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Mitobiografia
Durante i trent’anni in cui Ernst Bernhard (1896-1965) praticò la psicoterapia junghiana a Roma si creò intorno alla sua figura una grande fama sotterranea, legata essenzialmente al rapporto – non solo medico, ma di vera guida – che egli aveva con i suoi molti e diversissimi pazienti e, negli ultimi anni, con i suoi allievi. Bernhard fu per altro sempre restio a pubblicare i suoi scritti e fino a oggi solo poche sue pagine sono state stampate. Eppure era evidente che in lui continuamente si sviluppava un pensiero vasto, una visione audace, che spesso si spingeva oltre le stesse formulazioni estreme di Jung e l’àmbito della psicoanalisi in genere. In quest’uomo enormemente complesso agivano e si mescolavano componenti opposte: l’ebraismo, piuttosto di stampo chassidico, che lo spinse per tutta la sua vita a cercare per sé, e ad affermare come compito attuale della coscienza, l’innesto della sapienza religiosa ebraica su un nuovo ceppo; l’eredità germanica, che lo riconduceva alla tradizione dei filosofi romantici della natura, una cui ultima propaggine può essere riconosciuta anche in Jung; infine il rapporto con la ‘madre mediterranea’, l’apertura al mondo delle immagini, che dava a Bernhard una capacità di penetrazione immediata nel segreto dei simboli. L’opera di Bernhard che qui si presenta è una scelta dai suoi quaderni e dagli appunti da lui dettati ad amici e allievi, dove vediamo articolarsi su un fronte larghissimo le sue speculazioni: passiamo da una teoria degli strati e dell’entelechia, in rapporto all’evoluzione cosmica, all’analisi dell’inconscio familiare, alla legge del karma, dal senso dei grandi miti e archetipi alla tematica del pensiero indù e cinese, dalla delineazione dei conflitti della nostra società ai problemi della presa di coscienza collettiva. Continuamente intrecciati a questi temi compaiono, a specchio del pensiero, i sogni fondamentali della vita di Bernhard, spesso commentati a distanza di anni: ciò che ne risulta è, come Bernhard stesso scriveva, una mitobiografia, il progressivo enuclearsi di un destino e di un mito personale nel pensiero e attraverso il pensiero. Così, non solo per la novità e l’arditezza della tematica, ma per la sua forma stessa, che non ha riscontro nella letteratura psicoanalitica, questo libro ha gli stessi tratti di potente singolarità che sempre avvertivano coloro che avvicinarono Bernhard in vita. -
Filosofia dell'espressione
La Filosofia dell’espressione di Giorgio Colli è un saggio teoretico che si azzarda a ripensare ex novo alcuni temi essenziali della metafisica, situandosi in posizione di evidente rottura e incompatibilità con le correnti dominanti della filosofia contemporanea. Qui la prospettiva privilegiata è quella della conoscenza, ma non certo in rapporto alle preoccupazioni epistemologiche dell’età moderna: piuttosto siamo di fronte a un tentativo di risalire all’indietro il corso involutivo della storia, con gesto di sovrana inattualità, per tornare ai termini del primo pensiero greco. La parola-guida espressione viene qui intesa in senso metafisico, come ‘la sostanza del mondo’, che rimanda ad altro, senza che questo altro possa essere nominato. Nel suo aspetto perennemente duplice di giuoco e di violenza il mondo si articola davanti a noi, sullo schermo illusionistico della rappresentazione, in serie espressive variamente complesse, che si allontanano sempre più dall’immediato e sempre più cercano di recuperarlo. A seguire l’intrico di questi rapporti in cui la ragione costruisce il mondo, trasformandosi, non verrà certo di pensare alla ragione strumentalizzata del pensiero moderno, ma piuttosto al senso greco del logos, quale traspare nelle enigmatiche formule dei Presocratici o ancora nella immensa summa aristotelica, nel cui alveo confluisce l’intero pensiero greco. E di fatto è soprattutto in riferimento ad Aristotele, in continuo dialogo e contrasto con le sue enunciazioni, che Giorgio Colli ha concepito la parte centrale di quest’opera, dove si dipana una elaboratissima teoria delle categorie e della deduzione. -
La pentola dell'oro
James Joyce sosteneva di formare con James Stephens una coppia di gemelli celesti «nati alla stessa ora dello stesso giorno dello stesso anno nella stessa città». E Stephens aggiungeva: «Ma in due letti diversi, e questo fu il solo neo nei nostri rapporti». Tanto forte doveva essere questa convinzione in Joyce che, in una lettera scritta mentre disperava di poter mai finire Finnegans Wake, egli indicava in James Stephens l’unico scrittore che eventualmente avrebbe potuto portare a termine il suo lavoro. E ciò non solo perché questi disponeva in maniera prestigiosa di tutta la tastiera mitica e fantastica dell’Irlanda, ma perché Stephens era anche lui dotato di una formidabile abilità stilistica, di un orecchio rigoroso per il ritmo. Solo che la forma dei suoi scritti è quanto di più diverso dall’ultimo Joyce; una semplicità apparente, una sviante elementarità del linguaggio e dei temi si ritrovano in tutte le sue opere – poesie, racconti e memorabili conversazioni alla radio – e così anche nel suo capolavoro La pentola dell’oro (1912). Questo libro, che fin dal suo apparire si guadagnò dei fanatici ammiratori, è pressoché indefinibile, ma di questa sua natura elusiva e polivalente il lettore si rende pienamente conto alla fine, dopo essere passato attraverso una complicata storia che è insieme un conte philosophique, un romanzo fiabesco dove compaiono dèi di varia origine – come Pan e Angus Óg – un libro per bambini, un libro pieno di humour per gli adulti, un’allegoria del difficile matrimonio fra intelletto e istinto. Certo è che da questo strano impasto di elementi è nato un libro che il tempo ha reso sempre più attuale. Walter de la Mare è riuscito felicemente a condensare in poche parole il suo fascino: «Come almeno metà dei libri migliori è più che un po’ pazzo, e colmo fino all’orlo di vita e di bellezza. È un inno al nonsense, e il vero nonsense è solo saggezza rovesciata, che perciò è al di là della comprensione solo per un intelletto non saggio». -
Andrea o I ricongiunti
Andrea o I ricongiunti è uno dei grandi romanzi del nostro secolo. Come L’uomo senza qualità di Musil, esso nasce nel clima della rovina asburgica, nel crollo di quella tradizione aristocratica dell’Austria che trovò in Hofmannsthal la sua espressione suprema. Iniziata nel 1912, quest’opera avrebbe accompagnato Hofmannsthal fino alla sua morte, avvenuta nel 1929, rimanendo incompiuta e insieme perfetta, chiusa. Nelle sue pagine sembrano tessersi tutti i fili di quella tela misteriosa che fu Hofmannsthal stesso: nitida, rilucente, intatta superficie nella prima parte, distesamente narrata; tenebra geroglifica nella seconda parte, formata dai meravigliosi frammenti dove Hofmannsthal ha svelato le ramificazioni senza fine del pensiero che sottende la sua narrazione. Hofmannsthal definì l’Andrea come luogo geometrico dei destini, e di fatto egli è l’unico fra i grandi narratori moderni ad aver riconquistato la nozione del destino in tutta la sua arcaica vastità. Ma l’accesso a questa cifra nascosta non è certo immediato: guidandoci nel paese delle maschere, Hofmannsthal ha scelto accuratamente la sua, e così ha dato al suo romanzo l’ingannevole aspetto di un nuovo Bildungsroman. Il giovane Andrea muove dalla sua Vienna verso la Venezia settecentesca, perché, là, «la gente è quasi sempre in maschera». Il lettore scoprirà gradualmente che questo viaggio educativo è un vero iter iniziatico. Dopo una prima rivelazione, durante il viaggio, dell’estasi e dell’infamia, Andrea si trova subito preso, a Venezia, in un quadrilatero di enigmi, di cui occuperà uno dei vertici, mentre sugli altri compariranno Sacramozo, il Cavaliere di Malta, intelletto platonico che regge le trame degli incontri, la cortigiana Mariquita, «una specie di turbine», e la dama Maria, volutamente separata dalla vita. Ognuno di questi personaggi è sdoppiato, ogni gesto appartiene all’insieme dei quattro e a nessuno, secondo le leggi di una alchimia che qui si presenta sotto specie di racconto. Il trasparente percorso rettilineo della prima parte si trasforma così in una immensa tavola del possibile: il tempo si blocca e balena istantanea l’immagine della totalità dove i personaggi, nelle loro forme distinte, si incontrano una volta per sempre, per diventare, come vuole il titolo, «i ricongiunti». Andrea o I ricongiunti è apparso per la prima volta nel 1932. -
Macunaima. L'eroe senza nessun carattere
Nella foresta vergine brasiliana, in un mondo ancora prodigioso, dove uomini e animali si parlano e si trasformano gli uni negli altri, dove i grandi morti diventano astri e costellazioni, nasce Macunaíma, «l’eroe senza nessun carattere», nuova incarnazione del trickster, essere dai grandi poteri e dai grandi vizi, pigro, lussurioso, candido e violento come la sua terra. Ancora bambino, Macunaíma si dedica a formidabili imprese erotiche, combatte, inganna, si trasforma, gioca e si spassa fra i suoi compagni mitologici. Ma alla morte del suo grande amore, Ci, la regina delle foreste vergini, Macunaíma sceglierà di andare per il mondo. E così lo vediamo comparire a San Paolo e Rio de Janeiro, scontrarsi con l’altra magia, quella della civiltà moderna, e nelle alterne vicende di questa lotta sarà il tema centrale del libro. Dopo estenuanti avventure, dove de Andrade fa trasparire una acuta satira del Brasile contemporaneo, Macunaíma vince, ma al ritorno nella foresta, la trova spopolata e là, con davanti agli occhi la triste visione di una civiltà che scompare, morirà. Anche lui sarà trasformato in una stella e continuerà la sua vita nel cielo. Giunti alla fine, le avventure di Macunaíma ci appariranno come un corteo scintillante di episodi, dove la grandiosa oscenità e allegria del materiale mitologico si congiungono con il grottesco moderno. Macunaíma fu scritto nel 1926, sulla base di ricche tradizioni degli indios, da Mário de Andrade, uno dei promotori della prima avanguardia brasiliana. La straordinaria felicità letteraria del libro deriva anche dalla scelta del linguaggio: assimilandosi al mondo perduto del mito, l’autore ha voluto narrare l’epos di Macunaíma con le parole dei negri e dei mulatti, dei poveri immigrati da ogni parte del mondo, un idioma quotidiano estremamente pittoresco e vivace, ricco di neologismi attinti alle molte lingue degli indios e a quelle europee. Un tale linguaggio composito, trattato da de Andrade con virtuosistica abilità, riunisce già in sé naturalmente, in un coro discordante di voci, tutti gli elementi del furioso, esilarante carnevale che accompagna il risveglio di questo grande mito. -
Memorie dalla Torre Blu
Imprigionata per ventidue anni, dal 1663 al 1685, nella Torre Blu del Castello Reale di Copenaghen – sotto l’accusa di aver congiurato contro il re insieme a suo marito, il nobile Corfitz – Leonora Christina, figlia morganatica del re Cristiano IV di Danimarca, annotò clandestinamente le sue vicende, durante la prigionia, per istruirne i suoi figli. Ne è risultata una delle opere più enigmatiche e scabre di tutta la memorialistica – modernissima per l’asciuttezza del tono, per la prontezza nel cogliere il particolare, per l’invincibile ambiguità psicologica che la percorre. Scoperte e pubblicate soltanto nel 1869, ammirate da Rilke, Jacobsen e Andersen e oggi considerate un grande classico della letteratura danese, le Memorie di Leonora Christina vengono qui presentate per la prima volta in Italia. Non già ricordando nella tranquillità vicende passate, dietro lo schermo del tempo, ma ancora costretta in mezzo agli spettri viventi di quel passato, al centro di un groviglio di odii che la obbligava a subire le macabre vessazioni della Torre Blu – dove questa donna regale conversava con carcerieri e infimi delinquenti, dove continuamente aguzzava le armi per difendersi da una turbinosa società di visitatori, inquisitori, ancelle e spie, dove il suo letto posava su un pavimento di escrementi incrostati –, così ci parla Leonora Christina, da un cupo palcoscenico che veniva a sostituire per lei, durante lunghi anni, quello delle corti e dei castelli d’Europa. «Giobbe donna» l’hanno definita molti critici, per il cumulo di sventure che essa sostiene, come anche per i continui richiami devozionali e il senso che essa ha di dover reggere a una «prova». Ma Leonora Christina può anche esser vista soprattutto come uno spirito lucido, eminentemente pragmatico, personaggio nel quale forse più che la fede può l’orgoglio, testardo e deciso a nulla rivelare del proprio segreto. Ciò che più impressiona il lettore di oggi e rende così straordinarie le memorie di Leonora è il suo sguardo impassibile, che registra gli eventi della sordida prigionia con diligenza da archivista, come nei grandi narratori – e poi l’attenzione, che ha una qualità quasi ferina, la volontà che non può neppure immaginarsi di cedere e continua inesorabile a osservare i mutamenti del circostante, anche ove da questi non sia più possibile aspettarsi salvezza. Un folto e crudo mondo popola queste memorie e la cella della Torre Blu viene ad assorbire tensioni, vendette, intrighi come un’intera città. E quanto più Leonora è precisa nel descrivere, tanto più nasconde se stessa. Alla fine il suo mistero resta inviolato: le sue dichiarazioni di innocenza non bastano a convincerci dell’infondatezza dell’accusa e sempre più ci accorgiamo che le sue memorie si reggono tutte sulla occultazione dell’io, che ne diviene perciò tanto più forte e sfuggente. Ma intanto, su questo terreno di reticenze e segreti murati, tante storie, tanti particolari hanno assunto davanti ai nostri occhi quell’esistenza incancellabile che fa della Torre Blu uno dei luoghi memorabili della letteratura. -
Lulù-Lo spirito della terra-Il vaso di Pandora
La serata della prima rappresentazione del Vaso di Pandora a Vienna, il 29 maggio 1905, come la prima parigina dell’Ubu re di Jarry, è uno degli avvenimenti che inaugurano il teatro moderno. Quella sera, davanti a un pubblico di invitati filtrato con ogni cautela dall’autorità di polizia e dagli organizzatori, dopo una lunga presentazione di Karl Kraus, la scena si apriva su una vicenda sconvolgente, che allora apparteneva allo scandalo e oggi alla mitologia: la storia della fine di Lulu, archetipo violento della femminilità. Quella sera Lulu era Tilly Newes, che con la sua interpretazione conquistò Wedekind e ne divenne poi la moglie e l’attrice preferita; Karl Kraus stesso aveva la parte di Kungu Poti, principe africano; il brillante saggista viennese Egon Friedell era un commissario di polizia e, infine, Wedekind aveva la parte che corona questa discesa negli abissi, quella di Jack lo Sventratore. Scrittore totalmente d’istinto, ma dagli istinti precisi, Wedekind irrompe con malagrazia nella storia del teatro, mostrando ciò che, allora, il teatro aveva quasi la funzione di occultare, e che indubbiamente non si rivelava in certi titanici, ma quanto timidi e prudes, campioni del moderno quali Ibsen. La carica sessuale che si era accumulata nella fine secolo, nascosta a fatica nella serra del liberty, dove la sessualità finisce per censurarsi nella nascita dell’astratto, esplode senza precauzioni con Wedekind. Le pedanti costrizioni del naturalismo vengono qui annientate proprio da un sovrappiù di crudezza nel materiale; e la vita bruta si rivelerà essere non una tranche de vie, ma al contrario qualcosa di inverosimile, che assume un tono di esasperazione astratta affine al teatro di marionette e al circo. E il riferimento a queste due forme, che sarà poi così ossessivo in tutta l’arte del Novecento, si presenta qui nella sua origine. Preceduta da Strindberg, Sacher-Masoch e dalla Sonata a Kreutzer, cresciuta insieme alle prime grandi scoperte di Freud, agli attacchi di Kraus contro la scandalosa tutela della moralità sessuale, all’apparizione e al suicidio di Weininger, Lulu è la sovrana di quei brevi anni in cui la sessualità fu davvero un problema primario, che toccava le radici di tutto: reincarnazione della mater saeva Cupidinum, prostituta sacra, intatto essere preistorico, essa trascina con sé nella distruzione un corteo variegato di uomini, ma il vero oggetto della distruzione è lei stessa. Il destino che si compie in Lulu, giustiziata da Jack lo Sventratore, è quello che la società riserva a ogni eccesso che nella sua forza integra riesca a metterla in dubbio, eccesso di cui la donna e la natura sono insegne privilegiate. Nessuno come Karl Kraus ha saputo interpretare i molti sensi di questa vicenda, perciò il suo splendido saggio introduce qui l’opera; come ultima eco del testo si raccomanda invece al lettore di ascoltare il sassofono ‘delinquenziale’ nella incompiuta Lulu di Alban Berg. -
Vite immaginarie
«È hashish... dà fuoco all’immaginazione», così disse il poeta Albert Samain quando lesse le Vite immaginarie di Marcel Schwob. Il fuoco di questo libro brucia ancora: oggi, se tanti lettori scoprono in Borges gli incanti più sottili e vertiginosi del fantastico e di una certa occulta matematica della narrazione, riconosceranno in Schwob un maestro e un modello di quella letteratura. Erudito esploratore della biblioteca di Babele, autore precocissimo di fondamentali ricerche sulle origini dell’argot, appassionato cultore di Villon, che ricondusse al suo vero luogo, fra i malfattori della banda dei Coquillards, Marcel Schwob (1867-1905) inventò un nuovo genere di narrativa d’avventura, che non cerca un contatto diretto con la realtà, ma passa per le vie traverse della filologia e della mistificazione, sprofonda nella «antichità eliogabalesca» – così disse E. de Goncourt – come in una riserva di sogni, per rendere alla vita bruta quella carica allucinatoria che essa ha in origine. A lui, giovane che fu sempre vecchissimo, fecero omaggio Jarry e Valéry, dedicandogli le loro prime opere; e Oscar Wilde, dedicandogli The Sphinx. Nella Parigi dei martedì di Mallarmé e dei gloriosi inizi del «Mercure de France», anni in cui fu disegnata in ogni particolare la carta della modernità letteraria, di cui ancora viviamo, l’ombra elusiva e notturna di Marcel Schwob ci appare a ogni crocicchio essenziale. Le Vite immaginarie, pubblicate nel 1896, segnano il culmine della sua opera: sono ventitré ‘percorsi di vita’, brucianti di rapidità, dove incontriamo personaggi illustrissimi, come Empedocle o Paolo Uccello o Petronio, e gli ignoti destini di Katherine, merlettaia nella Parigi del Quattrocento, o del maggiore Stede Bonnet, ‘pirata per capriccio’, o degli impeccabili assassini Burke e Hare – e tutti circondati dalle folle senza nome di mendicanti, criminali, prostitute, mercanti e eretici che abitano la storia. Ma tutti eguaglia la prosa illusoriamente semplice di Schwob. Per lui, secondo l’esempio di Aubrey e di Boswell, la biografia è scienza dell’infimo particolare; il suo occhio coglie solo quei gesti, quei momenti che distinguono irrevocabilmente un destino da ogni altro. Eppure, come Schwob stesso disse del suo amato Stevenson, si tratta di un «realismo perfettamente irreale, e appunto perciò onnipotente». È vano, come pure in Borges, tentare di discriminare il vero e l’immaginato in queste superfici splendenti, perché tutto vi è visionario e segretamente unito in una sola catena, a dimostrare le parole di Schwob secondo cui «la somiglianza» è «il linguaggio intellettuale della differenza» e «la differenza... il linguaggio sensibile della somiglianza». -
La via di un pellegrino. Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale
L’Anonimo russo che racconta le sue vicende in questo libro è uno strannik – un contadino che, fisicamente inadatto alla vita dei campi e spinto da un forte impulso religioso, abbandona il suo paese e si dà a una perpetua vita errante. Centro di essa sarà la sua scoperta della preghiera esicastica. Solitario per le strade della Russia, accompagnato soltanto da un libro che determinerà tutta la sua esistenza, con un tozzo di pane secco e il suo prezioso salvacondotto, l’Anonimo russo ritrova, brancolando, testardo nel suo desiderio, una via mistica che ha una tradizione immensa e antica, vero segreto della Chiesa d’Oriente. Si tratta appunto della preghiera esicastica, cioè di una certa pratica della ’preghiera interiore ininterrotta’ illustrata nel libro che il pellegrino porta con sé, la Filocalia, vasta raccolta di testi mistici che va dai primi Padri del Deserto ad alcuni grandi teologi bizantini. Tale preghiera, fondata su una sottile teoria della respirazione e della «custodia del cuore», è l’unica pratica occidentale che si possa confrontare con lo yoga indù – un Oriente occultato, che il mondo slavo ha per secoli nutrito in sé. Senza ausili di cultura e senza il controllo costante di un maestro, l’Anonimo sperimenta su se stesso, passando per tutti gli stadi, dalla desolazione al rapimento, il potere sconvolgente della semplicissima «preghiera di Gesù». Tutta la sua vita ne è progressivamente trasformata e la testimonianza che egli ne ha lasciato nella Via di un pellegrino ci appare come uno dei più ricchi «viaggi mistici» che conosciamo. Alla straordinaria immediatezza e precisione nel descrivere le proprie esperienze nel regno della preghiera esicastica, l’Anonimo unisce poi una naturale freschezza di narratore: come un inconsapevole Gogol’, egli ci rivela i tratti della perduta vita popolare e provinciale russa attorno alla metà dell’Ottocento, di cui egli stesso è uno dei personaggi, un innocente che sa aprire a una a una le porte di un sapere prodigiosamente intatto. La Via di un pellegrino fu pubblicata per la prima volta a Kazan’ verso il 1860. -
Il libro di Giobbe
Tutti sanno che Giobbe, «uomo di perfetta purità», fu colpito da sventure e, infine, ulcerato nel corpo dal Male, circondato da tre amici, si rivolse al Signore per chiedere ragione delle sue sofferenze. «Iob dice che i buoni non vivono e che Dio li fa ingiustamente morire. Gli amici di Iob dicono che i cattivi non vivono e che Dio li fa giustamente morire». Lo scandaloso processo che Giobbe, il giusto, osa intentare al Signore è una immensa pietra d’inciampo che è fatale incontrare e che ogni lettura obbliga ad aggirare, con fatica e meraviglia. Guido Ceronetti, con la sua versione e il suo commento, ha cercato, nell’oscurità e nell’enigma, di offrire in tutta la loro forza oscurità e enigmi, perché questo testo, che nessuna ragione potrà mai accettare, appaia nuovamente inaccettabile, arricchito dalla scomparsa di quelle tante mitigazioni esegetiche nelle quali secoli di devozione e di empietà lo hanno avvolto. Testo principe sul male, Il Libro di Giobbe ci rassicura che il male non è quella burocratica ‘privazione del bene’ a cui teologi grandissimi lo hanno voluto ridurre, ma inarrestabile ruota del mondo; che vera offesa recano innanzitutto gli zelanti, in quanto hanno la risibile pretensione di bonificare l’esistenza, e con ciò portano morte; che «la salvezza del bene è edificante, quella del male essenziale». Ma innumerevoli sono le maschere del testo sacro, e l’inflessibile manifestarsi della necessità del Male si congiunge – è uno dei segreti del Libro di Giobbe – con l’affermazione assoluta del possesso di Dio presente. Così l’accusato Dio, a cui Giobbe può rivolgersi col suo tu brutale (di una brutalità quale forse nessun’altra religione che l’ebraica ha tollerato) grazie soltanto alla grandiosa finzione di essere l’Odiatissimo-Amatissimo, speciale oggetto, per assurdo, della potenza divina e perciò specchio della sua divina doppiezza – l’accusato Dio, quando alla fine del Libro, dopo i discorsi di Giobbe e dei suoi amici spaventati dall’audacia del sofferente, prenderà la parola, non risponderà con spiegazioni pacificanti, ma congiungerà di nuovo violenza a violenza, come amore a amore, evocando l’immagine dei suoi mostri, Behemòt e Leviatàn, che toglie a Giobbe la parola e gli fa sentire la presenza della perpetua testimone di questo perpetuo processo, Hokhmah, la Sapienza. -
Una visione
«Il pomeriggio del 24 ottobre 1917, quattro giorni dopo che mi ero sposato, rimasi stupito nel vedere mia moglie che tentava la scrittura automatica. Ciò che veniva fuori in frasi staccate, in una grafia quasi illeggibile, era così esaltante, a volte così profondo, che la convinsi a dedicare tutti i giorni una o due ore all’ignoto scrittore, e dopo una mezza dozzina di queste ore mi offersi di passare il resto della mia vita a spiegare e a mettere insieme quelle frasi sparse. “No,” fu la risposta “noi siamo venuti a darti metafore per la poesia”». È questo l’inizio della ‘esperienza incredibile’ del grande poeta irlandese W.B. Yeats, che culminò anni dopo nella stesura di Una visione. Al periodo della scrittura automatica seguì, a distanza di qualche mese, la comunicazione orale dei misteriosi ‘istruttori’, che parlavano ora attraverso la voce della donna addormentata. Yeats trascriveva ciò che udiva e interrogava incessantemente. Col tempo venne a delinearsi un sistema complesso e minuzioso, una rivelazione ermetizzante, che illuminava la cosmologia e la storia mediante diagrammi simbolici e uno schema di ’incarnazioni’ corrispondenti alle ventotto fasi della luna, ruota dove si iscrive ogni esperienza umana, dall’infima alla suprema: per ognuna di esse Yeats ci offre dei personaggi esemplari, scelti nell’immensa riserva della storia – fra gli altri, Whitman, Spinoza, Keats, Flaubert, la regina Vittoria –, ai quali dedica ogni volta un ritratto di preziosa acutezza. Ma la sorprendente genesi di questo libro non si differenzierebbe di molto dalle tante vicende spiritiche e occulte che invasero il mondo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, se non fosse che qui è coinvolto W.B. Yeats, non solo grande poeta e uno tra i fondatori della poesia moderna, ma teorico dei sovrani poteri formali dell’arte. Di fatto, a lui, i misteriosi ‘istruttori’ non offrono le usuali banalità che fanno saltare i tavolini, ma ‘metafore’ per un maestro della metafora, una macchina mitica di cui egli, giunto sulla soglia della fase ultima e più ricca della sua opera di poeta, sente fortemente l’esigenza. Una visione ci mostra appunto come l’intervento degli ignoti Altri provochi un processo di potente condensazione delle idee e della sensibilità di Yeats, che qui sembrano fissarsi in una forma imprevedibile, eppure del tutto coerente con la sua persona. D’altra parte, fra l’occulto e la letteratura esistette per Yeats, fin dall’inizio, un vivacissimo scambio, che fu in ogni momento ambiguo, e Una visione non vale certo a risolvere questa ambiguità: anzi, infiltrando nel grandioso insieme un elemento grottesco e di patafisica comicità, bilanciando a ogni passo riverenze e insolenze, Yeats ci fa intendere che certamente sbagliate sono proprio le due prime soluzioni a cui il lettore può pensare, e cioè che l’elemento occulto sia riconducibile immediatamente all’artificio letterario oppure che qui la letteratura si pieghi a diventare veicolo dell’occulto. Ben più inquietante è il fondo di quest’opera, in cui si ritrova uno dei paradossi dell’arte moderna, per cui molto del più rigoroso formalismo si è sviluppato dal più contaminato occultismo (basti pensare ai casi di... -
Teatro popolare. Notte all'italiana-Storie del bosco viennese-Kasimir e Karoline-Fede speranza e carità
Non si vive di solo Brecht – e in questi ultimi anni, nei paesi di lingua tedesca, critici, lettori e pubblico hanno riscoperto con molto clamore un’altra grande figura del teatro del Novecento, la cui critica sociale non è certo meno corrosiva di quella di Brecht, e che pure da lui si differenzia in tutto, nei procedimenti, nell’educazione, nel senso della forma: Ödön von Horváth (1901-1938). Nel suo sangue si mescolavano molte delle nazioni dell’Impero, tanto che egli diceva di essere una «tipica faccenda austroungarica» – e, di fatto, Horváth può essere considerato come l’ultimo rappresentante del teatro viennese, che era sempre riuscito a essere, al tempo stesso, popolare e sottratto alle vane tentazioni del verismo. Ma Horváth si trovò davanti al paradosso di scrivere teatro popolare in un’epoca in cui il popolo era ormai diventato un’entità fantomatica – e in un periodo sinistro della storia, quando il nazismo era già una costellazione compiuta in tutti i suoi elementi e aspettava soltanto di raccogliere il potere. Horváth si accorse subito di vivere in un mondo abitato «per il novanta per cento da piccoli borghesi appena riusciti, o non ancora, a diventare tali, comunque da piccoli borghesi». Vide anche che la loro prima caratteristica era una sorta di fatale coazione a esprimersi, sentire, e vivere nel Kitsch. Riconosciuto questo dato, Horváth ne trasse le conseguenze formali con perfetta lucidità. Le sue grandi «commedie popolari», che in questo volume si presentano, sono tutte delle enormi ballate di morte, dove i numerosi personaggi si alternano con musicale leggerezza sulla scena per dire atroci frasi fatte e compiere infine atroci atti, sullo sfondo di musiche pregne di Kitsch o costrette di violenza a diventare tali: l’operetta, le canzoni di birreria, i valzer, la barcarola dei Racconti di Hoffmann. In un certo senso tutto questo teatro è citazione da una mostruosa, stravolta e inesauribile vox populi, e tale procedimento formale, di cui sono evidenti la novità e la portata, ha permesso a Horváth di penetrare forse più di ogni altro autore teatrale nella zona di melensa sentimentalità, accumulato rancore sociale, ammirazione per la ferocia, incancrenita ipocrisia, da cui è nato e nasce continuamente il fascismo. Per Horváth, la prima macchina teatrale delle sue commedie sono i riti collettivi della piccola borghesia: il picnic nei boschi, la «Oktoberfest» a Monaco, la «notte all’italiana». Gli innocenti passatempi della gente semplice illuminavano più di ogni altra cosa l’orrore ormai neppur più latente. E, dietro alle feste, traspare sempre un’immobile struttura di persecuzione, che apparirà a nudo nella parabola di Fede speranza carità. Oggi, la precisione e la chiaroveggenza di queste terribili commedie scritte ‘a caldo’ ci appare sempre più impressionante; ma, anche prescindendo dal momento storico a cui sono legate, dobbiamo riconoscere in Horváth uno dei più grandi esperti della stupidità e volgarità umane. «Nulla quanto la stupidità dà il senso dell’infinito»: in questo infinito egli guida il suo lettore ammirato e agghiacciato. -
Dopo Nietzsche
Giorgio Colli è stato un filosofo di radicale ‘inattualità’, uno dei rarissimi che abbiano avuto la capacità, eminentemente nietzscheana, di parlare al presente «con vera durezza»: in questo libro egli risolleva, in tutto il loro peso, molte delle domande che Nietzsche aveva posto, e a cui spesso aveva risposto solo per enigmi, inclusa quella sul significato dell’enigma, decisiva per avvicinarsi a qualsiasi questione filosofica e, in particolare, al modo che Nietzsche aveva di vivere il pensiero. Sono problemi che, almeno nella loro originaria e vitale immediatezza, negli ultimi cento anni ci si è preoccupati per lo più di eludere, sia non percependoli sia sottoponendoli al mortale filtraggio della ‘prospettiva storica’. Per Colli, invece, il presupposto è che Nietzsche sia stato l’ultima grande figura del pensiero occidentale, e che perciò la filosofia non abbia altra scelta se non quella di porsi le stesse questioni che Nietzsche individuò e sulle quali, alla fine, il suo destino si infranse. Ciò lo costringe a una sorta di guerra su due fronti: da una parte, la ripresa e reinterpretazione di tutti i temi greci di Nietzsche (dalla sapienza misterica a Socrate, dal significato di Apollo al nesso fra dialettica e violenza, alle origini e alle peripezie del logos), qui illuminati con sovrana lucidità, tale da delineare tutta una nuova visione, compatta e sorprendente, delle origini del pensiero occidentale; dall’altra, una sorta di analisi serrata delle conquiste del pensiero di Nietzsche, ma anche delle sue grandiose sconfitte, che pure Colli esamina con quella peculiare ‘mancanza di riguardi’ che – come Nietzsche stesso ha insegnato – è l’unico modo ammesso dall’etichetta del pensiero se si vuole avvicinare un grande filosofo. E ognuno di questi due fronti nutre direttamente un terzo tema del libro, cioè l’attacco devastante a molti idoli del pensiero moderno: dalla storia giustificatrice di ciò che comunque le sfugge, alla ragione ormai scissa dal logos da cui è nata, al superstizioso attaccamento alla scienza, ai fatti, all’azione. Il risultato è un libro singolarissimo, articolato in brevi sezioni aforistiche, continuamente appuntito e provocante, duro ed esigente nelle sue tesi, felicemente distaccato nella maniera, un libro dove in ogni parola si sente presente, e come ripercosso direttamente dalle sue origini greche, il rischio mortale che il pensiero accetta, a ogni suo passo, di fronte alla Sfinge. -
Un mondo lontano
Il mondo lontano che W.H. Hudson evoca in questo libro con quella sua peculiare felicità di tocco che il lettore italiano ha già apprezzato nella Terra Rossa, è quello della sua infanzia: la pampa senza fine, punteggiata di alberi maestosi, gli ombù, la cui unica funzione era allora di segnare per il viaggiatore, come gigantesche pietre miliari, l’enorme distesa di terra, fitta di animali, scarsa di uomini. Qui, in una casa chiamata appunto «I venticinque ombù», Hudson era nato nel 1841 ed era vissuto nella prima infanzia. Molti decenni dopo, quando ormai era diventato un illustre naturalista e un maestro della prosa inglese, Hudson sentì il bisogno di risalire ai suoi primissimi ricordi, e scrisse Un mondo lontano (1918). Vividi e pulsanti come lo sbattere di piume di un qualche amato uccello tropicale, i ricordi obbedirono al richiamo della sua prosa: così egli ritrovò i fatti e le emozioni che avevano costruito il suo essere e ce li ha consegnati in un’opera di raro incanto, quella dove, come scrisse Ford Madox Ford, Hudson «ha più rivelato se stesso». Vi troveremo la storia di una traboccante passione per la natura, tanto straordinaria quanto inconsapevole, che avrebbe poi accompagnato tutta la vita di Hudson, e un’esperienza delle persone tutta determinata dalla struttura dei luoghi: per cui l’umanità appariva al piccolo ‘inglese’ come una serie ininterrotta di mondi autonomi, le estancias, spesso privi di contatti fra loro e incompatibili, o come la galleria degli inaspettati ospiti accolti dai generosi genitori di Hudson: avventurieri, mendicanti, guerrieri, appassionati di cavalli, donne pallide e misteriose, gente perduta, caratteri che sparivano nel nulla dopo aver manifestato ogni volta al bambino attento, quasi cerimonialmente, un qualche aspetto della vita e della morte. Alla fine, avremo l’impressione di aver assistito al crescere di una persona come a quello di un albero, seguendola in tutte le ramificazioni della sua sensibilità, forse perché esse erano rimaste miracolosamente intatte nel lucido e sapiente Hudson quasi ottantenne che ce ne ha raccontato il formarsi. -
L' opera del tradimento
Al vecchio chevalier Auguste Dupin, investigatore dilettante immortalato dalla fantasia di E.A. Poe, mentre rovista fra le ingiallite scartoffie, ricordi di tanti memorabili casi da lui risolti, capita sotto mano una misteriosa cartella che porta limpegnativa scritta: evadenda. Con grande sorpresa vi scopre labbozzo di un suo vecchio racconto sul traditore di Cristo. E ora si ricorda: ecco lunico caso, il caso Giuda che egli non ha ancora risolto, e neppure seriamente affrontato. La presenza del suo altrettanto vecchio amico, compagno inseparabile della giovinezza e attento interlocutore nelle sue lunghe riflessioni ad alta voce, lo induce a improvvisare una disquisizione sul sommo delitto che, offrendo pochi indizi concreti, si presta eminentemente a essere trattato con il metodo analitico di Dupin, che permette al suo inventore il lusso di non dover mai rinunciare alla comodità della propria poltrona. Con questa trovata della chiacchierata in poltrona lautore alleggerisce notevolmente limplicita gravità dellargomento che da duemila anni eccita la fantasia di studiosi, scrittori e artisti. E affidando allacume, al brio, allo spirito battagliero di Dupin lanalisi e la soluzione del delitto più misterioso della storia, quasi gli addossa una parte della responsabilità dei singolari risultati dellindagine. Con questo trucco sottile e specioso lautore sottolinea che non pretende di aver scoperto la verità e che sarà contento di aver prospettato una soluzione «anche se non quella giusta, comunque una, e ottima», sempre per citare le note parole del cavaliere Dupin. Lautore così cautamente mascherato imposta il problema in una maniera insolita, che permette di considerare il caso sotto punti di vista nuovi e sorprendenti, e quindi di giungere a risultati inaspettati. Il tradimento di Giuda, il cui movente umano perde qui ogni importanza, si delinea attraverso momenti di suspense metafisico da giallo teologico come la risultante del conflitto di altri interessi dietro le quinte superne e infere, inscindibili da quella visione mitologica del mondo che in quei tempi non aveva ceduto ancora al razionalismo e si era sovrapposta perfino alla realtà storica. Così il famigerato tradimento si configura innanzitutto come un momento decisivo nella lotta che luomo combatte contro il suo Dio per strappargli almeno i surrogati di quella felicità di cui venne privato con lespulsione dal Paradiso Terrestre. In questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1975, lautore del Sacro amplesso prosegue con temeraria sottigliezza le sue indagini sui testi sacri, alla ricerca di indizi da cui si possa sperare che la nostra problematica esistenza e la nostra travagliata storia abbiano un senso, almeno al cospetto del Dio della Bibbia. -
Momenti d'ozio
Momenti d’ozio, una delle opere supreme di tutta la civiltà giapponese, fu scritto fra il 1330 e il 1332, e si compone di 243 capitoli di lunghezza oscillante fra le poche righe e le poche pagine. Secondo una versione dei fatti accreditata per lunghi anni, l’autore, il monaco buddhista Kenkō, avrebbe via via incollato le strisce di carta contenenti i singoli brani del libro sulle pareti della sua casa. Dopo la sua morte, altri avrebbero messo insieme tali frammenti, in cui molti lettori dovevano trovare quello che è forse il più essenziale concentrato dello spirito giapponese. Tale leggenda servì, in certo modo, a giustificare quel peculiare carattere di ‘non finito’, di ‘non forma’ che è proprio di questo libro e che è stato per lungo tempo, in Giappone, un vero metodo di composizione, chiamato zuihitsu, cioè «segui il pennello» – certo il più adatto per Kenkō, nemico di ogni imperiosità della scrittura, di ogni volontà di chiudere, di ogni pretesa di fissare le cose per sempre, impareggiabile innanzitutto come maestro di eleganza, di sprezzature e di understatements, tanto da far apparire goffi e maldestri i massimi rappresentanti dell’estetismo in Occidente. Un paesaggio, un gesto, un oggetto, una cerimonia, una parola, un aneddoto, un’espressione del viso sono tutti ugualmente pretesti per le riflessioni solitarie di Kenkō. E le sue note non hanno intenti pedagogici o religiosi: mirano piuttosto a delineare le cose fuggevolmente, per il puro piacere di tracciare dei segni, di nominare il mondo nella sua precarietà, in quel suo carattere di ‘impermanenza’ che nessuna civiltà ha saputo esaltare come la civiltà giapponese, e all’interno di essa nessuno più di Kenkō. È così una mescolanza inconfondibile di distacco dalle cose e di piacere per ogni particolare di esse che parla in questi Momenti d’ozio, vero libro di lettura che si può aprire a caso, in qualsiasi occasione della vita, trovandoci ogni volta un particolare, una luce, un segno adatti a quel nostro momento. -
Edda
«Vi fu un tempo remoto / in cui nulla era: / non sabbia né mare / né gelide onde. / Non c’era la terra / né la volta del cielo; / ma voragine immane / e non c’era erba». Nelle sale altissime del Walhalla, dal tetto coperto di scudi dorati, il re Gylfi, «uomo saggio ed esperto di magia», ascolta questa prima risposta alle sue appassionate domande: «Quale fu l’inizio? e come ebbe principio ogni cosa? e prima che c’era?». Sono i fondamentali interrogativi di ogni mitologia, che si riferisce sempre a un tempo originario e separato dalla durata comune: nell’Edda di Snorri a rispondere saranno gli stessi dèi nordici, mutevoli e ambigui, pronti al travestimento e all’inganno, perché la loro essenza è appunto di travestirsi continuamente nelle apparenze del mondo che li manifesta. E dietro la voce degli dèi ci parla quella di uno straordinario scrittore, in cui si riuniscono qualità che raramente hanno potuto trovarsi congiunte. Islandese, Snorri Sturluson visse dal 1178 al 1241, quando cadde assassinato, probabilmente per ragioni politiche. Era un grande erudito, paziente raccoglitore delle tradizioni storiche, letterarie e mitologiche del suo popolo, che poi si sarebbero riverberate per secoli nella nostra civiltà, fino a Wagner e a Tolkien. Ma Snorri era anche un grande narratore – tanto che in lui Borges ha visto, paradossalmente, il primo antenato di Flaubert – e un poeta esperto di tutti i prodigiosi segreti della poesia scaldica, e soprattutto era un uomo del mito – se così possiamo chiamare chi, nell’atto di rammemorare le origini, ne varia e amplifica le vicende, le intreccia e le separa, ne ripropone gli enigmi, infine le vive nella scrittura con un’intensità che lascia intravvedere come gli iniziati dovevano rivivere nei misteri le vicende degli dèi. È questo forse che dà alla sua Edda, qui tradotta e commentata per la prima volta in italiano da Giorgio Dolfini, quella vibrazione inconfondibile di incantamento, quella forza sprigionante dalle immagini che ha ogni vera parola mitologica. Così il lettore avrà l’impressione di veder risorgere intatto, in tutte le sue intricate vicende, il maestoso, cupo e selvaggio mondo nordico, mentre ruota intorno al frassino Yggdrasill, dalle radici senza fine, in cicli implacabili di distruzione e rinnovamento, che esaltano e travolgono dèi benigni e maligni, elfi e valchirie, nani, streghe, giganti, eroi e animali. E tutta l’Edda di Snorri apparirà infine come una mobile contemplazione di questa smisurata ruota di eventi, nella presciente attesa del lupo Mánagarm, pasciuto della carne dei morti, annunciatore della catastrofe, che «ingoierà la luna e spruzzerà di sangue il cielo e l’aria tutta», e insieme di quel tempo nuovo in cui, ancora una volta, «la terra emergerà dal mare e sarà verde e bella e i campi cresceranno senza seme». -
I racconti delle fate
Nel 1875, sei anni prima di scrivere Pinocchio, Collodi accetta dall’editore Paggi di Firenze un incarico che dapprima lo incuriosisce e lo attrae e alla fine lo appassiona: quello di tradurre dal francese le fiabe di Charles Perrault, l’insuperato maestro di un genere che tra il Sei e il Settecento toccò il suo apice alla Corte del Re Sole, lasciandoci quei capolavori della letteratura infantile che sono ancora oggi il patrimonio fantastico di bambini e adulti, da Cappuccetto Rosso alla Bella addormentata nel bosco, da Cenerentola a Barba-blu, al Gatto con gli stivali. A queste fiabe Collodi ne aggiunse altre delle maggiori favoleggiatrici francesi del Sei-Settecento, Madame d’Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont, scrittrici di raffinata eleganza e delicata sapienza psicologica. Egli però non si limita a tradurre con impareggiabile aderenza: spesso il suo istinto narrativo lo porta a colorire e vivificare il linguaggio un po’ inamidato degli originali, mettendovi tocchi di arguzia toscana e di spontaneità popolaresca. E la Corte di Versailles si trasferisce così, con il suo seguito luminoso, in una Toscana granducale e umile. I racconti delle fate ebbero immediato successo e segnarono una svolta nella vita dell’autore, avvicinandolo a un genere che doveva renderlo immortale. Essi vengono qui riprodotti integralmente, con le illustrazioni di Doré, e offrono almeno due motivi di grande fascino: ci restituiscono in una lingua viva, comunicativa, parlata, i vertici della favolistica europea e sono al tempo stesso una anticipazione felicissima – sul piano del talento linguistico e inventivo – della creazione di Pinocchio. -
Nuova enciclopedia
«Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale. Arturo Schopenhauer era così scontento delle storie della filosofia, che si fece una storia della filosofia sua propria e per suo uso personale». Con questa lapidaria dichiarazione Alberto Savinio ci introduce a questa sua Nuova Enciclopedia, a cui lavorò negli anni Quaranta e che solo ora vede la luce. Fin dalle prime pagine, dove spiccano gloriosamente le voci «Abat-jour» e «Abbiategrasso», si ha limpressione di trovarsi di fronte allopera che, proprio per lirriverente paradossalità della sua forma, più di ogni altra è adatta a rappresentare la totalità Savinio, questo intricato coacervo di talenti che nascondeva uno dei rari grandi scrittori italiani di questo secolo. E se ormai tanti, in Italia e fuori dItalia, concordano nel riconoscere il magistero del pittore e del narratore visionario, non altrettanta attenzione si è fatta finora a un lato di Savinio che si manifesta allo stato puro in queste pagine: la sua strepitosa intelligenza, lacutezza di un pensiero senza timori, capace di passare agilmente dal ridicolo quotidiano al ridicolo universale, dalla metafisica ai segreti dello stile, dai lapsus alla cronaca nera, da Apollo a Joséphine Baker, dal commento alle frasi del portiere a un frammento dei Presocratici. Animata in ogni voce da una stupefacente mobilità di spirito, questa enciclopedia così irriducibilmente personale ci si presenta come un perfetto autoritratto, ma anche come un ritratto della nostra civiltà, giunta a quel punto di saggezza disperata in cui deve riconoscere che il suo sapere non può più appellarsi al sigillo di ununità, mentre lunica possibilità ancora intentata è quella di disperdersi amorosamente nei più disparati e divergenti meandri, senza fingere una coerenza da lungo tempo abbandonata. Unico filo comune fra queste «voci» rimane allora, forse, una ingiustificata serenità e ironia, una disponibilità al comico che aiuta nella grande opera di trasporre ogni scienza in gaia scienza. Ma è Savinio stesso, alla voce «Enciclopedia», a esporre con la massima lucidità le ragioni di questa sua impresa, nella quale molti, si può sperare, riconosceranno lenciclopedia oggi più usabile e certamente lunica che riservi sicure sorprese: «Oggi non cè possibilità di enciclopedia. Oggi non cè possibilità di saper tutto. Oggi non cè possibilità di una scienza circolare, di una scienza conchiusa. Oggi non cè omogeneità di cognizioni. Oggi non cè affinità spirituale tra le cognizioni. Oggi non cè comune tendenza delle conoscenze. Oggi cè profondo squilibrio tra le conoscenze. Questa la ragione di quella crisi della civiltà denunciata prima da Spengler e poi da Huizinga. E come ci può essere equilibrio, come ci può essere civiltà che significa omogeneità nella polis se alcuni uomini pensano alla curvatura dello spazio e al sesso dei metalli, e altri contemporaneamente pensano allarchitettura tolemaica delluniverso? E poiché daltra parte non cè speranza che idee così lontane possano riunirsi e fondersi, conviene rassegnarsi a una crisi perpetua e sempre più grave della civiltà. Rinunciamo dunque a un ritorno alla omogeneità delle idee, ossia a un... -
Divertimento 1889
Come fa un re a evadere dai suoi doveri regali, che gli si manifestano poi per lo più come opprimente burocrazia? È la domanda che balena nella mente non certo complessa di Umberto I, appena gli si presenta l’occasione di trattare direttamente un affare vantaggioso per le incerte finanze della Real Casa, e in più con una misteriosa e altolocata signora tedesca, e oltre tutto in Svizzera, e in incognito! Le delizie dell’incognito sono infatti per lui quanto di più esotico e inebriante possa riservargli la vita: così, ben deciso a difendere la sua temporanea libertà, assistito da un colorito seguito di personaggi di Corte, senza i quali non potrebbe neppure muoversi, Umberto I traversa impavidamente il Gottardo, gettandosi in questa avventura finanziaria e galante, che minaccerà poi di travolgerlo in una sequenza di intrighi e incontenibili equivoci, coinvolgendo persone del tutto impreviste, dall’importuno Kaiser tedesco a un altrettanto importuno giornalista italiano che si spaccia per inglese. Mai Morselli si è abbandonato così felicemente al suo estro inventivo, escludendo con fermezza qualsiasi sottofondo di ‘tesi’, come in questo romanzo, unica operetta italiana che sembra meritare la musica di Offenbach, deliziosa, esilarante divagazione fra «caminiere, fioriere, corriere e vaporiere», fra ministri, archiatri, ufficiali prestanti e dame gentili, dove oggetti e personaggi sono simultaneamente décor e protagonisti, e dove dell’ispido protagonista, Umberto I, viene offerto un ritratto di tale acutezza che gli storici potrebbero trarne grande profitto, se mai fossero disposti a superare i loro pregiudizi di fronte alla «letteratura». Con ritmo di implacabile sicurezza, scandendo rigorosamente il tempo delle entrate e delle uscite come un perfetto maestro di danza, volgendo gli eventi con delicatezza verso il grottesco, Morselli ha intessuto un romanzo che tiene fede in ogni senso al suo titolo e sembra restituire discretamente alla vita un mondo che forse merita di essere ricordato soprattutto per queste sue imprese pienamente futili. Tutti i romanzi di Guido Morselli sono apparsi postumi presso Adelphi a partire dal 1974.