.» Con uno scritto di Michel Butor. -
Memorie
«In definitiva, sarò stato soltanto me stesso. Fedele a ciò che ho creduto di sapere, al retaggio dei maestri antichi, alla mia infanzia, a ciò che la mia civiltà ha creato. Non mi sono mai lasciato adescare dai canti delle false sirene, dalle mode e dai capricci estetici di cui la mia generazione e il mio secolo sono stati così avidi. A rischio di apparire testardo e ribelle, ho sempre fatto soltanto ciò che ho voluto. O almeno ciò che la mia coscienza e il mio istinto mi hanno imposto. Docile a ciò che la mia mano dettava e a ciò che lo spirito mi permetteva di vedere e di trascrivere. Classico per l'ammirazione che ho portato ai grandi maestri della pittura, e romantico per il mio lato Heathcliff, ho sempre evitato gli scogli perigliosi delle scuole e dei movimenti, delle accademie e dei salotti. La mia pittura si è elaborata in questo cammino solitario, da cui ho sempre bandito ogni sproloquio, per andare all'essenziale. Dipingere è partire da qualcosa di ignoto anche a se stessi, e che si offre quasi miracolosamente. Dipingere è testimoniare l'invisibile, una avventura rischiosa e fatale al tempo stesso, un autentico ""mistero"""" nel senso medioevale del temine» (L'autore). Con uno scritto di Marco Vallora."" -
Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. Nota e digressione
«È il maestro dei volti, delle anatomie, delle macchine. Sa come nasce un sorriso; e può inserirlo sulla facciata di una casa, o nei meandri di un giardino. Scapiglia e arriccia i filamenti delle acque, le lingue del fuoco. Fa un Cristo, un angelo, un mostro, prendendo ciò che è noto e si trova dappertutto, e inserendolo in un ordine nuovo». Tale per Valéry, la figura di Leonardo come artista. Ma per Valéry, Leonardo è anche una figura della coscienza riflessa, intesa come «il centro di gravità intorno al quale si organizza il sistema del mondo: mondo della natura, degli oggetti, delle sensazioni, dei pensieri, delle astrazioni, degli stimoli». Così, Stefano Agosti nel saggio che accompagna la sua traduzione di questi due scritti di Valéry su Leonardo, rispettivamente del 1894 e del 1919. Ad essi si aggiungono le preziose annotazioni e commenti in margine, redatti dall'autore nel 1930, per una raffinata pubblicazione in facsimile dei due testi. Di questa figura emblematica dell'universo mentale di Valéry, il lettore potrà ora conoscere - grazie anche al saggio precitato del curatore - le complesse diramazioni e potenzialità, le creazioni compiute e le possibilità virtuali, con cui Valéry non cessò mai di confrontarsi, lungo l'intero arco della propria speculazione intorno all'attività del pensiero e alle forme dell'arte. -
Appunti sull'arte
«Tutto ciò che vedo diventa per me forma e stato d'animo. Anch'io a volte vedo quelle forme riconoscibili che la gente scorge nei miei quadri. ma chi può dire se siano nate casualmente o meno?... Forse i soggetti della pittura di Rembrandt - quei mendicanti e quegli ebrei che amava frequentare e osservare - erano comuni, scontati, come gli interni di Vermeer o i nudi carnosi di Rubens, o i nostri vortici di colore. Erano quel che accadeva di trovare in giro, quel che, alzandosi al mattino e accingendosi a ""dipingere"""", veniva spontaneo rappresentare. Devo ammettere in tutta franchezza che, nell'ambito dell'arte, desidero essere anch'io della partita. Certo, a volte attraverso periodi di profondo sconforto, durante i quali guardo il mio quadro e mi dico: """"Ma che diavolo stai facendo?"""". Però, da questo a ripartire da zero... e poi, da quale zero? Come artista, sono quello che sono ora, e non potrei in alcun modo tornare al figurativo, all'accademia, che è il punto da cui son partito. In Olanda ero un membro dell'accademia a pieno titolo, a dodici anni». (Willem De Kooning)"" -
Le ville venete
"Leggendo questo trattato, è facile accorgersi di quanto Palladio ami le ville. L'architetto non è un grande letterato: il suo stile è piuttosto faticoso, le frasi si dipanano con lentezza, ma, quando scrive delle ville, il suo linguaggio si fa più sciolto. Egli, principale esponente di un nobile classicismo, affronta con disinvoltura e, si direbbe, quasi con piacere, temi banali: dalle zanzare alla bollitura dei legumi, dal tipo di piante che crescono lungo i corsi d'acqua al problema del puzzo dei letami. Così facendo, dimostra la sua grande concretezza, il senso pratico che lo porta ad agire sempre «sul campo», mai in modo astratto, ma anzi verificando personalmente ogni dettaglio. Si comprende così come le ville siano nate esattamente per il luogo in cui si trovano: non sono oggetti interscambiabili fra loro o (come è invece spesso avvenuto, specie nel mondo anglosassone) ricalcabili e «trapiantabili» altrove. Il genius loci caratterizza e indirizza ogni progetto, in un rapporto inscindibile con il contesto naturale e con la volontà del committente. Poiché, conclude Palladio con una punta di autoironia, «spesse volte fa bisogno all'architetto accommodarsi più alla volontà di coloro che spendono, che a quello che si devrebbe osservare»."""" (dalla postfazione di Stefano Zuffi)" -
Scoperta delle arti cosiddette primitive
«Aprendo nuove vie alla creazione artistica, la scoperta delle arti primitive esercitò un'influenza indubbia sul cammino delle idee. È il clima di favore creato dagli artisti all'inizio del XX secolo ad aver reso possibile lo studio delle forme di sensibilità proprie alle arti dell'Africa nera. Ormai tali produzioni non vanno più considerate alla stregua di mere curiosità o di esotismi, bensì con lo stesso rigore di quando penetriamo nel mondo della statuaria egizia o di quella della Grecia antica. Il fatto stesso che l'arte negra ai nostri giorni rientri, allo stesso titolo delle arti consacrate, nel dominio universale della cultura - dove tanta millenaria saggezza e tanta bellezza compongono il tesoro che costituisce l'eredità dell'uomo d'oggi - non è forse il segno che l'ideologia moderna, almeno nella sua avanguardia, è ormai pronta ad accogliere la liberazione dei popoli neri come una necessità ineluttabile?». -
La patafisica
Enrico Baj (1924-2003), il «patapittore» - come lo definì il poeta Jean-Clarence Lambert -, uno tra i più fervidi seguaci di Alfred Jarry e della sua patafisica, sposa i contenuti di questa «scienza delle soluzioni immaginarie» portandoli a vessillo del proprio universo culturale.rnrnBaj matura negli anni una sua visione della patafisica che proietta nella propria opera e che utilizza come arma contro le contraddizioni e le costrizioni del mondo e della società. L'irriverenza, l'ironia e il gusto del paradosso, propri di questa scienza, costituiscono per l'artista gli «anticorpi dell'uomo contemporaneo contro l'oppressione e la massificazione della burocrazia, dei codici fiscali, postali, telefonici, bancomatici, internettici eccetera». La patafisica, che Baj riassume col motto «Imago ergo sum», in opposizione alla razionalità matematica cartesiana, è nello stesso tempo musa e linfa vitale che rinnova e rinvigorisce la forza dell'immaginazione. Per Baj, infatti, il pittore, come il patafisico, rifiuta le spiegazioni scientifiche definitive non riconoscendo al valore nessuna valenza morale né estetica. Allo stesso modo egli azzera con la fantasia, facoltà «che può valicare le più alte vette e superare ogni difficoltà», la comune tensione a trovare una soluzione logica a ogni problema. Con una nota di Roberta Cerini Baj. -
Il potere del centro
«Questo lavoro nasce da un'unica idea, ossia che la nostra visione del mondo si fonda sull'interazione fra due sistemi spaziali, che possiamo definire cosmico e periferico. Sappiamo che la materia si organizza cosmicamente attorno a centri il più delle volte caratterizzati da una massa dominante. Entro l'immensità dello spazio astronomico le galassie ruotanti e i sistemi solari o planetari creano tali schemi centralizzati, e nell'ambito microscopico lo stesso accade per gli atomi, con gli elettroni che orbitano attorno al nucleo. Persino nel mondo della nostra esperienza diretta la materia organica e inorganica possiede una libertà sufficiente ad assecondare una tale inclinazione, configurandosi in strutture simmetriche attorno a un punto, a un asse, a un piano centrale. Anche la mente umana concepisce forme centriche, e i nostri corpi compiono danze intorno a un centro». -
Qualcuno
«Le opere d'arte accompagnano costantemente Joris-Karl Huysmans (1848-1907): non solo nella sua attività letteraria, gremita di riferimenti ad artisti e dipinti, ma anche, e forse soprattutto, nelle diverse fasi della sua esistenza, delle quali le opere d'arte costituiscono il simbolico riflesso, il veicolo estetico della conoscenza di sé attraverso forme e colori. Come in una catena di specchi, vita, arte e letteratura si incalzano in un susseguirsi di intersezioni che si legittimano e chiarificano reciprocamente; le immagini, come parole dipinte, evocano suggestioni e riflessioni che la scrittura da sola sembra inabile a produrre, così come le parole sviluppano dall'eccitamento visivo indizi e ispirazioni che concorrono verso un unico destino. Gli articoli qui raccolti coprono un periodo di mutamenti cruciali nell'opera e nella vita dello scrittore, compreso il raggiungimento della celebrità, dopo l'inaspettato successo di ""À rebours"""", che gli permette indubbiamente una maggiore libertà interpretativa in fatto di critica d'arte. Huysmans, in questi anni (il libro è del 1889), sta ormai per abbandonare l'impressionismo; è nel pieno dell'estetica simbolista-decadente e si accosta alla cultura satanista, in fondo alla quale si intravede, lontano ma inevitabile, il faticoso approdo alla fede. Di qui deriva l'eclettismo nella scelta degli artisti trattati, che vede la compresenza di Degas e Moreau, Whistler e Chéret, Cézanne e Rops. E di qui forse anche il fatto che «Qualcuno» fosse, tra i suoi libri, quello che Huysmans preferiva, proprio perché il più denso di esperienze interiori, vividamente attuali ma sospese tra un passato disatteso e un incerto avvenire.» (dallo scritto di Luca Quattrocchi)"" -
Manifesti del surrealismo
«Il surrealismo non permette a chi vi sia ricorso di lasciarlo quando gli piaccia. Tutto porta a credere che esso agisca sullo spirito al modo degli stupefacenti; come questi, crea un certo stato di bisogno e può spingere l'uomo a tremende rivolte. È anch'esso, se si vuole, un paradiso molto artificiale, e l'attrazione che esercita cade sotto la critica di Baudelaire allo stesso titolo di tutti gli altri. Per questo l'analisi degli effetti misteriosi e dei godimenti particolari che può produrre - per molti versi il surrealismo si presenta come un ""vizio nuovo"""", che non sembra destinato a essere appannaggio di pochi: come l'hashish, ha di che soddisfare ogni sensibilità - non può non trovar posto in questo studio. Le immagini surrealiste funzionano come quelle dell'oppio, che non è più l'uomo a evocare, ma che """"gli si offrono spontaneamente, dispoticamente. Egli non può congedarle; perché la volontà è senza forza e non controlla più le facoltà""""»."" -
Descrizione di San Marco
«L'acqua della folla è indispensabile alla facciata di San Marco quanto l'acqua dei canali a quelle dei palazzi. Mentre tanti altri monumenti antichi sono così profondamente snaturati dal turista che, quando vi si avventa, sembrano esser profanati, e perfino da noi stessi, certo, se non li accostiamo con lo spirito di uno studio rigoroso, la basilica, al contrario, con la città che la circonda, non ha nulla da temere da questa fauna, e dalla nostra stessa frivolezza; lei, la basilica, è nata, è sorta sotto il costante sguardo del visitatore, i suoi artisti hanno lavorato in mezzo alle conversazioni di marinai e mercanti. Dall'inizio del XIII secolo, questa facciata è una vetrina, una mostra di antichità. I negozi sotto le arcate sono il suo prolungamento. Questo non è di impedimento al segreto. Persino i negozi hanno un retro, dei ripostigli. La piazza fa già parte della basilica. Sapienti passaggi condurranno coloro che lo vorranno fino al suo cuore». -
Il paese fertile. Paul Klee e la musica
«Questo probabilmente è il testo più fervido, più fraterno che sia mai stato scritto da un creatore su un altro creatore. L'ammirazione che Pierre Boulez ha nutrito assai presto, sin dal 1947, per Paul Klee non è stata effimera. La frequentazione dell'opera e degli scritti del pittore non ha fatto che rafforzarla. Le qualità che Pierre Boulez apprezza profondamente in Klee - il potere di deduzione e l'immaginazione - sono anche sue, e l'incontro fra queste due personalità è già di per sé straordinario. Ma l'interesse di questo testo è accresciuto dal fatto che sia stato un musicista a scriverlo, un musicista che si è sempre occupato della ricerca analitica, e l'abbia scritto su un pittore che conosceva profondamente la musica e avrebbe potuto aspirare a una carriera di strumentista. Paul Klee non ignorava nulla delle forme musicali classiche. Dalle regole che le governano egli poté far scaturire un particolare modo di concepire dei problemi squisitamente pittorici. A sua volta Pierre Boulez, partendo dall'opera e dalle lezioni di Paul Klee al Bauhaus, sviluppa una riflessione sulla distribuzione e sul ritmo dello spazio musicale. Non si tratta affatto di traduzione in un senso o nell'altro, ma piuttosto di scambio, di corrispondenza o di osmosi.» (dall'introduzione di Paule Thévenin) -
Giotto
«È difficile resistere alla tentazione di affermare che Giotto fu il più grande artista che sia mai vissuto, frase questa usata a proposito di troppi maestri per conservare il suo pieno significato enfatico. Ma egli rappresenta, perlomeno, il più prodigioso fenomeno in tutta la storia dell'arte a noi nota. L'aver creato quasi dal nulla, il crudo realismo di Cimabue temperato dall'esausta compiutezza dei bizantini, un'arte in grado di esprimere tutta la gamma delle emozioni umane; l'aver trovato quasi senza guida il modo di trattare il materiale grezzo della vita stessa in uno stile così diretto, così duttile all'idea, e al tempo stesso così essenzialmente grandioso ed eroico; l'aver colto intuitivamente quasi tutti i princìpi rappresentativi, per stabilire i quali, scientificamente, occorsero due secoli di continue ricerche; l'aver compiuto tutto questo è, senza dubbio, una prova meravigliosa, superiore a quella che un qualsiasi altro artista abbia mai dato». -
L' arte nuova, la nuova vita
«In un tempo come il nostro in cui le situazioni sociali, politiche ed economiche esigono sforzi su basi reali, nulla è più logico del fatto che generalmente non si abbia alcuna consapevolezza dell'influenza immensa che l'arte esercita, o potrebbe esercitare, sulla vita pratica. L'arte, a causa del suo carattere convenzionale o per l'ignoranza del suo autentico contenuto, è stata sin qui considerata come una ricerca della bellezza ideale o decorativa, per cui non si comprende come possa indicare la via verso l'equilibrio dei rapporti sociali, politici ed economici, né come possa creare una realtà concreta e una concreta bellezza nella vita pratica. Nel nostro tempo la necessità spinge verso la ricerca di un equilibrio mondiale, ma non si ha forse bisogno di una bellezza reale nella vita? E la bellezza non è forse l'espressione più perfetta dell'equilibrio?». -
Trattato sul bello
L'eco delle concezioni estetiche di Denis Diderot (1713-1784) fu presso i contemporanei straordinaria. «Ieri mi è capitato sotto gli occhi Diderot,» scrive Schiller a Goethe «che davvero mi incanta e ha scosso profondamente il mio spirito. È come un lampo che illumina i segreti dell'arte, e le sue osservazioni riflettono così fedelmente ciò che l'arte ha di più alto e di più intimo da poter costituire un'indicazione non meno per il poeta che per il pittore». E Goethe risponde: «È davvero magnifico, più utile ancora al poeta che al pittore, anche se a quest'ultimo fornisce un lume possente». Le concezioni estetiche di Diderot trovano una prima compiuta espressione in una voce («Bello») che scrisse per l'«Encyclopédie», e che venne pubblicata a parte nel 1751 e più tardi nelle edizioni delle sue opere con il titolo di «Trattato sul bello». «È bello» afferma Diderot «tutto ciò che contiene in sé qualcosa che possa risvegliare nel mio intelletto l'idea di rapporti». Ma cosa intende Diderot per «rapporti»? Egli prende come esempio una celebre battuta tratta da una tragedia di Corneille. Ora, la «bellezza» di quella battuta dipende dai rapporti che la legano al contesto drammatico. Se il contesto fosse un altro, cambierebbe, insieme con il significato, anche la bellezza, la forza poetica di quella battuta. Il bello, non solo artistico, non è dunque intuizione repentina, frammentaria, non è immobile, indistinta contemplazione di una verità ideale, ma è movimento, progresso nella conoscenza della realtà attraverso i suoi nessi vitali. Un'esaltante passione di conoscenza, in cui il rigore del ragionamento scientifico sembra coniugarsi con la prepotente esigenza di adesione alla natura, e l'ansia profonda di conferire all'arte una nuova dignità, una serietà, un'autorevolezza più alte: ecco ciò che induce Diderot a portare con tanta penetrazione, con tanta passione il suo sguardo sul problema del bello. -
Studi su Rembrandt
«Per quanto le figure di Rembrandt ci appaiano intimamente scosse da una vita profonda, per quanto lunghe siano le fila del destino a cui sono intrecciate, nessuna di esse presenta quell'elemento caratteristicamente enigmatico tipico della «Monna Lisa» o del «Giuliano de' Medici» di Botticelli, delle teste dei giovanetti di Giorgione a Berlino e a Budapest, o del «Giovane inglese» di Tiziano a Palazzo Pitti. Paragonato con essi il modo di concepire e di rappresentare di Rembrandt è incomparabilmente più vibrante, procede nell'indistinto e, per così dire, all'infinito, privo di trasparenza logica; ma nonostante questo l'uomo rappresentato è per noi molto più aperto, più illuminato, un essere che ci è familiare. E questo non dipende per nulla dal fatto che i modelli di Rembrandt fossero uomini meno complessi, più lineari degli italiani del Rinascimento, che erano più differenziati e ricchi di tutte le finezze della cultura. Nasce piuttosto dal fatto che la concezione che Rembrandt ha dell'uomo, più complessa, più ricca di elementi, apparentemente meno chiara, ha reso percepibile nel fenomeno attuale la sequenza spirituale di sviluppi e di destini che lo hanno formato, rendendo possibile quindi il riviverlo e il comprenderlo dall'interno». -
Visione e disegno
«L'emozione estetica è infinitamente lontana da quei valori etici in cui Tolstoj avrebbe voluto confinarla, e sembra essere lontana dalla vita reale e dalle sue utilità pratiche, come la più inutile teoria matematica. Si può soltanto dire che quelli che la provano sentono che essa possiede una qualità peculiare di ""realtà"""" che la rende una questione di enorme importanza nella vita. Ogni tentativo che facessi per spiegare questo fatto mi condurrebbe probabilmente nelle profondità del misticismo. Sull'orlo di questo abisso mi arresto».""