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Ritorno in Erewhon
In Ritorno in Erewhon, pubblicato da Samuel Butler nel 1901, a trentanni di distanza dal fortunatissimo Erewhon, la satira alle idee e alle istituzioni occidentali si concentra sul cristianesimo, nella sua versione vittoriana, perbenistica e ipocrita, che Butler descrive con ineguagliata causticità e irriverenza. È laltra faccia dellutopia negativa di un grande misantropo, che dà libero corso alla sua capziosa inventiva teologica e morale, al suo incontenibile impulso a combinare, ibridare le idee, a deformare i paradigmi della vita sociale. Attraverso una successione di scene, intrighi e divagazioni di irresistibile comicità, Butler ci sottopone sottilmente a una salutare diseducazione: il nostro mondo, visto con occhio estraniato grazie allartificio del viaggio immaginario, rivela i suoi aspetti più assurdi e maligni. -
Lettere spirituali
Perseguitato dal fascismo durante la vita, dimenticato per anni dopo la morte, Giuseppe Rensi fu una di quelle figure solitarie e testarde che talvolta attraversano la cultura italiana come corpi estranei. Ma, alla fine, sono piuttosto loro a resistere al tempo. Rensi fu sin dall’inizio un filosofo che non si adattava al suo contesto: scettico radicale, inscalfito dalla fede nella razionalità del reale, riusciva già per questo ugualmente irritante per idealisti e scientisti. Ma anche il suo scetticismo era di una specie inquieta e mobile: sempre più, con gli anni, i suoi testi si potevano leggere come pagine di un mistico senza confessione e pretese di salvezza, che rifugge dall’appellarsi alla divinità ma parla di un’esperienza più affine a quella di Meister Eckhart o dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita che non a quella dei filosofi che occupavano le cattedre da cui era stato scacciato. Grande lettore e commentatore dei classici del pensiero, prosatore terso ed efficace, Rensi ha predisposto in queste Lettere spirituali, apparse postume nel 1943, il tracciato perfetto che ci permette di ripercorrere, partendo da un punto vicino alla fine, tutto il suo cammino filosofico. -
Il monaco nero in grigio dentro Varennes. Sotie nostradamica-Divertimento sulle ultime parole di Socrate
Luigi XVI e Maria Antonietta vennero arrestati a Varennes nel 1791, mentre fuggivano. Più di due secoli prima, il medico-mago Nostradamus aveva scritto, nelle sue Centurie profetiche, una quartina che corrisponde in maniera impressionante, e sino al minimo dettaglio, a ciò che avvenne alla coppia regale. Molti hanno notato, a partire dallinizio dellOttocento, questa concordanza inspiegata. Ma solo un grande studioso come Georges Dumézil, che ha passato la sua vita in mezzo alle lingue e alle civiltà più remote, poteva avere lidea mirabile di affrontare questo enigma nella cornice di una sorta di romanzo poliziesco, dove il Dupin o lo Sherlock Holmes è evidentemente Dumézil stesso. Il risultato è questo libro (1984), sorprendente per labilità nellanalizzare una questione insolubile come per la maestria con cui questa ricerca rigorosa viene ironicamente trasposta in forma romanzesca. Lorientalista Espopondie, trasparente alter ego di Dumézil nellindagine, non vuole altro che far funzionare la ragione sino alle estreme conseguenze. Così non condivide latteggiamento di coloro che, «col pretesto di proteggersi dallirrazionale, rifiutano di registrare quelle osservazioni che lo stato delle nostre conoscenze non consente di interpretare». Al giovane amico che lo assiste nella ricerca consiglia di leggere Nostradamus come fosse Virgilio, ricostruendo il suo lessico e spiegandolo attraverso il suo stesso linguaggio. Allora la quartina di Nostradamus, come un fiore giapponese nellacqua, si espande in unimmagine compiuta, allucinatoria, e da ogni parola affiora un dettaglio di quella notte fatale della nostra storia, «come se qualcosa o qualcuno parlasse dentro di lui [Nostradamus], rivolgendosi a ciò che nel nostro cervello è predisposto e organizzato per accogliere suoni articolati e riconoscerne il senso». In unintervista di pochi mesi precedente alla sua morte, Dumézil affermava che aveva scritto questo libro «per divertirsi». Ma i giochi di un sapiente sono quanto di più serio. E Dumézil stesso lo ha lasciato intendere nella seconda parte di questo libro, che è una illuminante riflessione su un altro enigma: il significato delle ultime parole di Socrate, «Siamo debitori di un gallo ad Asclepio». Secondo Dumézil, quelle parole erano la risposta del filosofo a un sogno. Con esse, Socrate mostrava di aver capito che la sua partita era già «stata giocata, nellinvisibile che comunica col nostro mondo solo attraverso oracoli, segni, sogni premonitori». -
Ex captivitate salus
«Nelle desolate vastità di un’angusta cella», fra il 1945 e il 1947, Carl Schmitt si trovò a scrivere questo libro, il suo più intimo e personale, dura resa dei conti con se stesso e con l’epoca. Il più controverso, ma anche uno fra i più grandi giuristi del nostro tempo, guarda indietro ai suoi anni e ai secoli in cui è fiorita e sfiorita la dottrina a cui per tutta la vita si era dedicato: lo ius publicum Europaeum. Ma, per parlare di se stesso, Schmitt parla di altri, di certe figure che hanno accompagnato, più o meno segretamente, tutta la sua vita, qui evocate in pochi tratti che toccano subito l’essenziale: Tocqueville, ma anche Stirner; Kleist, ma anche Däubler; Bodin, ma anche Hobbes. Figure tra cui si formano contrasti laceranti, quelli appunto in mezzo a cui Schmitt ha operato e ha pensato. «Ho conosciuto le escavazioni del destino, / vittorie e sconfitte, rivoluzioni e restaurazioni, / inflazioni e deflazioni, bombardamenti, / diffamazioni, mutamenti di regime ... / fame e freddo, campo di concentramento e cella d’isolamento». E in quella ultima solitudine si elabora la «sapienza della cella» che parla in queste pagine pubblicate in Germania nel 1950 e mai più ristampate, per volontà dell’autore, il quale per altro considerava Ex Captivitate Salus un «libro chiave». -
La vita è altrove
Dal momento in cui Jaromil viene concepito, egli è il poeta. Così vuole sua madre, e fantastica che Jaromil sia nato non per fecondazione del marito ma di un Apollo di alabastro. Con lo stesso spirito, questa madre accompagnerà invisibilmente il figlio nel letto dei suoi amori, come lo assisterà sul letto di morte: morte di un poeta adolescente che voleva darsi tutto alla rivoluzione. Il poeta, la madre, la giovinezza, la rivoluzione: chi non sente una qualche reverenza verso queste parole? In esse avvertiamo il soffio delletà lirica, dello spirito adolescente, di ogni pretesa di innocenza. Ma questo romanzo, tanto più duro nella sostanza quanto più arioso nel suo articolarsi e agile nel suo sarcasmo, ci mostra anche il «sorriso insanguinato» dellinnocenza. Qui non si dice nulla contro la poesia in sé, ma si svela una possibilità del mostruoso che è interna alla poesia e ben pochi sanno riconoscere. E qui si mette in scena, con una precisione e una distanza che non hanno uguali, quellèra in cui «il poeta regnava a fianco del carnefice». Ora non potremo più guardare al poeta, alla madre, alla giovinezza, alla rivoluzione con occhi devoti. Ora saremo condotti per mano a constatare come, per un poeta che la morte coglierà prima dei ventanni, il supremo compimento possa anche essere la delazione. «Forse polizia e poesia vanno molto più daccordo di quanto alcuni non pensino» riflette il poeta. La vita è altrove è apparso per la prima volta nel 1973. -
Gli anni dell'attesa
Con questo libro Giovanni Macchia torna a visitare le proprie radici, le figure con cui si confrontò agli inizi della sua vita di scrittore. Alcune gli apparvero nelle aule di Palazzo Carpegna, dove aveva sede allora la facoltà di lettere di Roma. Dietro quelle alte e strette porte, che conservavano un loro disegno settecentesco, Macchia scopriva le inflessioni di una parola vaga e imperiosa, che avrebbe dominato la sua vita: letteratura. «Mi trovavo nella situazione descritta in una famosa lirica di Baudelaire. Ero anchio il bambino avido dello spettacolo e che odia il sipario». Erano gli «anni dellattesa». Così cominciano a sfilare le figure decisive, come P.P. Trompeo, che porta a lezione un libro nuovo fiammante, il Baudelaire che inaugurava la celebre collana della Pléiade. E proprio quello era lautore a cui Macchia sarebbe rimasto più fedele. O figure come Cesare De Lollis, erudito di vasta latitudine, viaggiatore fra culture «diverse per la natura del suolo e per vegetazione». In De Lollis, come poi in Macchia stesso, i fatti e le idee non si divaricano mai in una incongrua opposizione. Sempre nella costellazione della «cultura», intesa nel senso di De Lollis, come mediazione fra i severi studi storici e la percezione estetica, si disegnano i profili di Ferdinando Neri, con il suo «male della perfezione», o di Luigi Foscolo Benedetto, «in cui la impeccabile precisione filologica si allea ad un temperamento critico vivido e appassionato». Infine, in ragionata progressione, e delicatamente svincolandosi dallambito universitario, Macchia passa alle opere di quei saggisti che furono maestri della prosa oltre che della storia, e spesso usarono la forma dellelzeviro per sviluppare una preziosa variante italiana dellessay: Emilio Cecchi e Mario Praz, Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Con occhio attento alle più sottili differenze fisiognomiche, Macchia si muove fra loro come un vecchio amico, partecipe degli stessi climi della sensibilità, e quasi come un complice e continuatore, ancora una volta per una via inconfondibile, della loro opera. Questo libro di ritratti include, seminascosto, un autoritratto e insieme ci offre la prima ricognizione coerente di una zona fra le più alte della cultura italiana, tuttora ricca di suggestioni neglette, che aspettano solo di essere colte. -
Venezia salva
Da Otway a Goethe, a Hofmannsthal, la storia dei congiurati spagnoli che nel 1618 volevano impadronirsi di Venezia e distruggerla ha spesso colpito l’immaginazione di grandi scrittori. Ma soltanto con i luminosi frammenti della Venezia salva di Simone Weil la vicenda sembra averci trasmesso la sua ultima verità: «una città perfetta, che sta per essere piombata nel sogno orrendo della forza; un uomo attento che, all’improvviso, la vede e la salva». In questo «teatro immobile» il perno è Jaffier, il congiurato che tradisce i compagni e salva la città. In lui si rinnova la figura del giusto che blocca la corsa del male, consumandolo in sofferenza sulla propria testa. A fronte di Jaffier è un altro congiurato, Renaud, posseduto dal sogno della forza. «Monomaniaco, elegantissimo, spaventosamente veridico», egli conosce con piena lucidità l’articolarsi della forza nelle cose e nella mente. Il conflitto fra questi due esseri, mentre sullo sfondo intravediamo il «roseo gioiello» di Venezia, è uno dei rarissimi nel teatro del nostro secolo che possa essere definito tragico. Qui la parola distruzione, uscendo da ogni vaghezza, assume connotati precisi come quelli delle pietre di una città. Qui possiamo constatare, una volta per tutte, come la parola d’ordine degli oppressori sia sempre la stessa: «Noi facciamo la storia». -
Il formidabile esercito svizzero. La Place de la Concorde suisse
«Non sapevo nemmeno che esistesse»: così dice una anonima voce di italiano, a proposito dell’esercito svizzero, nelle prime righe di questo libro. Ma l’esercito svizzero esiste, ed è anche una ben strana creatura. Gli israeliani hanno modellato il loro esercito, di ben nota efficienza, su quello degli svizzeri, che non fanno guerre da cinquecento anni. L’invenzione militare degli svizzeri si chiama Principio del Porcospino: arrotolarsi a palla e sfoderare gli aculei. Non attaccare mai, ma mostrare all’attaccante che non avrà vita facile. Così è vero che «non c’è praticamente un paesaggio in Svizzera che non possa far vendere un calendario». Ma è anche vero che «non c’è praticamente un paesaggio in Svizzera che non sia pronto a eruttare fuoco e fiamme per respingere un invasore». Per accertare tutto questo, e tanti altri dettagli illuminanti, McPhee ha scelto la via più diretta: partecipare alle esercitazioni di un reparto militare svizzero e raccontarci quello che ha visto. Sottomettendosi alle regole di questo singolare club, che riunisce in una solidarietà per la vita banchieri e odontotecnici, autisti e ingegneri civili, guide alpine e cuochi, ha scoperto le nervature nascoste che danno una rara compattezza a questo paese plurilingue e geloso delle proprie contrastanti peculiarità. Tutta la Svizzera confluisce nel suo esercito come i ghiacciai convergono da otto direzioni «congiungendosi in un gelido incrocio» che si chiama La Place de la Concorde Suisse. E «questo luogo che non avrà mai bisogno di essere difeso rappresenta ciò che la Svizzera difende». -
Tutti i racconti. Vol. 1: Felicità-Garden party
Agli inizi del secolo una giovanissima neozelandese, Katherine Mansfield, ancora un po’ sperduta in Inghilterra, e provvista solo di «quel tragico ottimismo che troppo spesso è l’unica ricchezza della gioventù» cominciò a scrivere storie comuni di donne (e di uomini) comuni – continuando febbrilmente sino alla morte, che l’avrebbe raggiunta, trentaquattrenne, nel 1923. Letti con l’occhio di oggi, i racconti della Mansfield ci appaiono come una di quelle grandi e inesauribili scoperte che in pochi anni mutarono la fisionomia della letteratura: come il primo Joyce, i romanzi di D.H. Lawrence, la scrittura della Woolf – tre scrittori con cui la Mansfield fu in rapporto, oscillando fra l’ammirazione e l’ostilità. Condivideva con loro la testarda volontà di porre un’esigenza assoluta alla letteratura, ma ancor più di loro la Mansfield era esposta alle correnti infide, alle maligne unghiate della vita, che continuava ad apparirle «sotto le spoglie di una cenciaiola da film americano». E forse proprio per questo la Mansfield ha saputo far parlare nei suoi racconti, più di ogni altro scrittore moderno, la precarietà: come spasimo, fitta, angoscia fulminea, e insieme come meraviglia, ingiustificata estasi, pura percezione. La psicologia qui non ha bisogno di essere dichiarata, ma è assorbita nell’immagine guizzante, nella pulsazione dell’attimo. E la felicità improvvisa, come l’infelicità sorda, sparse in ogni momento e in ogni vita, rare volte ci sono venute incontro con tale intensità, eppure sottovoce, come in queste pagine della Mansfield, «grande abbastanza da dire quello che tutti sentiamo e non diciamo». La presente edizione, divisa in due parti, è la prima completa dei racconti di Katherine Mansfield. -
Confessioni estatiche
Subito in apertura di questo libro Martin Buber volle precisare quale impresa azzardata e preziosa si era proposto nel comporlo: «Queste testimonianze di uomini e donne su qualcosa che essi vissero come esperienza sovrumana non sono state raccolte allo scopo di darne una definizione o una valutazione, ma perché in esse limpeto dellesperienza vivente, la volontà di dire lindicibile e la vox humana hanno creato ununità memorabile. Di questi elementi mi è sembrato degno di essere ripreso ciò che testimoniava, o recava in sé, il segno della parola». In questa voce incontriamo una «bellezza diversa da quella estetica». E, a quel punto, aggiungeva Buber, «nulla so più di gradi, né dellordine gerarchico degli spiriti. Ecco Plotino il Sublime e Attar, il più audace dei poeti; ecco Valentino, il demone segreto del cambiamento di unepoca; ed ecco Ramakrishna, per il cui tramite tutto lo spirito indiano si è di nuovo svelato ai giorni nostri; ecco Simeone, lamico e cantore di Dio dellèra bizantina, e Gerlach Peters, il suo fratello olandese, giovane e lieto di morire; e qui, accanto a loro, ecco Alpais, la pastorella le cui parole quasi mi sembrano troppo accorte; e Armelle, la selvatica serva contadina; e i Camisardi, che mi confidano con rette parole peccati e redenzioni; ed ecco ancora le candide suore innamorate seguite dai goffi borghesi che balbettano le loro storie fantastiche, Hans Engelbrecht e Hemme Hayen. Eccoli qui, uno accanto allaltro, uno con laltro, riuniti nella comunità di coloro che hanno osato raccontare quellabisso; io vivo con loro, ascolto le loro voci, la loro voce: la voce delluomo». Nato come antologia di mistici, proposta da Buber nel 1907 alleditore Diederichs, che lo pubblicò nel 1909, modificato da Buber per ledizione del 1921 (a cui la qui presente si attiene), questo libro diventò dunque una forma senza precedenti né conseguenti, un testo dove una voce sola parla attraverso lingue e stili ed epoche molteplici dellesperienza che più di ogni altra sfugge alla parola: lestasi. Per capire come queste pagine possano trasformarsi in un vademecum insostituibile basterà accennare a due loro lettori. Da una parte Jorge Luis Borges, che usava dire di aver scoperto lessenziale di quanto sapeva sulla mistica dalle Confessioni estatiche. Dallaltra parte Robert Musil, che nei mirabili «dialoghi sacri» fra Ulrich e Agathe dellUomo senza qualità attinge a piene mani da queste pagine, come se la voce che parlava ugualmente in Plotino e in Armelle proseguisse senza ostacolo dove i due fratelli ricongiunti si introducono all«altro stato», nella persuasione di «appartenere non soltanto al mondo vivo e tumultuoso, ma anche a un mondo diverso che aleggiava nellaltro come un respiro trattenuto». -
Il linguaggio dei sentimenti
Marcel Granet e Marcel Mauss, due maestri della ricerca antropologica del nostro tempo, hanno lasciato un insegnamento oggi estremamente attuale. Dopo che l’ondata dello strutturalismo aiutò a rimettere in luce l’opera iniziatrice di questi due studiosi, oggi appaiono ancora più chiari molti temi che nei loro studi andavano, già allora, oltre lo strutturalismo. In questo e in altri vi è, di fatto, una singolare concordanza di atteggiamento e di procedimento fra Mauss e Granet, anche se il primo dedicò i suoi lavori a una sorta di etnografia generale ‘per campioni’, spaziante dalla Polinesia all’Africa e alla Grecia antica, mentre il secondo si dedicò sempre ed esclusivamente allo studio della civiltà cinese. In questo volume sono stati raccolti alcuni saggi fondamentali di Granet e di Mauss, che sembrano idealmente proseguirsi l’un l’altro e intrecciarsi intorno a problemi affini, al cui centro è il linguaggio dei sentimenti. È questo, infatti, uno dei terreni in gran parte incogniti che Granet e Mauss hanno analizzato con portentosa acutezza: dallo studio di Mauss sull’Espressione obbligatoria dei sentimenti a quello di Granet sul Linguaggio del dolore, alle mirabili divagazioni di Mauss sul tema dono-veleno e sul potlatch, in rapporto a fatti tanto diversi quanto il suicidio e la circolazione della moneta, fino alle grandi ricerche di Granet sul modo di rappresentarsi la nascita e la morte nella Cina antica. La somma di questi saggi densissimi dovrebbe dare l’impressione non solo di una riscoperta di studi ormai classici, quanto di una prospettiva apertissima su una futura antropologia che prenda veramente alla lettera la famosa esigenza metodologica di considerare i fatti sociali come fatti totali. I saggi che compongono Il linguaggio dei sentimenti sono apparsi su rivista tra il 1911 e il 1928. -
Tutti i racconti. Vol. 2: Il nido delle colombe-Qualcosa di infantile ma di molto naturale-Una pensione tedesca
Agli inizi del secolo una giovanissima neozelandese, Katherine Mansfield, ancora un po’ sperduta in Inghilterra, e provvista solo di «quel tragico ottimismo che troppo spesso è l’unica ricchezza della gioventù», cominciò a scrivere storie comuni di donne (e di uomini) comuni – continuando febbrilmente sino alla morte, che l’avrebbe raggiunta, trentaquattrenne, nel 1923. Letti con l’occhio di oggi, i racconti della Mansfield ci appaiono come una di quelle grandi e inesauribili scoperte che in pochi anni mutarono la fisionomia della letteratura: come il primo Joyce, i romanzi di D.H. Lawrence, l’opera della Woolf – tre scrittori con cui la Mansfield fu in rapporto, oscillando fra l’ammirazione e l’ostilità. Condivideva con loro la testarda volontà di porre un’esigenza assoluta alla letteratura, ma ancor più di loro la Mansfield era esposta alle correnti infide, alle maligne unghiate della vita, che continuava ad apparirle «sotto le spoglie di una cenciaiola da film americano». E forse proprio per questo la Mansfield ha saputo far parlare nei suoi racconti, più di ogni altro scrittore moderno, la precarietà: come spasimo, fitta, angoscia fulminea, e insieme come meraviglia, ingiustificata estasi, pura percezione. La psicologia qui non ha bisogno di essere dichiarata, ma è assorbita nell’immagine guizzante, nella pulsazione dell’attimo. E la felicità improvvisa, come l’infelicità sorda, sparse in ogni momento e in ogni vita, rare volte ci sono venute incontro con tale intensità, eppure sottovoce, come in queste pagine della Mansfield, «grande abbastanza da dire quello che tutti sentiamo e non diciamo». La presente edizione – divisa in due parti di cui la prima in due volumi e la seconda in tre – è la prima completa dei racconti di Katherine Mansfield. -
Il discorso vero
Questo libro è una testimonianza decisiva dello scontro dottrinale fra Pagani e Cristiani. Celso, filosofo medioplatonico del II secolo, sferrò con Il discorso vero un attacco radicale contro lo scandalo della nuova religione che veniva dalla Palestina e pretendeva di sostituirsi a culti immemorabili. Col gesto di un aristocratico cosmopolita, lo osserviamo reagire all’invadenza della pìstis, della fede, là dove dovrebbe regnare soltanto la conoscenza. E insieme rivoltarsi contro la boria antropocentrica dei Cristiani, che gli appaiono simili «a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole». Dalla parte cristiana, Celso incontrò, dopo qualche decennio, l’avversario più temibile: Origene. E, per un’ironia della storia, mentre Il discorso vero, nella sua interezza, andò perduto, ciò che sopravvisse furono i frammenti che Origene ne citava nella poderosa opera di confutazione che gli dedicò. In essi, qui presentati per la prima volta in edizione italiana, possiamo riconoscere, in tutto il suo vigore, la voce di una grande civiltà su cui incombe il declino, ma che non vuole rinunciare a se stessa. -
Gli imperdonabili
Nella nota biografica che accompagnava un suo libro, Cristina Campo diceva di se stessa: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». Quel poco è quasi tutto raccolto in questo libro e imporrà una constatazione a ogni lettore percettivo: queste pagine appartengono a quanto di più bello si sia mostrato in prosa italiana negli ultimi cinquant’anni. Cristina Campo era un’imperdonabile, nel senso che la parola ha nel saggio che dà il titolo a questo libro: come Marianne Moore, come Hofmannsthal, come Benn, come la Weil, aveva la «passione della perfezione». Non altrimenti avrebbe potuto scrivere le pagine che qui si leggono su Chopin o sulla fiaba, sulle Mille e una notte o sul linguaggio. «Saluto una sapienza oggi fra le più strane» ha scritto Ceronetti, una volta, della Campo. Forse è venuto il tempo perché i lettori si accorgano che in Italia, in mezzo a tanti promotori delle proprie mediocrità, è vissuta anche questa «trappista della perfezione». -
Mente, linguaggio e realtà
Hilary Putnam è stato per molti anni, ed è tuttora, una sorta di baricentro della filosofia della scienza. Tutti i temi più caldi e delicati dal rapporto mente-macchine a quello ragione-realtà vengono a un certo punto da lui affrontati e fatti passare attraverso un vaglio quanto mai sottile. E si può dire che, una volta passati da quel vaglio, quei problemi non si presentano più come si presentavano prima. Se trasponessimo in termini medioevali la situazione di oggi, Putnam vi occuperebbe un luogo analogo a quello di san Tommaso, ugualmente opposto al nominalismo (che oggi sarebbe rappresentato innanzitutto da Quine, ispiratore-avversario di Putnam) e allidealismo platonizzante. Putnam, di fatto, è un realista. Ma, contrariamente ai realisti letterari, quelli scientifici sono tenuti a mostrare una straordinaria sottigliezza. La loro scommessa di accettare lesistenza di una realtà li obbliga a procedimenti estremamente rigorosi e sofisticati. Maestro fra tutti loro, Putnam è convinto che, se si vuole ancora dare un senso preciso alla parola ragione questa entità dai contorni sempre più fantomatici , occorrerà sottoporla a prove durissime e controllate passo per passo. E in questo senso le analisi di Putnam si sono rivelate preziose anche per i suoi avversari. Mente, linguaggio e realtà è apparso per la prima volta nel 1975. -
Porte aperte
A Palermo, verso la fine degli Anni Trenta, «un crimine atroce e folle, di cui è protagonista un personaggio vinto quanto quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di Pirandello». La macchina giudiziaria si muove – e sin dall’inizio aleggia sul processo l’ombra della condanna a morte. In Italia «si dorme con le porte aperte»: era questa una delle più sinistre massime del regime, che molto teneva a sottolineare, in mancanza della libertà, il proprio culto dell’ordine. Ma, trasportata a Palermo, «città irredimibile», quella massima assume subito altri significati. Qui «aperte sicuramente restavano le porte della follia». E, controparte della follia, qui regna una vischiosità di rapporti che inficia ogni gesto, ogni parola. Eppure, proprio qui si profila un personaggio che rappresenta l’opposto: il «piccolo giudice» che, trovatosi fra le mani quel delicato processo dove le autorità tenevano ad applicare la pena di morte, quale prova della loro fermezza morale, testardamente si oppone, soltanto perché ha un’idea netta e precisa della Legge. In queste pagine, che vibrano di un occulto furore, Sciascia ci fa avvicinare ancora una volta, e più che mai, al cuore nero e opulento della Sicilia, scenario e humus di una vicenda che «assurge a significare la pena del vivere, lo squallore e l’indegnità di quegli anni, la negazione della giustizia». -
Segnavia
Wegmarken, che può essere tradotto con «segnavia», sono tracce, segni, indicazioni poste lungo un cammino o un sentiero, che servono, per chi intenda seguirlo, a riconoscerlo. Con questo titolo Heidegger raccolse e pubblicò nel 1967 dodici scritti da lui pensati e stesi lungo il proprio cammino speculativo successivo a Essere e tempo e alla cosiddetta «svolta». Se si osserva la composizione del volume, si constaterà che qui, più che in ogni altra sua raccolta di saggi, Heidegger ha voluto tracciare il suo itinerario nel pensiero. I testi abbracciano quasi quarant’anni di una meditazione che il lettore si troverà a ripercorrere nei suoi passaggi cruciali. Nei testi di Segnavia, infatti, si può dire che il pensiero di Heidegger si dirami in tutte le sue direzioni e, al tempo stesso, che accenni da queste verso il suo centro nascosto. Qui troveremo, per esempio, un testo rivelatore – e annunciatore di un vasto sviluppo – come Che cos’è metafisica?, ma anche i due soli scritti su Platone e Aristotele che Heidegger abbia pubblicato in vita. E se la celebre lettera sull’ «umanismo» o la lettera a Ernst Jünger intitolata La questione dell’essere si aprono su quella comprensione della tecnica e del nichilismo a cui si connette tutta la visione heideggeriana del moderno, sino a oggi la più lungimirante e illuminante, altri testi come i saggi Sull’essenza del fondamento e Sull’essenza della verità ci avvicinano al luogo dove si mostra e si sottrae «ciò che un tempo la parola “essere”, in quanto cosa da pensare, ha svelato, e forse un giorno, in quanto cosa pensata, occulterà». La nostra edizione, a cura di Franco Volpi, si basa su quella apparsa nel 1976 all’interno delle Opere Complete (Gesamtausgabe) di Heidegger, che è arricchita dalle annotazioni marginali manoscritte apposte da Heidegger sulle sue copie dei testi, oltre che da due nuovi scritti. L’ampio Glossario finale rende ragione delle scelte terminologiche operate dalla nostra edizione, riferendosi a tutto lo sviluppo del pensiero di Heidegger e comprendendovi anche numerosi riferimenti agli importanti testi postumi in corso di pubblicazione. -
In sonno e in veglia
Per Anna Maria Ortese, qualsiasi cosa tocchi con la parola, la materia si trasforma in quella «materia indivisibile di cui parla la fisica nei suoi momenti di sogno». Come ogni vero scrittore fantastico la Ortese, probabilmente, non vorrebbe essere tale. Vorrebbe soltanto nominare la realtà che conosce. Ma la sua realtà è subito allagata da una piena di immagini, che la rendono multipla, variegata, senza fondo. «Tutto era infinitamente più grande, più mutevole, più bizzarro di quanto io potessi capire»: questa sembra essere stata, sembra essere ancora, per lei, la sensazione primaria. In questo nuovo libro di racconti, il primo dopo lunghi anni di silenzio, ci troviamo da un capo all’altro immersi in questa realtà seconda, spesso angosciosa, o minacciosa, ma anche talvolta attraversata da un trillo di incantevole comicità o da un’aerea ebbrezza. Oltre a quello narrativo, vi è poi un altro versante nella sua opera, che si mostra nelle ultime due, mirabili prose di questo libro. Come definirle? Meditazioni? Comunque, proprio in questa zona, nella conversazione immaginaria intitolata Piccolo drago, incontriamo una autoconfessione che accende la lingua italiana di un pathos visionario quale raramente ha avuto l’occasione di ospitare. Qui stillano come gocce infuocate le parole di qualcuno che può dire di sé: «l’inferno di questo secolo non mi fu ignoto né estraneo». E qui la voce della Ortese, che altrimenti sussurra «in sonno e in veglia», improvvisamente vibra di offesa eloquenza per difendere l’esistenza animale, che è anche la nostra esistenza animale, di quella parte di noi che appartiene ai «popoli muti di questa terra, i popoli detti Senza Anima – dal Dittatore fornito di anima – e per di più mortale! – che è il loro carnefice da sempre». -
L' imitatore di voci
Rare cose fanno sognare come quelle notizie di cronaca che racchiudono un destino in poche righe dettate in tono di spassionata neutralità. In questo libro Thomas Bernhard ha scelto come forma letteraria appunto la notizia di cronaca. Così troveremo qui più di cento romanzi in altrettante pagine. Prendendo di sorpresa il lettore, e sostituendo una guizzante velocità al martellio ossessivo dei suoi libri più celebri, Bernhard inanella una serie di storie esilaranti e oltraggiose, tutte enunciate da un cronista che si pretende di impeccabile sobrietà e precisione. I fatti innanzitutto – sembra dirci, con celato sarcasmo. E i fatti, nella loro nudità, riescono pur sempre a sbalordirci. Sono multiformi e coatti come il protagonista della storia che dà il titolo al libro: un imitatore di voci che riusciva a imitare ogni voce possibile ma rimaneva interdetto e si dichiarava incapace quando gli chiedevano di imitare la propria. -
Lettere dall'Africa (1914-31)
Nel gennaio 1914 Karen Dinesen sbarcava nel porto di Mombasa, sposandosi il giorno stesso con il barone Bror Blixen. Nel 1931 ripartiva dallAfrica, col cuore spezzato, dopo aver perso ogni speranza di continuare a reggere la sua piantagione nel Kenya. Fra queste due date avviene un lungo dramma, con intermezzi incantati, che ben conoscono tutti i lettori de La mia Africa. Ma solo queste splendide lettere ai familiari permetteranno di ricostruirlo nella realtà di ogni giorno, nelle oscillazioni fra lentusiasmo e lo sconforto. E si può dire che, proprio in queste lettere, la Blixen si sia scoperta e messa alla prova della scrittura. Fin dallinizio, lAfrica fu per lei il luogo dove custodire un «pezzo del cuore, forse il più grande». E insieme era lo scenario dove, come uneroina impeccabilmente spregiudicata, che pretendeva di essere pronta a «iniziare la tratta dei bianchi, se si aprisse uno spiraglio in quel ramo» e definiva se stessa «una snob eletta da Dio», la Blixen volle esporsi alle potenze congiunte della vita. Il risultato fu una bruciante sconfitta. Ma quella sconfitta, a sua volta, velava appena lo sprigionarsi di una nuova magia: la letteratura. Negli anni africani si compì nella Blixen una mirabile metamorfosi, che possiamo seguire passo per passo in queste pagine, dove la forma epistolare diventa spesso un tenue involucro per accogliere lurgenza del racconto e della confessione. Per tutto quel tempo si svolse, nel fondo oscuro dei fatti, una lunga, stregonesca operazione di baratto fra la vita della Blixen e la sua arte. «Nessuno è entrato nella letteratura sanguinando più di me» disse una volta la Blixen. Ma, anche se lesperienza africana fu lancinante di pena, la Blixen continuò a guardarla con gratitudine, assistita dal suo demone: «Di tutti gli idioti che ho incontrato in vita mia e Dio solo sa che non sono pochi credo di essere stata la più grande. Ma mi ha impedito di cadere a pezzi un indomabile amore per la grandezza, che è stato il mio demone. E ho vissuto una quantità infinita di cose meravigliose. Anche se con altri lAfrica è stata più clemente, io credo fermamente di essere uno dei suoi figli prediletti. Un gran mondo di poesia mi si è dischiuso quaggiù, e mi ha fatto entrare, e io lho amato. Ho guardato i leoni negli occhi e ho dormito sotto la Croce del Sud, ho visto le grandi praterie in fiamme, e le ho viste coperte di sottile erba verde dopo la pioggia, sono stata amica di Somali, Kikuyu e Masai, ho volato sopra le Ngong Hills ho colto la più bella rosa della vita, e Freja ne sia ringraziata».