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Misteri pagani nel Rinascimento
Misteri pagani nel Rinascimento è il capolavoro di Edgar Wind, libro ormai classico, che ha permesso di leggere per la prima volta in tutta la sua complessità il senso di alcune delle opere più famose e splendide del Rinascimento dalla Primavera di Botticelli allAmor sacro e profano di Tiziano e a tante altre di Michelangelo, Correggio, Raffaello. Intorno a queste opere Wind è riuscito a ritessere la rete di pensieri, allusioni ed enigmi che le accompagnava, le ha restituite al loro luogo naturale, che è larea immensa del neoplatonismo rinascimentale, e partendo da esse e dai testi di Ficino, Pico e altri neoplatonici, ha ricostruito quello sconcertante fenomeno che fu la riscoperta dei misteri pagani. Questi furono rielaborati in una «filosofia dei misteri», che avrebbe poi continuato per secoli, richiamandosi alla tradizione ermetica, a percorrere segretamente la storia del pensiero europeo. Nel suo complesso, lopera di Wind rappresenta, a un livello sommo, la lignée che in questo secolo ha rivoluzionato lo studio dellarte, quella della cosiddetta «scuola iconologica»: Giehlow, Warburg, Saxl, Panofsky. Ma è in particolare al geniale spirito di Aby Warburg, del quale fu collaboratore e amico, che si ricollegano le ricerche di Wind, per la capacità di aprire fulmineamente, con un lieve tocco, prospettive impensate entro un vastissimo repertorio di temi e discipline, sicché mai come nei loro studi la storia dellarte è riuscita a essere anche storia del pensiero e storia della civiltà. Misteri pagani nel Rinascimento è apparso per la prima volta nel 1958, ed è stato più volte riveduto. -
Le sorelle Brontë. Opera comica in quattro atti
«Sorprendente libretto in dialetto italo-alessandrino, Le sorelle Brontë Da Alessandria DEgitto ci giunge questo libretto, dalla città che per millenni produsse barbariche o preziose creature della ibridazione. Fra gli ultimi frutti del luogo è una lingua sviluppatasi dopo il 1880 nellambiente della servitù italiana ivi operante. Cameriere genovesi, chauffeur triestini, lavorando nelle case di ricchi cosmopoliti, i quali usavano parlare con i domestici in un italiano deformato e allagato da altri lessici, hanno prodotto naturalmente, attraverso una sottile contaminazione di linguaggi, una lingua franca presto cristallizzatasi in piena autonomia. Diverse sono le ragioni per cui loperina in questione è destinata fra noi a folgorante carriera. Una di queste è la geniale novità che impone a ogni battuta di essere cantata sul ritmo e la melodia di note canzoni popolari, vecchie e nuove, tali da evocare nel lettore o nello spettatore risonanze imprevedibili; le quali risonanze o echi del proprio passato vengono ad aggiungere la loro incongruenza allintrinseca assurdità di questa lingua È la storia folle e improbabile delle sorelle Brontë, le tre sorelle romanzieri del lontano Yorkshire. È una delicata, pura e mai volgare dissacrazione» (Rodolfo Wilcock). Il gergo italo-internazionale con cui i ricchi cosmopoliti di Alessandria dEgitto si rivolgevano alla servitù italiana è il linguaggio irresistibilmente comico che, sulle note di canzonette popolari, ci rende finalmente assurde e umane le sorelle Brontë. -
Il pellegrinaggio in Oriente
Il pellegrinaggio in Oriente (1932), il più perfetto dei romanzi brevi di Hesse e quasi lo stemma di tutta la sua opera, racconta un’esperienza unica e inaudita, che ha luogo, non a caso, in quel «periodo torbido, disperato, e tuttavia così fertile che seguì la prima guerra mondiale». Uniti in una misteriosa Lega, le cui regole paradossali e sapienti ripetono – riflesse nello specchio del Bund romantico – quelle di antichi gruppi iniziatici, uomini disparati si mettono in cammino verso una meta che non è un luogo ma una dimensione altra della realtà. Ricercatori del tao e della kundalini, silenziosi aiutanti, il pittore Paul Klee, lo stesso Hermann Hesse, che è il protagonista, e tanti altri personaggi partecipano a questo singolare viaggio che non ha certo inizio con loro ma è un incessante movimento che percorre il tempo da sempre, e in cui tutti i nomi della storia possono comparire quali momentanei compagni. Ma questo è solo il primo dei molti e conturbanti segreti che incontrerà il lettore nei meandri di una favola che insegna un nomadismo radicale da una realtà che ci è imposta verso un’altra, sfuggente, beffarda e piena di tranelli, che però poi si rivelano essere mezzi pedagogici di un violento svezzamento, usati per dissolvere le ultime, tenaci resistenze al viaggio senza ritorno verso Oriente. Non meraviglia – dato questo schema e la felicità con cui è sviluppato – che il piccolo libro sia stato riscoperto ed esaltato in questi ultimi anni da tanti che hanno sentito di soffocare nell’aria in cui erano nati. -
La religione dei cinesi
Fra i grandi sinologi di questo secolo, Marcel Granet ha lasciato un insegnamento che appare oggi sempre più attuale. Nelle sue interpretazioni il passato della Cina viene presentato per la prima volta come fatto totale, dove gli aspetti del culto, della lotta politica, del pensiero, della mitologia e della vita sociale si collegano fra loro punto per punto, in accordo con quel carattere di peculiare compattezza che definisce la civiltà cinese. Il Confucianismo, il Taoismo e, più tardi, il Buddhismo cioè le grandi religioni che si perpetuano in Cina fino ai tempi moderni vengono così ricondotti, nelle loro forme e nelle loro forze, al grande fondo cinese, che è restato sorprendentemente costante, dietro tutti i violenti mutamenti della storia. La religione dei Cinesi è in tale senso una sintesi preziosa; ma in questo libro apparirà evidente anche unaltra qualità di Granet: il suo dono di scrittore. Con una prosa duttile e sapientemente calcolata, egli riesce a delineare in pochi capitoli un quadro dassieme della storia religiosa dei Cinesi, dalle origini fino agli Anni Venti del nostro secolo, cioè fino al momento della stesura del libro, e a farlo vivere davanti ai nostri occhi con levidenza di un ritratto memorabile: il ritratto di un popolo, di una intera civiltà. La religione dei Cinesi è stato pubblicato per la prima volta nel 1951. -
Visita a Rousseau e a Voltaire
Il giovane Boswell, nel corso del suo grand tour del 1763-1765, ha uno scopo che gli sta a cuore non meno delle visite alle varie corti d’Europa: conoscere personalmente i due astri intellettuali della sua epoca, Voltaire e Rousseau, che vivevano allora in più o meno volontariato confino in Svizzera, a poca distanza l’uno dall’altro. Due esseri opposti, egualmente difficili da avvicinare, con i quali Boswell, grazie alla sua straordinaria capacità di farsi benvolere, riuscì subito a stabilire un contatto. Il suo racconto di tali incontri è un esempio di eccelso giornalismo: da questo botta e risposta, che passa rapidamente dalle minuzie quotidiane ai problemi più vasti, ricaviamo un’impressione vivissima della maniera e del tono dei due scrittori: Rousseau, ipocondriaco, malato, vive in una casetta, accudito da Thérèse Le Vasseur (che dimostra subito un certo faible per il giovane visitatore inglese), parla di donne e di libri, di amicizia e di religione, con scatti d’umore che lo fanno passare dalla magnanimità all’intolleranza verso il suo interlocutore, il quale, per parte sua, resiste indefesso a ogni insolenza; Voltaire, mondano e mordace, nel suo castello di Ferney, parla di politica e di letteratura inglese senza perdere un’occasione per lanciare le sue frecciate, neghittoso e beffardo di fronte agli inviti a occuparsi dell’anima che il suo candido ospite si sente in dovere di rivolgergli. Con arte quasi inconsapevole, con un piglio di sorprendente modernità, Boswell è riuscito ad abbozzare un ritratto memorabile dei due più moderni fra i suoi contemporanei. Visita a Rousseau e a Voltaire è tratto da Boswell on the Grand Tour: Germany and Switzerland, uno dei numerosi volumi pubblicati a partire dal 1928 e comprendenti, fra l’altro, carte inedite. -
101 storie zen
«Lo Zen non è una setta ma un’esperienza». Da questa esperienza, che ha al suo centro la nozione di satori, ""illuminazione"""", è nata una letteratura immensa, dalle numerose ramificazioni, a partire dal sesto secolo in Cina (sotto il nome di Ch’an) e a partire dal dodicesimo secolo fino ai nostri giorni in Giappone (sotto il nome di Zen). Ciò che in Occidente ha finito per presentarsi spesso come moda banale è dunque una ricchissima tradizione religiosa, senza la quale è impensabile una grande parte della filosofia, della letteratura e dell’arte estremo-orientali. Per avvicinarsi a questo intricato complesso poche introduzioni sono altrettanto giuste nel tono, svelte e amabili come questa raccolta di storie Zen curata da Nyogen Senzaki e Paul Reps. Il lettore vi troverà una scelta dalla """"Raccolta di pietre e di sabbia"""" di Muju, maestro giapponese del tredicesimo secolo, e da altri testi classici Zen, sino alla fine del secolo diciannovesimo. Con sobrietà e grazia Senzaki e Reps hanno saputo presentare in rapidi tratti apologhi capitali o ignoti, intrecciandoli con felice precisione, in modo che il lettore possa entrare in contatto immediato con le grandi questioni (e con le grandi soluzioni) dello Zen, contatto che troverebbe ben più difficilmente affidandosi a ponderosi manuali, contrari già nella loro costruzione allo spirito Zen – per eccellenza imprendibile e paradossale, irridente verso ogni sapienza soddisfatta, spesso nascosto dietro gli schermi del vuoto e del non sapere."" -
Ewald Tragy. Rhacconto
Ewald Tragy è un «ritratto dell’artista da giovane», e in clima di fine secolo, opera di un Rilke giovanissimo e già compiutamente scrittore, che osserva come attraverso un potentissimo cannocchiale il momento del distacco dell’insofferente poeta Ewald Tragy dalla sua famiglia e delle sue prime esperienze nella vita indipendente, da artista, a Monaco. C’è una sorprendente ironia e rilevata nettezza nei particolari di questa prosa ‘segreta’ – che Rilke scrisse nel 1897 ma fu pubblicata solo dopo la sua morte, in un’edizione privata del 1927 poi ristampata più volte nel dopoguerra – tanto che la si legge come un primo delicato pannello che introduce alle più vaste e desolate orchestrazioni dei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Rilke, questo grande poeta la cui opera oggi, dopo una certa eclissi, ha acquistato ormai un nuovo fascino e viene perciò riscoperta anche dai lettori più giovani, dimostra in queste pagine di aver seguìto con piena lucidità, con una strana freddezza, quasi, i propri primi passi nel mondo della letteratura, che qui già sottopone a una rapida e sferzante parodia. E sono passi dove si riconoscono molti tratti di quello che sarebbe stato il suo destino: estraneo a ogni ambiente e partecipe di tutti, vagabondo, prigioniero di una sensibilità che con lui nasce e con lui muore, avvolto in un bozzolo opalescente di letteratura – come lo era quell’Ewald Tragy che egli ci presenta, con un lieve sorriso, e una vaga tenerezza, in questo memorabile ritratto. -
Sull'utilità e il danno della storia per la vita
Incubo e idolo dell’età moderna, la storia – come storicismo e senso storico – non è solo una conquista dello spirito illuminato, ma una «febbre divorante», una «virtù ipertrofica» che può essere rovinosa: questo il punto di partenza di Nietzsche non ancora trentenne nell’affrontare il tema della seconda «Considerazione inattuale», che fu pubblicata nel 1874. Più di cento anni sono passati da allora e l’attualità clamorosa di questo Nietzsche perennemente «inattuale» appare sempre più evidente. Le pagine che qui leggiamo hanno trovato e trovano conferme continue, non più soltanto negli atteggiamenti della cultura, ma in tutti i meccanismi della società. Il passato, ormai disponibile in tutte le sue forme, anche le più remote, minuziosamente archiviato e setacciato, non è per ciò divenuto più vivo né aiuta la vita – anzi appare sempre più come una immane e oppressiva allucinazione. E così è, argomenta Nietzsche, proprio perché il senso storico non permette lo scontro bruciante con le forze del passato, ma vuole inglobarle in sé come reliquia esotica, con ingiustificato sottinteso di benevola superiorità – e quindi cela un movimento ostile alla vita, tende a svellere la sua stessa base, che è quella «cosa sola per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico». -
Per chi suona la cloche. Un album per degli anni Venti
Figlia di un re del dentifricio, grassoccia, calata dal suo Middle West nell’Europa dei «favolosi Anni Venti», avida di ogni novità, di grandi sarti e memorabili parties, ma soprattutto di uomini poco raccomandabili – che sceglie generalmente fra boxeur, gigolo e toreri –, la sconsolata vedova Maisie si lancia in sgangherate avventure, che vengono rievocate a più voci, dopo il suo funerale, da figli, parenti e amici. Imbarazzati da tale invadente personaggio, tutti devono però ammettere, a denti stretti, che Maisie, nella sua irrimediabile ineleganza e voracia, era l’unica fra loro che sapesse veramente obbedire al grande imperativo dell’epoca: «divertirsi». Angus Wilson, scrittore dall’infallibile orecchio per i toni sociali, ha costruito su questo pretesto un delizioso balletto – dove le quinte sono Bal Nègre e Cecil Beaton, Josephine Baker e Dékobra, Noel Coward e Cocteau, Isadora Duncan e Gertrude Stein –, un rapido libro dove il lettore, con ogni sforzo, non riuscirà a non ridere, aiutato anche dai pungenti disegni di Philippe Jullian. Pubblicato per la prima volta nel 1953, Per chi suona la cloche è la felice parodia non soltanto di un’epoca e di un costume, ma di un fenomeno che si sarebbe manifestato solo molto più tardi: la trasformazione dei «favolosi Anni Venti» in una faccenda eminentemente di antiquariato turistico. -
Potere e sopravvivenza. Saggi
Pochi scrittori hanno oggi il grande pregio di Elias Canetti. Romanziere, saggista, drammaturgo, autore di un ricchissimo diario, la sua opera, a partire dagli Anni Trenta, è tutto un ostinato e ossessivo combattimento con alcuni grandi temi: la massa, il potere, la metamorfosi, il rifiuto della morte, riflessi ogni volta in forme diverse, affrontati nei loro più elusivi segreti, colti nelle più varie manifestazioni, illuminati dall’interpretazione dei testi più diversi: antropologici, letterari, storici, filosofici. In questo volume, che raccoglie scritti recenti di Canetti, il lettore troverà prose dense e fulminee, dedicate, fra l’altro, agli ultimi anni di Tolstoj, alla fascinazione di Karl Kraus – che ebbe un’influenza capitale sulla giovinezza di Canetti, a Vienna –, ai folli progetti architettonici di Hitler, al senso segreto dell’insegnamento di Confucio, al diario di un testimone di Hiroshima – infine al tema che dà il titolo al libro e segretamente ricompare in tutti questi saggi: il potere e la sopravvivenza. Insieme narratore e pensatore, Canetti concentra qui in poche pagine e in una prosa straordinariamente incisiva, una riflessione e un’esperienza lungamente maturate, che lasciano una traccia indelebile su tutti gli argomenti che toccano. -
La Bibbia del Belli
Nell’opera del Belli, la cui cupezza nichilistica e insolubile ambiguità appaiono col tempo sempre più evidenti, i molti sonetti dedicati a temi delle Sacre Scritture formano una sorta di itinerario nascosto. Raccolti ora, per la prima volta, questi testi ci offrono l’occasione di ripercorrere, tappa per tappa, la storia sacra nella prospettiva strepitosamente comica e feroce del poeta. E ciò che certamente più colpirà il lettore di oggi sarà la sconcertante commistione fra uno straordinario acume teologico, che fa individuare al Belli con sicurezza tutti i punti più delicati della dottrina cristiana, e una furia distruttiva che non ha eguali nella poesia italiana dell’Ottocento, furia congiunta a quella inventività linguistica che permette al Belli di mettere alla temibile prova del suo romanesco i fatti più grandiosi della storia sacra senza affatto diminuirli, ma anzi quasi esaltandone la beffarda incommensurabilità con i fatti della cronaca umana. Questa raccolta, corredata, oltre che da un’introduzione anche dal saggio «La via dell’omo e il quaresimale del Belli», da note esplicative dei termini romaneschi e da un ampio commento, è stata curata da Pietro Gibellini. -
Gli dei dei germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava
Questo libro non ci offre soltanto un prezioso quadro di una delle mitologie più affascinanti e relativamente meno conosciute, pur essendo a noi vicina: la mitologia nordica. In esso il grande studioso francese ha dato una delle più convincenti applicazioni della sua famosa teoria della tripartizione funzionale, teoria che ha avuto un ruolo radicalmente innovatore nello studio delle antiche religioni indoeuropee, paragonabile a quello delle Strutture elementari della parentela di Lévi-Strauss in rapporto agli studi sulla parentela. Gli intricati conflitti fra gli Asi e i Vani, le due grandi famiglie divine che abitano il pantheon nordico, vengono così ricondotti a una necessità strutturale e l’ambiguo significato di molte divinità viene illuminato dal confronto con le divinità funzionalmente corrispondenti in altre religioni indoeuropee. Attraverso l’analisi delle varie forme di sovranità, quali si manifestano nelle figure divine, vediamo così delinearsi il profilo di una civiltà intera, e possiamo osservare da vicino l’origine e il fondamento di certe costanti – dal senso della fatalità a quello della fedeltà tribale, all’onore guerresco, alla magia nefasta –, che continueranno poi a riverberare nel corso di tutta la storia germanica. -
Sull'avvenire delle nostre scuole
Queste conferenze, scritte dal ventisettenne Nietzsche nel 1872, quando era ancora professore a Basilea, contengono alcune delle affermazioni più radicali e rivoluzionarie contro il sistema della cultura moderna che mai siano state enunciate. Nel suo tentativo di «indovinare l’avvenire» fondandosi, «come un augure, sulle viscere del passato», Nietzsche è riuscito qui a individuare il nesso fra l’educazione scolastica, anche nelle sue zone più apparentemente disinteressate, e l’utilizzazione della forza-lavoro intellettuale da parte della società e ai fini della società stessa, che sono poi quelli di «allevarsi quanto prima è possibile utili impiegati, e assicurarsi della loro incondizionata arrendevolezza». Di fronte a tale brutale intervento, ogni cultura che non voglia identificarsi con l’ordine costituito dovrà agire contro di esso. Dietro la spinta verso una diffusione sempre maggiore della cultura, in cui riconosceva uno dei «dogmi preferiti dall’economia politica di questa nostra epoca», Nietzsche vide dunque un proposito di oppressione e di sfruttamento, insomma l’ombra stessa dell’«economia politica» nel suo senso più generale. Apparirà perciò giustificato leggere questo testo anche come una preveggente analisi dell’industria culturale – e lo storicismo, qui attaccato frontalmente come il maligno incanto che riesce a «paralizzare» ogni impulso a mettere la cultura in immediato contatto con «l’ambiguità dell’esistenza», si rivelerà essere appunto l’agente di un enorme e nefasto processo sociale tuttora in corso. -
Il fisiologo
Una intera, folta letteratura, quella dei ‘bestiari’ – il cui fascino oggi è ridiventato acutissimo, basti pensare alla Zoologia fantastica di Borges – risale a questo prezioso libretto, che ha avuto nella nostra civiltà un’influenza capillare, di cui ritroviamo le tracce nelle grandi opere dell’arte medioevale, in tante immagini poetiche tradizionali, infine nella selvaggia ‘storia naturale’ delle fiabe, dei proverbi e dei modi di dire. Scritto, secondo l’ipotesi più accreditata, in Alessandria, e in ambiente gnostico, fra il II e il V secolo dopo Cristo da un autore ignoto, Il Fisiologo si articola in capitoletti stupendamente concisi, che descrivono i «costumi» di vari animali, comuni o immaginari, e le proprietà di alcune pietre: incontriamo così la iena ermafrodita, il castoro che si strappa i testicoli, la pantera dalla voce profumata, l’unicorno allattato dalla vergine, la vipera dal volto di donna che strappa la testa al maschio dopo la copula – e tante altre meraviglie, presentate come fatti elementari e indiscutibili. Ma non questo soltanto ci dice il Fisiologo: ognuno dei caratteri di cui parla è infatti anche una cifra simbolica, che permette di passare a significati ulteriori, enigmi divini e infernali, oscuramente scritti sul corpo della natura. E in questa ‘lettura’ la dottrina cristiana assume spesso una coloritura gnostica e sembra combinarsi con i misteri greci ed egizi. Il lettore moderno troverà perciò in queste pagine non soltanto una purissima delizia letteraria e un inesauribile oggetto di curiosità, ma l’occasione per risalire alle origini di immagini che, giunte a noi come segni del mostruoso, del grottesco, del superstizioso e del ‘fantastico’, celano un sorprendente spessore di significati simbolici. -
Vite di Paolo, Ilarione e Malco
Quando, nella seconda metà del secolo IV, il dotto e iroso Girolamo si accinse a scrivere le vite dei tre monaci Paolo, Ilarione e Malco, da circa cento anni ormai i deserti dellEgitto e della Siria erano stati invasi da laceri abitatori, sparsi in grotte, montagne, buche, crepacci, esposti ai venti, ai demoni e alle belve, atleti di una nuova virtù e di una nuova regola di vita, che si opponevano radicalmente a quelle del morente mondo pagano. Girolamo apparteneva appunto a tutti e due quei mondi: da una parte vigorosissimo propugnatore della fede cristiana, dallaltra intellettuale intriso in ogni fibra della cultura classica, sicché per lui il peccato più temibile e più amato era quello di rimanere pur sempre «ciceroniano». Eppure, avvicinandosi a quel nuovo genere letterario, popolare e naïf, che era la vita dei santi, Girolamo seppe mettere tutte le sue astuzie e raffinatezze di scrittore al servizio di una verità che doveva invece presentarsi come unanonima favola, una leggenda ancora palpitante di storia. Con perfetta concisione, con grande senso del concreto, con ricca capacità evocativa del fantastico, Girolamo è riuscito a chiudere in poche pagine tre vicende diversamente esemplari e affascinanti, che rimangono fra le più memorabili di quella vivissima letteratura che accompagnò lo svilupparsi del monachesimo orientale, ponendosi, per così dire, sulla soglia di tutta la nostra civiltà. -
La nascita della filosofia
Quello che si incontra comunemente, negli studi odierni sulla filosofia greca, è il tentativo di restituire contenuti remotissimi da noi con gli strumenti più moderni, condizionati dalle formule e dai metodi odierni della ricerca storica, in breve con il linguaggio filologico. Qui invece Giorgio Colli prova a far riemergere il periodo culminante della Grecia – il settimo, il sesto, il quinto secolo a.C. –, il più lontano da noi e dalla nostra comprensione, senza suggerire approcci specialistici. L’accessibilità del suo modo di esporre è raggiunta mediante un’inversione di prospettiva: non sono gli occhi del presente a guardare quei secoli, rimpiccioliti dalla grande distanza, e neppure gli occhi del quarto secolo a.C., di Aristotele, ma al contrario si tenta di evocare uno sguardo «alle spalle» di quei secoli, uno sguardo gettato dagli dèi omerici e pre-omerici. In questo spingersi all’indietro, verso un’antichità dal profilo incerto, l’origine della filosofia greca, questo evento misterioso, non è ricacciata in un passato più lontano, ma viene riportata al contrario a un’epoca assai posteriore, è un prodotto mediato che si lega al nome di Platone. Prima c’è l’età dei sapienti. Quando nasce la filosofia, la parabola dell’eccellenza greca ha già iniziato il suo declino. E questa crisi decisiva è anteriore anche a Euripide e a Socrate, è una frattura, un indebolimento che sono interni al mondo dei sapienti, che solo attraverso questo si decifrano. -
Il dottor Semmelweis
Prima di diventare Céline, cioè uno degli scrittori grandissimi del nostro secolo, Céline fu lo studente di medicina Louis-Ferdinand Destouches. Come tale dedicò la sua tesi, nel 1924, alla vita di uno degli eroi scientifici dell’Ottocento: Ignazio Filippo Semmelweis, il debellatore dell’infezione puerperale – che falciava allora migliaia e migliaia di vite – grazie a una scoperta enorme, eppure semplicissima: osservò che le puerpere venivano visitate dai medici che avevano appena sezionato cadaveri e non pensavano certo a lavarsi le mani. Imponendo la disinfezione, Semmelweis si rivelò l’unico non colpito dalla mostruosa cecità del suo secolo, che trattava morte e nascita come fossero la stessa cosa. Con lo slancio entusiastico di un giovane adepto della scienza, Céline traccia in questo testo la vita di un puro, trascinato dal destino alla sua scoperta e, insieme con essa, a un clamoroso susseguirsi di incomprensioni e persecuzioni, che lo spingeranno alla follia e a una morte atroce. Ma il materiale sembra trasformarsi nel corso del libro: al destino di Semmelweis si sovrappone quello, non ancora vissuto, di Céline stesso, il suo senso costante di persecuzione e di isolamento, la sua sete di colpa e di tortura; alla prosa classica e nitida, quasi da immacolato compito scolastico, su cui il testo è costruito, si sostituisce, per squarci, la prosa forsennata del Céline maturo, scandita dai suoi prodigiosi tre puntini, abitata da quella petite musique che, una volta udita, non si può dimenticare. -
Note sul «Ramo d'oro» di Frazer
Queste Note sul “Ramo d’oro” di Frazer sono una fra le più singolari delle molte sorprese che ha offerto in questi anni, e continuerà a offrire, la pubblicazione degli inediti di Wittgenstein. In queste rapide e densissime pagine, che raccolgono una serie di postille alla grande opera di Frazer, attraverso la quale la cultura occidentale aveva preso ufficialmente atto del mondo religioso dei ‘primitivi’, Wittgenstein ha dato il suo unico contributo ‘esplicito’ all’antropologia – e anche in questo caso è riuscito a creare quel ribaltamento delle prospettive che il suo pensiero ha portato dovunque si sia mosso. Innanzitutto abbozzando una ‘antropologia dell’antropologo’ – fondata su questo assioma: «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi» – davvero sbalorditiva, se si pensa che le prime di queste pagine sono del 1931, mentre le ‘scienze umane’ hanno cominciato a porsi quel problema, peraltro in modo piuttosto goffo, solo in questi ultimi anni. Inoltre, Wittgenstein ci propone qui certe letture di fatti religiosi ‘primitivi’ che non solo mostrano come Frazer spesso desse, di quegli stessi fatti, una banale razionalizzazione ‘vittoriana’, ma in certo modo li toccano al cuore, con quella capacità di percepire e definire le esperienze più complesse e inafferrabili di cui Wittgenstein dà prova in tutta la sua opera, tanto che appare più che giustificata l’indagine condotta da Jaques Bouveresse nel saggio qui pubblicato in appendice, che tende a ritrovare, soprattutto negli scritti della ‘seconda fase’ di Wittgenstein, un vero tesoro ancora da scoprire di osservazioni antropologiche. -
La psicologia del giocatore di scacchi
«Mi piace vederli dibattersi»: così confessò, a proposito dei suoi avversari, Bobby Fischer, prima di strappare a Spassky, nel 1972, il titolo di campione mondiale di scacchi. Al di là delle spiegazioni più immediate (denaro e fama), questo libro ricerca le motivazioni segrete che hanno indotto uomini dai talenti più diversi a dedicare al gioco uno smisurato spazio mentale e pratico. L’autore non offre soltanto una psicoanalisi degli scacchi, ma ripercorre la vita dei campioni del mondo e i loro conflitti: da Morphy, che si ritirò dal gioco all’età di ventidue anni per soccombere poi gradualmente a una nevrosi, a Steinitz, che in stati allucinatori giocava con Dio, concedendogli il vantaggio di un pedone e della prima mossa, da Alechin, «il sadico del mondo scacchistico», a Fischer, un genio dalle reazioni spesso incomprensibili. Il gioco degli scacchi, che incanala, e nello stesso tempo esaspera, un’aggressività implacabile, appare infatti destinato a sviluppare fantasie di onnipotenza. Non mancano però, nel libro di Fine, anche gli «anti-eroi», che cercano di resistervi: né stupisce la difficoltà della loro lotta, ove si pensi che la teoria del gioco coinvolge anche l’ideologia, tanto che si è parlato di stile capitalistico e di Scuola Sovietica, di stile individualistico e di paura del deviazionismo. L’americano Reuben Fine, che è stato tra i massimi scacchisti intorno agli anni Quaranta e ha scritto libri fondamentali sulla teoria del gioco, esercita da decenni l’attività di psicoanalista e in tale veste incontrò Fischer adolescente, come racconta in queste pagine. -
Il principio maggioritario. Profilo storico
Molto si parla di democrazia, ma troppo poco si sa della sua storia. Questo acutissimo saggio, dovuto a uno dei maggiori storici del diritto, ripercorre le vicende di due nozioni capitali della democrazia: l’elezione a maggioranza e il dissenso. Partendo dalle formulazioni di Aristotele e del diritto romano, soffermandosi poi sulle soluzioni della Chiesa cristiana dei primi secoli e sull’apporto delle civiltà barbariche, per giungere infine ai diversi sistemi sperimentati negli Stati moderni, dall’Inghilterra alla Svizzera, dalla Polonia agli Stati Uniti, Ruffini ci mostra, in un’esposizione limpidissima e straordinariamente lucida, come il «principio maggioritario» e la valutazione del dissenso possano assumere cento volti dissimili a seconda della situazione storica in cui compaiono e come nelle loro trasformazioni si rispecchino i principali problemi teorici e pratici di ogni democrazia, problemi che anche per noi sono del tutto aperti. Pubblicato nel 1927 in pieno fascismo (e da uno dei pochissimi professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime), questo piccolo libro è un classico che deve ancora essere scoperto. Attuale oggi più che mai, aspetta dunque in certo modo di trovare i suoi lettori con questa edizione, riveduta dall’autore nella forma e arricchita di due postille sull’ONU e sul nuovo diritto di famiglia italiano.