Sfoglia il Catalogo ibs032
<<<- Torna al MenuCatalogo
Mostrati 8901-8920 di 10000 Articoli:
-
La sequestrata di Poitiers
Rinchiusa per venticinque anni in una camera buia, su un letto incrostato di escrementi e residui di cibo, ridotta a un fragile mucchio di ossa, circondata da insetti e da scritte deliranti incise sul muro, Mélanie Bastian fu liberata dalla polizia il 22 maggio del 1901 in conseguenza di una denuncia anonima. Il caso giudiziario che ne nacque, le accuse che furono mosse alla madre e al fratello, rispettabili borghesi di provincia, ebbero echi clamorosi per lungo tempo. André Gide, che era sempre stato attratto dalle vicende giudiziarie, e già nel 1912 aveva voluto fare il giurato alla Corte d’Assise, riaprì nel 1930 il caso della sequestrata di Poitiers con questo libretto, insieme lucida cronaca dei fatti e tentativo di interpretazione di un mistero che, come sempre accade, il tribunale era riuscito appena a sfiorare. Il primo problema che il caso pone è, di fatto, questo: fino a che punto si può dire che Mélanie fu sequestrata, per sordide ragioni, da sua madre e da suo fratello? Fino a che punto si può affermare che fra questi tre personaggi esisteva una sorta di inaudita complicità? Con magistrale penetrazione psicologica, Gide ci guida sul bordo di questi abissi e ci fa intendere come in un tale quadro di ‘orrori borghesi’ potessero convivere la smisurata crudeltà persecutoria e una segreta connivenza. Ciò aiuterebbe a capire, fra l’altro, le sorprendenti parole dette dalla «sequestrata» quando vennero per condurla all’ospedale: «Tutto quello che vorrete, ma non portatemi via dalla mia cara piccola grotta». -
L' uomo difficile. Commedia
Come l’Andrea fra le sue opere in prosa, L’uomo difficile (1918) è la punta trasparente e acuminata dell’opera teatrale di Hofmannsthal. In questa sublime ‘commedia mondana’ Hofmannsthal ha racchiuso un autoritratto cifrato, indispensabile per capirlo. Maestro delle superfici e delle maschere, ha voluto celare il suo segreto nella cronaca svagata e briosa di una serata in società, dove il gioco serrato, e musicalmente scandito, delle entrate e delle uscite sembra a prima vista disegnare una tradizionale commedia degli equivoci amorosi, dove ogni persona corteggia la persona sbagliata. Ma qui il malinteso assume in certo modo una dimensione di assoluto, diventa il sigillo di ogni azione: ed è proprio il senso acutissimo di questo malinteso legato fatalmente a ogni gesto, a ogni parola pronunciata, a rendere così ‘difficile’ il protagonista della commedia: aristocratico viennese che esercita quasi senza volerlo un enorme fascino su chiunque lo incontri, incarnazione vivente di un’intera civiltà vicina a estinguersi, segnato a fondo da atroci ed eroiche esperienze di guerra, di cui mai parlerebbe, pronto a cancellarsi totalmente e a negare la propria felicità pur di non cedere all’ ‘indecenza’ di esprimere la propria volontà. Intorno a questo straordinario personaggio e alla sua eloquente afasia si annoda uno scintillante intreccio sociale, dove ogni battuta, ogni carattere, ogni particolare si impongono immediatamente e con naturalezza, perché toccati tutti dalla perfezione. Così Hofmannsthal è riuscito a realizzare un ‘difficile’ sogno: sovrapporre il chiacchiericcio di una commedia brillante a un dramma silenzioso senza cadere egli stesso nell’‘indecenza’ di raccontarlo. -
Enten-Eller. Vol. 1: Un frammento di vita.
Enten-Eller – generalmente nota, almeno in Italia, col titolo Aut-Aut – è l’opera più lunga, più articolata e più celebre di Kierkegaard. Venne pubblicata nel 1843 sotto lo pseudonimo di Victor Eremita, e provocò subito molto sconcerto in Danimarca. E da allora, a mano a mano che quest’opera capitale è filtrata nella cultura europea, tale sconcerto è diventato quasi il contrassegno della reazione a tutta l’opera di Kierkegaard, costruzione proliferante e labirintica, dove la filosofia viene costretta a bagnarsi in tutte le acque della vita, dove ogni affermazione subisce la prova del paradosso, dell’ironia, degli pseudonimi. Insieme a Nietzsche, Kierkegaard ci appare oggi come il primo filosofo che ha fatto uscire la filosofia dall’area che si era tracciata negli ultimi secoli e perciò si pone sulla soglia di tutto il pensiero moderno, non certo soltanto dell’esistenzialismo, che pure da lui discende. La presente edizione, la prima completa che appaia in Italia, è divisa in cinque tomi. Condotta con rigore filologico da Alessandro Cortese, si propone una puntigliosa fedeltà al testo kierkegaardiano: l’abbandono del titolo Aut-Aut, che falsa la ricchezza di significati del titolo originale, viene giustificata con dovizia di argomenti nell’introduzione al presente volume, dove il lettore troverà già alcuni testi celebri (quali i Diapsalmata e le osservazioni su Don Giovanni) e assisterà al primo orchestrarsi di quel meraviglioso contrappunto romanzesco-speculativo su cui è costruito Enten-Eller e, in genere, il pensiero di Kierkegaard. -
Confessioni
Quando Paul Verlaine, nel 1894, si mise a scrivere le sue Confessioni, a dieci soldi per riga, era al tempo stesso il Principe dei Poeti, l’annunciatore glorioso della poesia maledetta, e una sorta di patetico barbone, che passava lunghe ore davanti all’assenzio nei caffè di Saint-Germain, fra un soggiorno e l’altro nelle desolate camere degli ospedali pubblici. Nei suoi cinquant’anni aveva conosciuto, e aveva cantato, le esperienze più opposte: l’ovattata infanzia borghese in provincia e il turbinoso sodalizio con Rimbaud, la vita dell’impiegato e la vita del vagabondo, la blasfemia e la conversione religiosa, Satana e la Vergine, amori delicatissimi e amori grandiosamente osceni, la prigione e la gloria incontestata. Ma con le sue Confessioni Verlaine non ha certo voluto introdurci pomposamente ai suoi segreti, che sapeva custodire tanto bene, proprio nella sua irriducibile svergognatezza: ha voluto darci soltanto delle «note della sua vita», fuggitive, tracciate con una matita nervosa e svelta, accennando e passando oltre. Il risultato è prezioso: attraverso le vicende tormentate, e talvolta grottesche, della sua educazione sentimentale e letteraria, percepiamo subito nettamente il suo inconfondibile tono, malinconico e leggero, torbido e innocente, un tono che, una volta percepito, conquista per sempre – sicché giustamente Léon-Paul Fargue poteva scrivere, nel bellissimo saggio che precede questa edizione: «Le sue Confessioni potrebbero essere quelle del primo venuto, e se ne distinguono soltanto per la giustezza del tono e l’impalpabile abbondanza del genio». -
La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869
Fin dalla prima giovinezza, Nietzsche cominciò a raccontarsi a se stesso, quasi provando quello strumento che, all’apice della sua vita, avrebbe dato i prodigiosi accordi di Ecce homo. I primi testi in cui Nietzsche afferma l’intenzione di «tenere un diario a cui affidare alla memoria tutto ciò che di triste o di lieto colpisce il mio cuore» risalgono addirittura all’anno 1856, quando egli aveva dodici anni. Da allora fino al 1869, Nietzsche riprenderà e abbandonerà più volte progetti di memorie, spesso col titolo La mia vita, accumulando così una serie di testi che sono per noi, oggi, preziosi. L’infanzia a Naumburg, la morte del padre, la «costrizione quasi militaresca» della «veneranda» scuola di Pforta, i primi amici, le prime letture (dall’inevitabile Schiller all’allora poco noto Hölderlin), l’apparizione di Wagner, la scoperta della filologia, il formarsi di una sensibilità per così dire sotto i nostri occhi: tutto questo troviamo nel presente volume, che contiene testi finora mai tradotti in Italia. «Come pianta io nacqui all’ombra del cimitero, come uomo in una canonica»: un velo di gravità e di malinconia copre questi primi anni, studiosi e nobili di Nietzsche: ma più volte sentiamo già presente fra le righe la potenzialità sconvolgente della sua persona – e fin dall’inizio è ben chiaro in lui quel senso della necessità e del destino che mai lo abbandonerà: «Una catena di eventi, di sforzi, nei quali vogliamo riconoscere gli accidenti del destino esteriore o una barocca capricciosità, si rivela poi una via scoperta dalla mano infallibilmente brancolante dell’istinto». -
La nascita della tragedia
Con La nascita della tragedia, sua prima opera, pubblicata nel 1876, Nietzsche appare subito nella sua unicità, ponendo al pensiero e alla vita nuove esigenze e nuovi criteri. In queste pagine si rivela, in una splendida orchestrazione musicale, dove il respiro wagneriano regola il flusso di una prosa inaudita nella lingua tedesca, quell’intuizione totale della civiltà greca – non accertamento storico, ma al contrario intenzionale riconquista di potenti categorie, quali l’apollineo e il dionisiaco, e, dietro a esse, della perduta saggezza tragica – che aveva guidato Nietzsche agli studi classici e resterà poi per sempre la sua stella polare: qui tale intuizione si presenta in una sorta di «iniziazione letteraria, dove il rituale misterico è sostituito dalla parola stampata». Forma di per sé azzardata e dissestante, sicché appare inevitabile che il libro provocasse grande scandalo nel mondo accademico; così avvenne, e fu un grande filologo, Wilamowitz, ad attaccare direttamente Nietzsche. Ma, anche per quanto riguarda la realtà storica, si può dire che il tempo ha agito in favore di Nietzsche: in questi cento anni, di fatto, il rigore filologico non può vantarsi di aver raggiunto grandi certezze sulle origini della tragedia greca – e, nella tenebra abbagliante di quegli inizi, certe singole osservazioni di Nietzsche e soprattutto la caratterizzazione del dionisiaco, che Nietzsche qui ha descritto per la prima volta nella sua opera, restano indispensabile riferimento. -
Sorte dell'Europa
Dal 25 luglio 1943 alla fine del 1944 Savinio pubblicò una serie di articoli politici, che poi raccolse in volume l’anno dopo. Mai più ristampati da allora, questi testi, in cui si respira dappertutto l’euforia della liberazione dal fascismo, si rivelano oggi consolante esempio di come un grande scrittore, imprendibile per natura e dilettante per elezione, possa dare prova di una chiaroveggenza e lucidità politica che in ben rari casi troveremmo negli storici e uomini politici suoi contemporanei. Saltando le alternative opprimenti dei blocchi e irridendo le varie borie nazionali, Savinio sembra già parlarci dell’«Europa di oggi», quell’Europa che si è faticosamente costruita negli ultimi decenni – e deve ancora costruirsi. Si direbbe, anzi, che la prospettiva di Savinio rimanga tuttora da recuperare: consapevole dello stato di inermità e cecità politica verso cui l’Europa delle nazioni si stava avviando, Savinio infatti concludeva questi scritti augurandosi addirittura che il movimento della resistenza partigiana trovasse il suo sbocco in un’Europa unita: «L’appello che chiude il manifesto del comunismo va aggiornato così: “Partigiani di tutta l’Europa, unitevi!”, intendendo per partigiani e partigianismo l’elemento dell’Europa che opera per impulso proprio, e non per ordine o ispirazione altrui». Se così non è stato, nessuno ha buone ragioni per rallegrarsene – e la prospettiva è sempre aperta. -
Amori
A trentotto anni, nel 1887, Carlo Dossi chiudeva con Amori la sua carriera pubblica di scrittore. (Ma avrebbe poi continuato, per ventanni, in segreto, a stillare i geniali veleni delle Note azzurre). Questo esile, delizioso commiato dalla letteratura si presenta come evocazione di un ventaglio di donne amate. Ma, per uno spirito così naturalmente dedito allartificio, fantasticatore e narciso, un simile progetto non poteva certo prendere la forma di concrete storie damore. Vi troveremo, invece, una sequenza di sogni, delicata e ironica, dove la prima donna è ovviamente di carta (la Regina di Cuori) e altri sono «cari amori di legno, di stoffa, di porcellana», omaggi a singoli feticci di unimmaginazione felicemente discordante dallItalietta che la circondava. E, infine, anche le donne reali sembrano figurine araldiche, descritte per altro non senza corrosiva malizia. «Sono Amori» scrisse Lucini «descritti con ali di farfalla»: e perciò si posarono sulla carta tenuissima di una finta edizione giapponese, di cui qui riproduciamo la copertina e i fregi, opera di Luigi Conconi, in un gusto che congiungeva lironia romantica del maestro Jean Paul e la devozione allOriente dei decadenti francesi. E, dietro queste amabili squisitezze, riconosciamo subito, anche qui, la voce capricciosa e aerea, le impeccabili notazioni grottesche, lacida comicità e lavvolgente malinconia del grande Dossi, ospite inatteso di una letteratura che sembrava ignorare proprio le sue qualità, e le ignorò ancora a lungo, finché la situazione si è rovesciata e proprio Dossi ci appare, fra i nostri scrittori di quegli anni, quello più amico della nostra sensibilità, quello che ha cavalcato con più leggerezza londa del tempo. Ledizione, curata dal maggiore studioso del Dossi, Dante Isella, si arricchisce del carteggio finora inedito tenuto dallAutore con amici, artisti ed editori in occasione della stampa di Amori. -
Memorie di una maîtresse americana
«Ogni ragazza siede sulla sua fortuna, e non lo sa» disse la zia Letty alla nipote Nell Kimball, che aveva allora otto anni. E si può dire che tutta la vita di Nell – prima come puttana di bordello, poi come mantenuta, infine come tenutaria essa stessa di bordelli di lusso a New Orleans e a San Francisco, da lei innalzati a una sorta di perfezione – sia stata un adeguato, intelligentissimo commento a quella frase di brutale sapienza. «Per un mucchio di gente, l’unica soddisfazione è guastare il piacere agli altri» era un’altra massima della zia Letty, e per evitare che il padre, un rozzo e brutale coltivatore dell’Illinois che citava a ogni passo la Bibbia, desse un’ulteriore dimostrazione di quella massima, la piccola Nell scappò giovanissima di casa, per approdare presto in un curioso bordello Biedermeier a Saint Louis, Missouri, dove si ambientò con facilità. «Il mio college fu il bordello»: Nell cominciò veramente a osservare la vita, e a scoprirla, nel salone pesantemente decorato di quella casa, in quell’aria greve, impregnata di cipria, fumo di sigari, lucido per mobili, corpi di donna, vapori di whisky, che da allora l’avrebbe sempre avvolta. Aveva una straordinaria intelligenza naturale, che le permetterà poi di dimostrarsi, in queste sue Memorie, anche una scrittrice straordinaria; era curiosa, avida e lucida, felicemente priva di sentimentalismi e sensi di colpa, capace di entusiasmo – il suo grande amore con il gangster Monte è clamorosamente romantico –, ma soprattutto saggia, equilibrata e sicura nel valutare le persone e le cose, con un senso della misura che possiamo senza paradosso definire classico. Guidati da lei e dal suo vivacissimo linguaggio, che passa con noncuranza dai gerghi del sottomondo alle parole ‘cólte’, esploriamo affascinati l’altra faccia della vita rispettabile dell’America fine Ottocento-primo Novecento, veniamo introdotti alle sottigliezze dei cerimoniali del bordello, penetriamo nei bassifondi cittadini, scopriamo i vari codici che regolavano i rapporti fra tenutari, puttane, poliziotti, uomini politici, malavita, giornali – e insieme vediamo delinearsi ritratti memorabili, da quello dell’amato Monte, gangster cerebrale, delicato e astratto, a quelli delle varie Belle, Frenchy, Rotary Rosie, Mollie, Minna, che in vari momenti condivisero la vita di Nell. La filosofia del bordello è un libro che Nell Kimball avrebbe potuto scrivere con eccellenti risultati, ma che non ha scritto, forse per discrezione, avendo preferito profondere i tesori della sua esperienza nella più accessibile forma di queste Memorie, che già danno, di quella filosofia, una nozione precisa: il bordello vi appare come un mondo chiuso e a suo modo completo, dove il sesso ha soltanto il posto d’onore – un sontuoso letto – e intorno ritroviamo, equamente disposti su vari poufs, anche gli altri Vizi, in colloquio non pregiudizialmente ostile perfino con alcune Virtù. Il sesso di cui ci parla la Kimball non è, comunque, la «pura fantasia» dei romanzi pornografici o quella, equivalente, dei romanzi prudes e sentimentali: è una realtà concreta, profondamente conosciuta, sperimentata e capita, raccontata senza nascondere nulla, con puntiglio professionale, e insieme osservata... -
Vita dell'arciprete Avvakum scritta da lui stesso
Molti hanno detto che la grande letteratura russa comincia con questo libro, con la sua dolorosa asprezza, con la forza del nominare che Avvakum aveva e si trasmise poi, per vie misteriose, a scrittori così diversi come Puškin e Tolstoj. Avvakum visse nella tempesta religiosa del Seicento russo, che culminò nello scisma. La sua parte era quella del perdente, la parte dei raskolniky, i «Vecchi Credenti», contrari a ogni correzione dei testi sacri e a ogni grecizzazione nella liturgia e nella dottrina. Allora la Russia si spaccò in due, e quella spaccatura si prolungò per tutta la sua storia, sino alle dispute fra occidentalisti e populisti nell’Ottocento, fino a oggi. Rinchiuso nei sotterranei di una gelida prigione, prima di morire Avvakum volle lasciare testimonianza della sua vita – o meglio di come Dio operò su di lui in certi punti della sua vita, e soprattutto nella lotta testarda contro coloro che «col fuoco, con il knut e col capestro vogliono affermare la fede». È una storia di incessanti violenze, dove i contrasti teologici si manifestano a pugni, a calci, a frustate, fra lingue strappate, sepolti vivi, roghi, saccheggi, persecuzioni, fughe nell’immensità asiatica. La vita di Avvakum è come un unico naufragio, dove a sprazzi intravediamo l’arciprete aggrappato a qualche relitto di chiatta: «Fiume renoso, ci si affonda dentro, zattere pesanti, sorveglianti spietati, nodosi i bastoni, secche le sferzate, tagliente il knut, torture crudeli, il fuoco e i tratti di corda». Vi è in lui una carica primordiale, che non si lascia esaurire. Tutto il suo fervore spirituale è intensamente fisico. Si azzuffa con i demoni come fossero cani e il diavolo lo guarda seduto sulla stufa. Un giorno, sfinita sul ghiaccio, l’arcipretessa si rivolge a Avvakum: «“Quanto durerà questo tormento, arciprete?”. Rispondo: “Markovna, fino alla morte”. Al che lei: “Va bene, Petrovic: tireremo ancora avanti”». Questo dialogo è sigillo della storia russa e del suo spirito. Dopo una vita di tumultuose peripezie, Avvakum finì sul rogo. Dice la leggenda che per sette volte lo zar ordinò il supplizio di Avvakum, e per sette volte, mentre il boia preparava il rogo, lo zar e la zarina caddero malati, e intimoriti mandarono un messo per annullare la pena. Per chi apra oggi le pagine di questa Vita non vi è migliore accompagnamento delle parole di Andrej Sinjavskij: «Su Avvakum non si possono fare tanti discorsi: su di sé ha già detto tutto lui, si è ficcato come un orso nella sua tana e l’ha riempita tutta». -
La resurrezione di Maltravers
Alla morte di Georg Maltravers, un giornale parigino pubblica un trafiletto: vi si ricordano le sue origini da una famiglia di antica nobiltà, la sua vita dissipata di avventuriero, si accenna ai suoi aspetti loschi, alla sua carcerazione come baro. Ma Georg Maltravers non è morto. Si è risvegliato per terra, nella cappella di famiglia, da una lunga morte apparente, poche ore prima che lo seppellissero. Allora «rimase seduto sulla sponda della bara come una scimmia malata» e decise di vivere un’altra vita dopo la morte. La morte stessa si era rivelata troppo facile. Ora Maltravers puntava a qualcosa di più ambizioso: costruirsi una seconda morte che lo riabilitasse dalla maniera grezza e naturale con cui aveva vissuto la prima. Per questo, doveva vivere una seconda vita, con un nuovo nome, scelto fra i molti del suo casato. Ma in questa nuova vita, poiché è già morto, Maltravers non potrà vivere: dovrà lasciar vivere un altro, che non sappia di vivere per Maltravers né che Maltravers vive per lui. Sarà un altro Maltravers, giovane e bellissimo, che ripeta le sue gesta, mentre l’anziano, sopravvissuto avventuriero assapora, osservandolo, la gioia suprema di non vivere in prima persona. Dopo accurate perlustrazioni nei bassifondi di Parigi, l’occhio di Maltravers, quell’occhio infallibile per la vita che si forma soltanto «quando ormai è troppo tardi», si poserà su un giovane pugile di insolita bellezza, che tira avanti con piccole truffe. Maltravers lo sceglie come un dio sceglie un suo beniamino. Ma la vera stranezza ha inizio qui: Maltravers plasma il giovane senza alzare un dito, unendo una distratta passività a macchinazioni ruffianesche. Perché agisce così quest’uomo che «non si poneva soltanto oltre le cose, ma anche oltre se stesso»? Per scoprirlo, lo dovremo seguire fra Parigi, Roma e Venezia, sugli sfondi di una mondanità cerea e impeccabile, che sembra comporsi di cartoline da film degli Anni Trenta. Insieme, Maltravers e il giovane pugile procedono in una spirale di eventi sordidi, ma al tempo stesso la realtà intorno a loro acquista un respiro più lieve, si mostra ospitale per qualcosa di meraviglioso che si percepisce come la luce di un abbacinante pomeriggio dall’ombra di un corridoio. Presi nelle volute rococò di queste storie, ridiamo e sorridiamo continuamente, e non sappiamo perché, incantati dalla gratuita verve della narrazione. Baro, truffatore e ruffiano, Maltravers lascia trasparire alla fine i tratti di una divinità benefica e inafferrabile, che però continua a compiere le imprese più equivoche, quasi per una fedeltà di stile e perché il suo protetto capisca che il Bene è l’impresa di gran lunga più azzardata, dubbia e avventurosa. Con il personaggio di Maltravers, Lernet-Holenia è arrivato vicino come mai al proprio segreto. Questo essere nobile e losco, frequentatore dei bassifondi e delle famiglie imperiali, mistificatore e psicopompo, somiglia più che a qualsiasi altra cosa allo spirito mercuriale e misterico che aleggia nella pagina di Lernet-Holenia. -
Giardino, cenere
Profumo di vaniglia e semi di papavero, un vassoio nichelato con sottili mezzelune lasciate dal fondo dei bicchieri, piccoli tram azzurri, gialli e verdi che si rincorrono tintinnando, il cancello di un parco dietro il quale spuntano cervi e cerve, «come ragazzini di buona famiglia di ritorno dalla lezione di piano». All’inizio di questo romanzo c’è un pullulare di sensazioni, una nube tattile, olfattiva, onirica, che si sposta in una cauta esplorazione del mondo, come l’occhio del bambino Andreas, il narratore. La parola «morte» trafigge questa nube, è un numero fatale stampato sul buio. E il bambino gioca con il sonno, gli tende agguati, in preparazione alla grande lotta con la morte. Aveva deciso di «assistere un giorno consapevolmente alla venuta della morte e così vincerla», e nell’attesa voleva sorprendere l’angelo del sonno. Intorno ad Andreas, vediamo la sorella Anna, che piange la sera perché il giorno è finito e non torna più; e la madre Marija, seduta davanti a una imponente macchina da cucire Singer di ghisa nera. E soprattutto vediamo, seppure soltanto in apparizioni imprevedibili e balzane, il padre Eduard Sam, ispettore delle ferrovie a riposo, ma in realtà trickster decaduto, che non dispone più di molti poteri, eppure è ancora aureolato di eventi prodigiosi e irrisori. Autore di un Orario delle comunicazioni tranviarie, navali, ferroviarie e aeree che, arricchendosi di edizione in edizione, si trasforma in opera interminabile, come una mappa che volesse coincidere con il territorio rappresentato, Eduard usa mostrarsi con bombetta e redingote imbrattata, e sfida l’iniquità del mondo dietro occhiali con montatura metallica, stringendo in pugno un bastone. Compreso della sua vocazione di mistificatore, non è mai se stesso, ma il nebbioso ricordo di qualcos’altro, e il giovane Andreas, fantasticatore selvaggio, percepisce in lui la compresenza di molte vite: «Ed eccolo, mio padre, seduto nel carro accanto a una giovane zingara dalle poppe rigonfie, maestoso come il principe di Galles o, se volete, come un croupier o come un maître d’hôtel (come un illusionista, come un impresario di circo, come un domatore di leoni, come una spia, come un antropologo, come un maggiordomo, come un contrabbandiere, come un missionario quacchero, come un sovrano che viaggi in incognito, come un ispettore scolastico, come un medico di campagna e, infine, come un commesso viaggiatore, rappresentante di una compagnia occidentale per la vendita dei rasoi di sicurezza)». Un giorno, in un raro momento di sobrietà, Eduard accenna al figlio il suo segreto: «Non è possibile, giovanotto mio, e questo ricordatelo per sempre, non è possibile recitare la parte della vittima per tutta la vita senza diventarlo alla fine davvero». La storia si incaricherà presto di avverare la profezia. In una continua osmosi di sensazione e visione, questo romanzo raggiunge una precisione evocativa che penetra nelle fibre della mente, in un modo che ricorda Bruno Schulz. Qui, come una splendida carovana di stracci e paccottiglia, ci sfila davanti il mondo saturo di esperienze dell’Europa centrale mentre sta per abbandonarsi alla morte, visto con gli occhi del bambino sognatore... -
L' epopea di Gilgames
Con Gilgameš, almeno millecinquecento anni prima di Omero, si manifesta la figura dell’eroe nella letteratura, una volta per sempre. Campeggiante fra cielo e terra, confitto in una macchina cosmica che appunto in Mesopotamia venne perfezionata, è il primo personaggio, la prima voce di singolo che ci parla. Per due terzi divino, per un terzo umano, Gilgameš re di Uruk vuole ciò che vorranno tutti gli eroi: vincere il mostro. Ma l’eroe evoca naturalmente un doppio, un rivale che diventerà il compagno per eccellenza: e allora appare Enkidu, l’uomo che lascia la vita selvaggia per seguire l’eroe e trovare la morte. I mostri che i due amici avevano ucciso insieme non erano dunque i soli, né i più forti. Dietro di essi, si propone un’altra sfida: la morte. Così Gilgameš affronta, ormai solo, l’impresa di là da ogni impresa: la conquista dell’immortalità. Tutti gli episodi di questa epopea – i viaggi, gli scontri, le seduzioni, gli inni, i lamenti – rimangono come modello per ogni letteratura. Ogni volta che qualcosa di simile ci viene raccontato, sentiamo dall’oscurità la voce della storia di Gilgameš, il «re che conosceva i paesi del mondo». E ricordiamo: «Egli era saggio: vide misteri e conobbe cose segrete: un racconto ci portò dei giorni prima del diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò, su una pietra l’intera storia incise». -
Sir Gawain e il Cavaliere Verde
Re Artù è a Camelot per celebrare il Capodanno. Intorno a lui i cavalieri della Tavola Rotonda, «in splendida festa e spensierato piacere». È costume del re ascoltare, prima di dar inizio al pranzo, la «strana storia di qualche avventura». Ed ecco, prima che qualcuno cominci a narrare un racconto meraviglioso, si fa avanti il meraviglioso stesso. È un gigantesco cavaliere, tutto vestito del verde più puro, in mano ha un’ascia «mostruosa ed enorme». Quando parla, è per proporre una sfida che fa tremare. Sarà Sir Gawain, perla dei cavalieri, a raccoglierla. Sopravvissuto in un solo manoscritto, anonimo, attribuibile alla fine del Trecento, Sir Gawain e il Cavaliere Verde spicca solitario nel Medioevo inglese. In questo poemetto insondabile e fragrante sembrano celebrarsi le nozze fra Bellezza e Significato. Qui, all’interno di un’incantata cornice cortese, fra castelli che paiono ritagliati nella carta, corni di caccia e dame esperte in rischiose schermaglie d’amore, incontriamo una variante assai segreta di un tema ultimo del mito: il rapporto fra l’eroe e il mostro, il Nemico. I cavalieri antichi ben sapevano che vincere il Nemico non significa soltanto affondare una lama in un corpo mostruoso. Ben più intimo, ben più sconcertante e vertiginoso è il rapporto che li lega all’avversario soprannaturale. Allora duello e sacrificio possono sovrapporsi, allora una testa che rotola può diventare non la rovina, ma la salvezza. Allora i colpi mortali possono essere sostituiti da doni, in uno scambio di omaggio fra il mostro e l’eroe. Filtrato dalla mente cavalleresca, questo è il meraviglioso di cui aveva bisogno re Artù per cominciare a mangiare. Il che significa qui: per cominciare a vivere. L’avventura di Sir Gawain offrì ai suoi occhi qualcosa del meraviglioso che dà avvio alla vita, come lo offre a quelli di tutti noi che leggiamo le parole del suo ignoto cantore. -
La civiltà indiana e noi
Più ostica ancora della sua letteratura folta di dèi è sempre apparsa all’Occidente la concezione indiana della società. Così il sistema delle caste si è attirato numerose condanne, fondate su conoscenze assai vaghe. Poco prima di pubblicare il suo fondamentale Homo hierarchicus, che ha al suo centro un’interpretazione della società delle caste, Louis Dumont ha voluto con questo breve saggio sgombrare il cammino dagli equivoci più tenaci che lo ostruiscono. Fedele all’insegnamento di Mauss, si è preoccupato innanzi tutto di ciò che risultava dall’«inventario delle categorie» indiane e occidentali. E subito ha rilevato discordanze tali da giustificare molti malintesi. A differenza dell’Occidente, per esempio, l’India scinde gerarchia e potere. Il sacerdote è il primo fra gli uomini, ma non rivendica il potere. Il re regna, ma è sottomesso spiritualmente al sacerdote. Più in generale, quella interdipendenza che in Occidente è data dall’intreccio delle attività economiche, per l’India è una categoria religiosa: anzi, si potrebbe dire, la categoria, su cui tutto si costruisce. Nulla, nella visione indiana, esiste in quanto isolato. Tutte le volte in cui noi vediamo l’individuo indivisibile che opera, l’India percepisce la totalità. Per essa, in accordo con una concezione antichissima, l’individuo è il rinunziante, colui che opera fuori dal mondo, non all’interno di esso. Una tale struttura mentale, del tutto opposta a quella occidentale, è però capace di sostenere un edificio quanto mai complesso e articolato. Dumont ci aiuta a riconoscerne le nervature e insieme ci costringe a riconoscere la singolarità e improbabilità delle nostre categorie: primo passo per capire l’India e noi stessi. La civilta indiana e noi fu pubblicato per la prima volta nel 1964 nei «Cahiers des Annales». -
Il mito psicologico nell'India antica
Questopera è una delle più importanti che si possano leggere per avvicinarsi al segreto dellIndia arcaica, lIndia del Rgveda, dei Brahmana, delle Upanisad. In questi testi per la prima volta sentiamo la voce di un pensiero metafisico, cifrata in simboli, allusioni, prescrizioni rituali. Ma qual è la differenza fra questa voce e, per esempio, quella dei primi pensatori greci? È una differenza sottile ed essenziale, fondamento di ogni ulteriore divaricarsi fra Oriente e Occidente. Forse nessun libro come questo di Maryla Falk individua e descrive quella differenza con tanta limpidezza e precisione. In una trattazione ricca di dottrina e intessuta alle fonti, la Falk ci fa entrare nelle vene di questo pensiero non rappresentante (come tutto il pensiero occidentale), ma identificante, teso a «diventare il Tutto, intuendo il Tutto». Ma come si può percorrere questa via azzardata ed esaltante dellidentificazione? Per i veggenti vedici, innanzitutto, latto del conoscere aveva una stupefacente concretezza. Il loro pensiero, prima ancora di parlare del mondo, parla del pensiero stesso, che è più vasto del mondo e lo ingloba. È la mente che qui comincia a parlare della mente, ma «opera con entità mitiche in luogo di concetti»: da qui limmane profusione di immagini, che rimangono impenetrabili a chi non ne conosca la cifra: a chi, per esempio, non sappia che le «acque» delloceano luminoso, fluenti al di sopra della volta celeste, sono le stesse che ondeggiano nell«oceano del cuore», le acque del kama, del «desiderio», le acque ardenti della psiche. Così sorge il «mito psicologico» nellIndia antica: «mentre le forme antiche del mito naturistico attribuivano valore umano, psichico, ai processi cosmici, il nuovo mito psicologico viene a attribuire valore cosmico, universale, ai fatti psichici: mercé ununica esperienza che fa coincidere interamente le due sfere». Che cosa fosse questa «unica esperienza» è raccontato, con esoterica discrezione, nei testi: la scoperta dellatman, scoperta che, da sola, basta a definire lIndia. Chiuso in quel «luogo celato» che è la «cavità del cuore», cè un granello, «più piccolo di un grano dorzo», quasi impercettibile nella sua piccolezza, che improvvisamente può espandersi in una vastità smisurata, può invadere lo spazio, coprirlo, avvolgerlo: quello è latman, la beata vastità di cui luniverso è solo una parte, la zampa del cigno immersa nellacqua. Poggiando sullesperienza dellatman, il pensiero indiano si è spinto successivamente verso due conclusioni opposte: da una parte la più radicale affermazione della vita, quale traspare da tanti inni vedici; dallaltra la più radicale negazione della stessa, implicita in certe Upanisad che già presentano lo stampo dove si calerà il buddhismo. Da una parte intravediamo gli ardenti sacrificatori delle origini: «avidi di beni, mai appagati di potere, dagli odi violenti e dai desideri insaziabili: così ci compaiono dinanzi gli uomini vedici nei loro inni». Ma dallaltra parte, fra le righe delle Upanisad, riconosciamo anche una tuttaltra figura: il rinunciante, colui che ha abbattuto lascia sul tronco del desiderio e dal mondo si distacca con gesto drastico. Questi sono i due estremi fra cui si muove il pensiero indiano. Per... -
Zipper e suo padre
Il narratore di questo romanzo, che Roth presenta come una «cronaca», conosceva bene il vecchio Zipper e suo figlio: aveva condiviso la loro vita in tempo di pace, in tempo di guerra (la prima guerra mondiale), e negli anni dopo la guerra. Allinizio, il giovane Zipper è solo un compagno di classe lentigginoso, che nomina sempre suo padre, come fonte di ogni autorità; e il vecchio Zipper è un uomo piegato dalla fatica dellenorme passo che ha compiuto: nato proletario, è diventato piccolo-borghese, e ora difende con le unghie la sua conquista, aggirandosi nella sua vita come fra i sedicesimi scompagnati di una enciclopedia popolare. Il vecchio Zipper voleva disperatamente sapere, perché pensava che il sapere portasse al successo nella vita: ma la sua vita è rimasta misera, e allora tutti i suoi sogni si depositano sul figlio Arnold. E, come sempre, il figlio non corrisponde ai sogni paterni: rispetto al vecchio, ha «un temperamento più malinconico, un cervello più fino e una pelle meno dura». La somiglianza fra padre e figlio è molto più profonda e misteriosa e a scandagliarla è dedicato questo amaro romanzo. È una somiglianza in qualcosa che li sovrasta, e che si può chiamare destino, ricordando che «nella vita degli Zipper il destino non aveva mai una forza primordiale e prorompente. Aveva il lento, tedioso modo di operare del tarlo». Joseph Roth, che tante volte avrebbe narrato storie dove il destino e la favola si sovrappongono, per una volta ha voluto illuminare laltra faccia del destino, quella in cui si mostra un ingranaggio oscuro, impersonale, freddo. E lo ha fatto isolando una storia esemplare degli anni di Weimar, gli anni del cinema proliferante, degli sradicati, degli arraffatori, anni dove due generazioni in apparenza lontanissime vennero a confluire nella disperazione e nel fallimento, sulla base della comune esperienza della guerra: «Tutti i vecchi Zipper erano sotto le armi, e i giovani pure. Milioni di Zipper sparavano e morivano, e centinaia di migliaia impazzivano». Questa è una storia di illusioni: quella del vecchio Zipper, che suonando il violino pensa di essere un musicista e approfitta delle pause per «lanciare attorno uno sguardo compiaciuto, come un artista che colga un lontano applauso percepibile a lui solo»; quella del giovane Zipper, che vagheggia lAmerica, si innamora di una giovane attrice tipica creatura dei tempi nuovi e si lascia beffare da lei. Senza saperlo, padre e figlio sono colpiti dalla stessa condanna. E a condannarli è semplicemente il tempo che passa, lirrompere di unepoca che li schiaccia. Così il violino amato da Zipper padre torna nelle mani di Zipper figlio: ma ora dovrà suonarlo per fare da spalla a un celebre clown. Alla fine, seduti a un tavolo nella penombra, Zipper e suo figlio sembrano due fratelli: «Entrambi stavano seduti nella sera come in una barca, e veleggiavano lentamente, folli e beati, incontro al medesimo destino». Pubblicato nel 1928, Zipper e suo padre viene qui proposto per la prima volta in traduzione italiana. -
Le origini della Francia contemporanea. L'antico regime
Le origini della Francia contemporanea di Taine è una delle opere più importanti e – osiamo dirlo – più belle della storiografia contemporanea, ma anche una delle meno frequentate; tant’è che per decenni è stata irreperibile nel paese di cui qui si parla. Taine concepì le Origini, a cui dedicò gli ultimi ventidue anni della sua vita (quando morì doveva ancora scrivere gli ultimi tre capitoli), dopo aver patito i disastri della guerra franco-tedesca del 1870. Allora riaffiorò in lui una sensazione che aveva avuto nel 1849, ai tempi in cui era sottoposto alla crudele ascesi dell’École Normale. Davanti alle prime elezioni in cui avrebbe potuto votare decise di astenersi, così ragionando: «Sì, per votare dovrei conoscere lo stato della Francia, le sue idee, i suoi costumi, le sue opinioni, il suo avvenire. Perché il vero governo è quello che conosce la civiltà di un popolo». Nella Prefazione alle Origini, Taine si ricordò di quel momento: ma ora, dopo tanti anni, era in grado di darsi una risposta: «Bisogna sapere come questa Francia si è fatta o, meglio ancora, assistere da spettatori alla sua formazione». Questa formula è l’accenno più esplicito a quel progetto di storia totale a cui Taine si dedicò. Rispetto allo sguardo di Michelet, per il quale la storia era innanzitutto una «resurrezione», una smisurata evocazione allucinatoria, quello di Taine pretende di essere più freddo, affine a quello di un entomologo che osserva le metamorfosi di un insetto. Così almeno dichiara Taine stesso. Ma le dichiarazioni di intenti che costellano le sue celebri prefazioni sono state per lui quanto mai pericolose e svianti. Alcune di quelle formule («la razza, l’ambiente, il momento» o «il vizio e la virtù sono dei prodotti come il vetriolo o lo zucchero») si sono fissate nella mente dei lettori e hanno finito per sostituirsi alle sue opere, finché le opere caddero in disaffezione e rimase soltanto memoria delle formule. Lo sguardo dell’entomologo non segnala in Taine una supposta freddezza scientifica, ma quello scarto rispetto al reale che è proprio di tutti i grandi della décadence. Questo infatti fu Taine innanzitutto, come riconoscevano i suoi commensali ai dîners chez Magny, o certi suoi ammirati lettori della generazione successiva, come Nietzsche o Bourget. Rispetto a Michelet, Taine dunque non si oppone come l’osservazione sobria all’allucinazione, ma come l’allucinazione della décadence alla allucinazione romantica. Per un verso la mente di Taine è sistematica, inquisitiva, vuole scoprire le cause, ricostruire punto per punto come mai l’antico regime dette luogo alla mutazione rivoluzionaria, e poi al regime borghese. Ma per un altro verso Taine è un grande scrittore, incognito persino per se stesso: vuole dare forma, rappresentare, per il puro piacere della forma, come Flaubert. Questa tensione attraversa tutta l’opera di Taine, e talvolta l’ha tarpata. Ma nelle Origini avviene il contrario: i due poli si potenziano a vicenda, la tensione si esalta, in evidenza spiccano sia la nervatura intellettuale sia lo splendore della rappresentazione. Dall’Antico regime ci viene incontro, con imponente nettezza, la sensazione di un... -
Quaderni. Linguaggio, filosofia. Vol. 2
Linguaggio e Filosofia sono le due rubriche a cui appartengono i testi qui pubblicati: come dire il centro, il cuore della ricerca di Valéry. Ma occorre subito precisare un punto: l’originalità e la potenza del pensiero di Valéry in rapporto a queste due parole sono così grandi proprio perché mai, in nessun momento, Valéry parlò in termini da linguista o da filosofo. Linguaggio fu per Valéry la via d’accesso privilegiata alla totalità della mente, al funzionamento cerebrale, all’imponente àmbito di ciò che sta al di fuori della parola. Questo diventava possibile in quanto, per Valéry, «le parole fanno parte di noi più dei nervi». Quanto alla Filosofia, si può dire che Valéry non abbia mai rinunciato a un qualche sarcasmo verso questa disciplina, per lui troppo pomposa e paga di verbalismi. Già nei suoi primi anni osservava: «La metafisica ovvero astrologia delle parole». E dello stesso periodo è un’annotazione che ci permette di capire, una volta per sempre, a quale remota distanza si ponga la «filosofia» di Valéry dalla «filosofia delle università»: «La filosofia è impercettibile. Essa non è mai negli scritti dei filosofi – la si sente in tutte le opere umane che non concernono la filosofia ed evapora non appena l’autore vuole filosofare».Per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». Immense sono le scoperte a cui Valéry è giunto nella sua assidua, silenziosa esplorazione dell’«impero nascosto». Ma la loro prima caratteristica è che non possiamo elencarle come teoremi o concetti. Per capirle, bisogna ripercorrere i passi dell’esploratore, bisogna entrare nella pelle di quel procedimento, di quegli «esercizi». La loro potenza potrà essere constatata da ogni lettore: chiunque sia stato mentalmente contagiato dal procedimento di questi Quaderni non potrà più disfarsene per la vita: diventerà una seconda natura della sua coscienza, una seconda mente, che aspettava di essere svegliata – e viene risvegliata dalle innumerevoli ore di veglia lucida, ignorata da tutti, di quella mente che si chiamò Paul Valéry. -
Hilarotragoedia
«Il libretto che qui si presenta è, propriamente, un trattatello, un manualetto teorico-pratico; e, come tale, ben si sarebbe schierato a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna, e di un Manuale del floricultore: testi, insomma, nati da lunga e affettuosa frequentazione della materia, compilati con diligente pietas da studiosi di provincia, socievoli misantropi, mitemente fanatici ed astratti; e segretamente dedicati alle anime fraterne, appunto ai capziosi delibatori, ai visionari botanici o, come in questo caso, ai rari ma costanti cultori della levitazione discenditiva. L’autore, umile pedagogo, ambisce alla didattica gloria di aver, se non colmato, almeno indicato una lacuna della recente manualistica pratica; parendogli cosa stravagante, che, tra tanti completi e dilettosi do it yourself, quello appunto si sia trascurato, che ha attinenza con la propria morte, variamente intesa. Come usa, e non senza peritosa compunzione, si additano qui taluni modesti pregi del volumetto, che forse lo differenziano da altri consimili trattati, anche più solenni: la definizione di concetti dati troppo spesso per noti, come balistica interna ed esterna, angosciastico, adediretto; l’aver proposto una nuova, e a nostro avviso, pratica e maneggevole classificazione delle angosce; arricchita, inoltre, di un Inserto sugli addii, che a noi pare non infima novità della opericciuola; l’inclusione nel discorso di cervi e amebe, a sottolineare il carattere più che semplicemente umanistico dell’impostazione; e, soprattutto, aver raccolto e presentato alcune diligenti e non esigue documentazioni, non senza abbozzo di commento, che consentiranno di verificare le enunciazioni della parte teoretica; giacché il libro si divide appunto in due parti, che potremmo denominare Morfologia ed Esercizi. E se taluno troverà codesti documenti inconditi e affatto notarili, non dimentichi che il loro pregio è da ricercare nella minuziosa, accanita fedeltà al vero; e pertanto, essi vengono qui proposti come esempi di quel realismo, moralmente e socialmente significativo, di cui il raccoglitore vuol essere ossequioso seguace». - GIORGIO MANGANELLI