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Fuga nelle tenebre
Nella Fuga nelle tenebre, che fu pubblicata nel 1931, poco prima della morte dell’autore (ma la stesura originaria è degli anni 1912-1917), Schnitzler raggiunge la massima intensità di narratore. La storia è quella della graduale, consequenziale germinazione di un delirio. Qui il racconto non è, come sempre in Schnitzler, cosparso di accenni al fondo oscuro della psiche, ma in certo modo costringe quel fondo ad apparire in primo piano, sotto una luce fredda e limpida. Insediati all’interno della psiche del protagonista, assistiamo al primo infiltrarsi in essa di una serie di presentimenti e ammonimenti, che subito fanno oscillare tutta la realtà, gettandola in un’incertezza simile a quella dei sogni. Poi, in una progressione sempre più angosciosa, ci accorgiamo che ormai una rete di ossessioni si è posata sul mondo. A poco a poco, le sue maglie si stringono crudelmente e tutto ciò che avviene converge verso un unico punto di fuga: le tenebre. Come i cinque casi clinici di Freud appartengono, oltre che ai testi classici della psicoanalisi, alla grande letteratura del nostro secolo – sicché Dora e l’Uomo dei lupi e il piccolo Hans si sono ormai allineati accanto ai personaggi di Balzac e di Dostoevskij – così questo stupendo racconto di Schnitzler va anche letto come un’analisi dell’insorgere di un delirio ossessivo, sbalorditiva per la sua nettezza, illuminante in ogni particolare, avvicinabile solo ai grandi testi di Freud. E la figura di Freud stesso sembrerebbe qui adombrata in uno dei personaggi: il dottor Leinbach, «spettatore molesto e filosofo». -
La mente prigioniera
«Questo libro fu scritto a Parigi nel 1951-1952, cioè in un periodo in cui gli intellettuali francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese dall’aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all’Est, governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù – Stalin». Così Miłosz, con delicato sarcasmo, ha descritto, nella premessa all’edizione italiana, la situazione in cui nacque e apparve per la prima volta La mente prigioniera (1953). Ma al lettore spetta di riconoscere che cosa è questo libro oggi: il libro che una volta per tutte, prima che il dissenso russo potesse manifestarsi, prima di Solženicyn, di Sinjavskij, di Zinov’ev, disse ciò che di essenziale vi è da dire sul sovietismo – e in particolare su quel colossale fenomeno di viltà dello spirito e cronico asservimento che ha contrassegnato il rapporto di milioni di intellettuali con il sovietismo stesso. A differenza di tanti dissidenti russi, Miłosz parla con una terribile pacatezza: troppo cupa è la vicenda che ha vissuto perché la sua voce possa alterarsi. Ed è la voce, lo si sente a ogni pagina, di un grande scrittore, di un abitante di quella vecchia, civilissima Europa dei popoli baltici, che furono «calpestati dall’elefante della Storia» senza che l’Occidente quasi se ne accorgesse. Questo libro non è un saggio, non è un racconto, non è un libro di memorie: è la dimostrazione inconfutabile, trasparente, di che cosa voglia dire nella vita di ogni giorno, per un numero sterminato di persone, l’obbedienza al Metodo, nome che qui designa il marxismo-leninismo, quella singolare dottrina che è «in grado di trasmettere per via organica una 'visione del mondo'», come le pillole di Murti-Bing immaginate dal genio visionario di Witkiewics. Se fosse una qualsiasi posizione filosofica, tale dottrina sarebbe di una pochezza difficilmente uguagliabile. Ma esso è ben di più: un grandioso artificio che riesce davvero a «cambiare la vita»: il Metodo, una volta che stringe un mondo con le «tenaglie della dialettica», permette a chiunque di sorridere con superiore indulgenza di fronte a qualsiasi pensiero, invita dolcemente a sorvegliare e denunciare gli altri, insegna inebrianti misture di vero e di falso, concede la gioia di sentirsi al centro della corrente della storia e offre strumenti maneggevoli per far fuori i propri nemici. Alle devastazioni che il Metodo provoca nei singoli, alle prodigiose trasformazioni che esso produce nelle loro vite è dedicata la seconda parte del libro di Miłosz: qui egli traccia una sequenza di profili esemplari, carichi di intensità romanzesca – e costringe ogni lettore a percepire che cosa sia stata, in tutti i suoi passaggi, la sorte crudele di chi ha visto susseguirsi, sulla propria terra, il furioso orrore dei nazisti e la vischiosa oppressione dei sovietici. La rivolta di Varsavia, con i nazisti che uccidono e i sovietici che osservano compiaciuti dall’altra sponda della Vistola, è in certo modo l’esperienza simbolica di tutto il nostro secolo. Miłosz, che a essa è dolorosamente sopravvissuto, ha saputo trasmetterla in queste pagine a noi, eternamente sprovveduti... -
Viaggio in Russia
Nell’estate del 1926 la «Frankfurter Zeitung» propose a Joseph Roth un viaggio in Russia. Dopo i primi anni di entusiasmo per la rivoluzione, quando si firmava «Roth il Rosso», egli era entrato, ora, in una fase di dubbio: così vide quel viaggio come una preziosa occasione di verifica. Attento, curioso, con occhio vivido e mano ferma, vagò per le grandi città, seguì il corso del Volga, si spinse fra i popoli dell’Asia Centrale, scrivendo a caldo le sue corrispondenze. All’inizio, il suo atteggiamento è di forte simpatia verso quel mondo in formazione. Ma la sua lucidità gli permette anche di vedere il tetro squallore di quell’«uomo nuovo» che già si incontra in ogni strada. Mentre schiere di scrittori occidentali avrebbero visitato la Russia per decenni, gareggiando (salvo poche eccezioni) in cecità e servilismo, Roth vide e seppe raccontare tutto ciò che allora si poteva vedere. Queste sue pagine vibrano non solo per la sua arte di narratore, ma per la sua chiaroveggenza di testimone. A Walter Benjamin, quando si incontrarono a Mosca, Roth disse di essere partito bolscevico e di ritornare monarchico. In verità si stava compiendo in quei mesi la trasformazione di Roth in uno dei suoi personaggi: Franz Tunda, il protagonista di Fuga senza fine, colui che combatte per la rivoluzione e poi si aggira in un’Europa decaduta, ma soprattutto non appartiene più a nulla, ha reciso ogni legame di affinità con tutti i mondi che lo circondano e ascolta «rapito il canto dei tarli». Questo viaggio è una delle prime testimonianze illuminate di uno scrittore occidentale sulla Russia sovietica: ma esso segna anche un passaggio decisivo nell’evoluzione di Roth. Come leggiamo in una lettera da Odessa a Bernhard von Brentano: «È una gran fortuna che abbia fatto questo viaggio in Russia: altrimenti non avrei mai riconosciuto me stesso». -
Cronica
La Cronica di Anonimo romano fu definita da Gianfranco Contini, in un articolo del 1941, «uno dei capolavori dell’antica letteratura italiana». Ma si trattava, allora, del più inaccessibile fra quei capolavori, perché il testo non aveva ancora avuto un’edizione rigorosa, dopo la prima integrale, promossa dal Muratori nel 1740. Lungamente attesa, la prima edizione critica, che richiedeva un complesso e delicato lavoro di restauro filologico, sarebbe apparsa nel 1979, a cura di Giuseppe Porta. È questo il testo che qui riproduciamo, con l’aggiunta di un glossario e di un’annotazione che si propongono di rendere più agevole la lettura della mirabile opera. Scrittore colto, ma estraneo alla cultura dell’umanesimo petrarchesco e boccaccesco, l’Anonimo romano racconta, nella parte più celebrata della sua Cronica, le vicende sanguinose e crudeli di Cola di Rienzo. La sua lingua è un romanesco di potente forza espressiva. Le frasi si accostano sulla pagina come pietre massicce e spigolose. La narrazione è scandita da un ritmo di cupa fatalità. Tutto si concentra sull’intensità del particolare, sulla corposità dell’evento. Lo sconvolgente episodio della morte di Cola di Rienzo ha ben pochi termini di paragone nella letteratura italiana. Come ha detto Contini, «l’Anonimo è stato il descrittore di un’Italia tutta al contrario dell’Italia all’italiana, bonaria, che si arrangia; anzi, il descrittore dell’altro versante, dell’Italia tragica». -
Tito di Gormenghast
Apriamo questo libro e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta. Ma cè qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, «rampollo della stirpe delle pietre, acqua del fiume senza fine», porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo. E qui ha inizio la trascinante saga narrata da Peake, unimpresa grandiosa della letteratura fantastica e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro lesuberanza delle immagini. Tito di Gormenghast fu pubblicato nel 1946, primo volume di una trilogia che sarebbe stata compiuta nel 1959. Il libro trovò, fin dallinizio, lettori entusiasti, ma un po come accadde a Tolkien per molti anni essi rimasero una piccola cerchia. La morte di Peake, nel 1968, coincise invece con linizio di una grande voga fra lettori di ogni specie. Accolta fra i «classici moderni» della Penguin, la trilogia di Peake è ormai unopera amata in tutto il mondo. Come scrisse C.S. Lewis, «Peake ha creato una nuova categoria, il Gormenghastly, e già ci meravigliamo di come prima potessimo vivere senza di essa e ci chiediamo come mai nessuno aveva saputo definirla prima di lui». -
Quaderni. Vol. 1
I Quaderni di Simone Weil cominciano oggi ad apparirci per ciò che sono: un’opera unica e solitaria, senza ascendenze, senza discendenze, un cristallo perfetto composto di molteplici cristalli. Simone Weil riempì sedici grossi quaderni fra l’inizio del 1941 e l’ottobre 1942: aveva poco più di trent’anni, la guerra era nel suo momento più cupo, la vita la trascinava, come tanti rifugiati, fra Marsiglia, gli Stati Uniti, Londra, dove sarebbe morta nel 1943, dopo aver tentato in ogni modo di farsi paracadutare dietro le linee tedesche. Con prodigiosa intensità, trasmettendoci quasi il pulsare del pensiero stesso nel momento in cui si fissa, Simone Weil annotò in quel periodo questa «massa non ordinata di frammenti»: tutti i temi delle sue riflessioni precedenti, che erano state soprattutto filosofiche e sociali, vi riappaiono e alcune decisive scoperte sono qui testimoniate, come la lettura dei grandi testi sanscriti, fatta con René Daumal. Ma ciò che subito colpisce è l’invisibile presupposto che irraggia la sua luce su queste pagine. Qui, più che mai prima in lei, parla un pensiero trasparente e durissimo, caparbiamente concentrato su un esile fascio di parole che la Weil incontrava interrogando pochi testi inesauribili (le Upanisad, la Bhagavad Gita, i Presocratici, Platone, Sofocle, i Vangeli, san Paolo): amore, forza, necessità, equilibrio, bene, desiderio, sventura, bellezza, limite, sacrificio, vuoto. Nulla come il contatto con queste parole può rendere evidente la miseria della filosofia, della scienza, della religione, della politica abbandonate al loro karman occidentale. Mentre proprio dinanzi a queste parole si accende il pensiero della Weil, che è l’esperienza stessa di «agganciare il proprio desiderio all’asse dei poli». La Weil sapeva perfettamente che quelle parole sono altrettante ordalie, perché fanno traversare il fuoco a chi le pronuncia. Chi può pronunciarle, in quanto sa a che cosa esse si riferiscono, ne esce illeso. Ma quasi nessuno ne esce illeso. Nella bocca di quasi tutti quelle parole sono carcasse deformi. Sotto la penna di Simone Weil tornano a essere cristalli misteriosi. Per osservare quei cristalli con attenzione – e l’attenzione è appunto la suprema virtù praticata dalla Weil, quella che riassume in sé tutte le altre – bisogna essere almeno un matematico dell’anima: Simone Weil lo era. -
Architettura di vetro
L’Architettura di vetro è un sogno che apparve nel 1914 sotto forma di breve trattato architettonico, fissato in tutti i suoi particolari con una minuzia artigianale che esalta ancor più il carattere di inattingibile fantasmagoria del tutto. Queste pagine segnano la fine della civiltà dell’intérieur borghese, fatta di schermi tra un fuori e un dentro, pesanti tendaggi, ombre, nascondigli – e insieme celebrano il passaggio alla nuova «civiltà del vetro», materiale che, nelle parole di Walter Benjamin, cancella ogni «aura», è «il nemico del segreto» e impone la trasparenza. Ma nulla sarebbe più sviante che intendere questo testo di Scheerbart come manifesto di quella funzionalità aziendale, tra vetro e cemento, che da allora ha invaso il mondo ed è ormai senescente. Tutt’altra è la visione che ci trasmette «l’esperanto astrale» di Scheerbart: quella di un incontro erotico fra la natura e la tecnica, che riveste la terra intera di una patina di luce smaltata, da giardino orientale. «Cittadino onorario degli stati uniti della luna» (Ehrenstein), Scheerbart passò nella Germania guglielmina come un turista cosmico, un ibrido fra Jean Paul e Fourier, fra Jarry e Jules Verne. In lui, nelle sue narrazioni e divagazioni fantastiche, Walter Benjamin e qualche altro appassionato lettore riconobbero subito un irridente, candido visionario, che con «serenità dolcemente stupita» mette a confronto la realtà terrestre con le «strane leggi naturali degli altri mondi», fra le quali si trova tanto più a suo agio, e così aiuta anche noi a guardare il nostro pianeta «sotto altra luce». -
La mela d'oro e altri racconti
Quando nel 1893 Hofmannsthal scrisse il racconto Giustizia, primo di questa raccolta, aveva diciannove anni: il suo stile era già perfetto, una prosa quasi condannata alla maturità e alla limpidezza, dove risalta ogni minima crepa come in certe mirabili tazze giapponesi che così vengono fatte perché la loro bellezza sia più naturale. In quel racconto appare un angelo, «uno degli snelli paggi di Dio», e chiede al govane autore, traendo il suo stiletto dal fodero: «Sei un giusto?». E, allinadeguata risposta, ribatte: «Giustizia è tutto, giustizia è la prima cosa, giustizia è lultima». Si può dire che tutta lopera di Hofmannsthal sia stata una risposta alla domanda dellangelo: la sua vertiginosa precisione estetica accenna sempre a quella «giustizia» come alla sua origine, secondo le parole di Gregorio di Nissa che Hofmannsthal pose a motto dellintera sua opera: «Egli, lamatore della suprema bellezza, ritenendo ciò che aveva visto quasi unimmagine di ciò che non aveva visto ancora, aspirava a goderne loriginale medesimo». È questo il sottinteso che vibra in tutti i racconti qui riuniti, scritti fra il 1893 e il 1913 e in parte pubblicati postumi. Hofmannsthal raggiunge in queste pagine alcuni vertici della sua arte, per esempio nella Mela doro, che dà il titolo al volume e che pure è rimasto incompiuto, come lAndrea, quasi che Hofmannsthal si rifiutasse di appagarsi di ciò a cui il suo genio naturalmente lo inclinava: chiudere la perfezione in una figura. -
Pensieri
I Pensieri di Leopardi apparvero postumi nel 1845, ma erano stati scelti e ordinati da lui stesso; ad essi accenna in una lettera, poco prima della morte, come a un «volume inedito di Pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta in Società». Molti di questi frammenti li aveva estratti dal vasto laboratorio dello Zibaldone, altri erano del tutto nuovi. Rispetto alle prime stesure zibaldoniane, intime e immediate, questi Pensieri furono sottoposti a un lavoro di sottile rifinitura stilistica, che fa loro assumere un crudele nitore, come di epigrafi incise sotto il mobile teatro della vita. Si avverte in queste pagine, scrisse Sergio Solmi, un certo carattere di «glacialità», e insieme di puntigliosa precisione nello svelare i meccanismi nei rapporti sociali e nella mente degli uomini, questi esseri «miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente». Accanto al grande lirico della desolazione e della favolosa infanzia, c’era in Leopardi un La Bruyère avvolto da un’aura gnostica, e mai lo vediamo parlare con tanta lucidità come in queste annotazioni. -
La persuasione e la retorica
Carlo Michelstaedter traversò la vita con incauta rapidità: prese a pretesto una tesi di laurea per dare voce a una sua desolata certezza: stabilì, all’interno del suo ragionare, un filo tra Parmenide e una corrosiva critica della società che lo circondava: infine, nell’ottobre 1910, a ventitré anni, si uccise con un colpo di rivoltella. Percorso che ricorda quello di Otto Weininger, per l’intensità rovente dell’esperienza, per la tematica, per gli anni in cui si svolge. La persuasione e la rettorica doveva essere la tesi di laurea di un brillante studente goriziano a Firenze su questi due concetti in Platone e Aristotele. Divenne un testo anche formalmente inclassificabile, dove le due parole del titolo assumono significati del tutto peculiari. «Persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di se stessi: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita». «Rettorica» è l’apparato di parole, di gesti, di istituzioni, con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla «persuasione». Isolato nell’Italia del suo tempo, fedele all’ombra di Schopenhauer, Michelstaedter raggiunse in questo suo scritto la concentrazione vibrante che è data ai grandi precoci: «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente». -
In Patagonia
«Patagonia» dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo. «Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza» cantava Cendrars agli inizi di questo secolo. Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore. Li trovò entrambi – e insieme scoprì ancora una volta l’incanto del viaggiare, quell’incanto che è così facile disperdere, da quando ogni luogo del mondo è innanzitutto il pretesto per un inclusive tour. Eppure, eccolo di nuovo: l’inesauribile richiamo, il vagabondo trasalire di un’ombra – il viaggiatore – fra scene sempre mutevoli. E nulla si rivelerà così mutevole come la Patagonia, che si presenta come un deserto: «nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca». All’interno di questa natura, che ha l’astrattezza e l’irrealtà di ciò che è troppo reale, da sempre disabituata all’uomo, Chatwin incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio. Qui i coloni gallesi versano il tè fra i ninnoli; qui circolano folli, che si trasmettono il titolo di re degli Araucani o coltivano la memoria di Luigi II di Baviera; qui si incontrano ancora elusivi ricordi di Butch Cassidy e Sundance Kid; qui si respira l’aria dei grandi naufragi; qui esuli boeri, lituani, scozzesi, russi, tedeschi vaneggiano sulle loro patrie perdute; qui Darwin incontrò aborigeni dal linguaggio sottile, e li trovò così «abietti» da dubitare che appartenessero alla sua stessa specie; qui si contemplano unicorni dipinti nelle caverne; qui sopravvive qualcuno che vuol far dimenticare un atroce passato. Come un nuovo W.H. Hudson, devoto solo al «dio dei viandanti», Chatwin ci racconta le sue molte tappe: fra baracche di lamiera, assurdi chalets, finti castelli, vaste fattorie. E ogni tappa è una miniatura di romanzo. Alla fine, la Patagonia sarà per noi pullulante di fantasmi, che si muovono sul fondo della «calma primitiva» del deserto, nella quale Hudson credeva di riconoscere «forse la stessa cosa della Pace di Dio». Pubblicato nel 1977 come opera prima, questo libro appartiene alla specie, oggi rarissima, dei libri che provocano una sorta di innamoramento. La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il bisogno. -
Case minime. Romanzo
Il mondo delle «case minime», dove ci muoviamo nelle pagine di questo romanzo, è segnato da un doloroso grottesco, da una «miseria metafisica» che penetra nelle ossa, dai sottili grovigli di una comicità nera. Maxim, il protagonista, è un piccolo funzionario e una piccola vittima nel grande Teatro dellAssistenza. Come funzionario, dovrebbe per mestiere assistere gli altri, nella città colpita da una pigra, ma crudele epidemia. Come vittima, il Comune gli ha assegnato appunto una «casa minima», dove non solo i suoi sogni sempre più pressanti ma il suo respiro non riescono a trovare spazio. LAssistenza, infatti, è la forma più attuale di punizione della vita. Con agile noncuranza, Vigevani ci fa seguire gli itinerari di Maxim: dalla fetida angustia delle case minime alla città, che tende a somigliare a un ospedale diffuso, sino allospedale vero, che diventa ora il luogo degli intrattenimenti: si organizzano concerti e animazioni dellavvilimento. La psiche di Maxim si disegna con pochi tratti, labilmente, su questo sfondo: allinizio, appena «per un attimo si era sentito libero e subito era sopraggiunto il terrore». Poi, con tortuosi tentativi, Maxim comincia a vagare nella memoria. A poco a poco, raccoglierà oscuramente le forze per evadere, sino a incontrare un salutare esilio. Con il suo segno di matita sottile e preciso, con il suo dono nellisolare ogni dettaglio della comicità più desolante, Vigevani ha tracciato il ritratto di un mondo sempre più invadente, che non aveva trovato ancora il suo cantore. -
Il barone Bagge
Fra crateri spenti, nebbie e pantani gelati, uno squadrone della cavalleria austriaca si addentra nell’ignoto. Sono centoventi uomini, vestiti e armati nello stile di un tempo ormai lontano, «come una schiera di fantasmi a cavallo» sperduti sul fronte orientale della prima guerra mondiale. Seguendo il loro scalpitare, varchiamo la soglia di un regno intermedio che è insieme dei vivi e dei morti, del sogno e della veglia perfetta. Di quel regno, in tutta la sua opera, Lernet-Holenia è stato un magistrale cronista. «I racconti più perfetti sono quelli che, pur potendo pretendere al massimo della verosimiglianza, raggiungono il grado supremo dell’irrealtà» egli scrisse una volta. Il barone Bagge, pubblicato per la prima volta nel 1936, applica questo proposito con precisione abbagliante – e al tempo stesso dimostra che lo si può rovesciare: perché qui ciò che più è irreale ha il massimo della verosimiglianza. Solo alla fine scopriremo che questo racconto, oltre che una delle ultime cronache della cavalleria, è un archetipo, una sfaccettatura intatta nella pietra di Amore e Morte. -
Palchetti romani
In questo volume sono per la prima volta raccolte tutte le cronache teatrali che Savinio scrisse per il settimanale «Omnibus», diretto da Leo Longanesi, fra il 1937 e il 1939. In quel periodo sfilarono dinanzi al suo occhio di spettatore non complice tutte le glorie e le miserie del teatro italiano, dai testi rutilanti del «bardo» D’Annunzio (e del «bardo in seconda» Sem Benelli) alle «freddure» del varietà, dai Giganti della montagna di Pirandello a Villafranca di Giovacchino Forzano, inframezzati dalle obbligatorie pochades, dai Rostand, dagli Shaw, dai Rattigan, dai Bernstein, oltre che da qualche Plauto, Shakespeare e Lope de Vega. Quanto agli attori, andavano dal vegliardo Ermete Zacconi all’esordiente Anna Magnani, e fra l’uno e l’altra – oltre all’aleggiante ricordo della Duse – troviamo davvero tutti: da Benassi alla Morelli, da Ricci alla Pagnani, da Dina Galli ai De Filippo, dalla Gramatica alla Melato, da Macario a Tòfano. Savinio fu un grande spettatore e testimone di quel teatro innanzitutto perché andava a vederlo malvolentieri. Per una sua vasta parte, il teatro è l’involontario e momentaneo mettersi in scena di una civiltà: e Savinio sentiva acutamente il tanfetto stantio, l’orrenda «sanità» di gran parte della civiltà italiana in quegli anni. I nostri più celebri attori gli apparivano, quasi tutti, fatalmente «pensosi», inabili dunque alla «frivolità», da lui definita «la qualità di più difficile acquisto», che «non viene se non alla sera di una lunga giornata di fatica». Di quella «frivolità» sono invece esempio supremo queste cronache: impaziente, esilarante, perfido, Savinio procede per accostamenti fulminei, presentati ogni volta come fossero ovvi: così, grazie a lui, capiamo il profondo legame fra Ermete Zacconi e Shirley Temple; o la «stretta affinità fra la recitazione di Benassi e le decorazioni di ferro battuto che adornano le porte del teatro Eliseo» (non ancora ristrutturato); o il nesso fra il «grande stile» di Ruggero Ruggeri e «quello delle coppe con le quali erano premiati i vincitori dei concorsi ippici intorno al 1900». Ma l’ironia non faceva velo, in Savinio, all’equità, che gli permetteva di individuare con chiaroveggenza le peculiarità dei vari talenti. Quanto ai testi, per uno spettatore come Savinio, che vedeva nel Racconto d’inverno di Shakespeare il suo ideale «spettacolo di varietà», era una soave tortura ascendere all’Alta montagna di Salvator Gotta. Ma al senso di sorda oppressione che spesso emanava dalla scena Savinio poneva rimedio guardandosi intorno, distraendosi, divagando, con quella sua felice infedeltà alle forme che gli permetteva di «passare da una all’altra come una volta, di posta in posta, si cambiavano i cavalli». Allora poteva rivelarglisi la visione di gran lunga più grandiosa: il pubblico. Nessuno degli spettacoli di quegli anni ha la maestosa, greve intensità del pubblico di una serata di Govi, quale Savinio, cronista visionario, ci ha descritto: «Sembrava un’assemblea di divinità egizie, metà uomini e metà animali. Fronti aggrottate sulle quali calava una capigliatura fitta come il muschio, occhi acquosi e invasi dalle palpebre, mani enormi posate sulle ginocchia come costate di manzo sul marmo del macellaio, spalle a... -
Storie del mio zoo
Molti bambini, intorno ai sei anni, sognano di dedicarsi da grandi ai più disparati mestieri: il poliziotto, il macchinista, il pompiere. Gerald Durrell sognava di avere uno zoo. Con tenacia, rimase fedele al suo desiderio, finché riuscì ad aprire davvero, nell’isola di Jersey, un suo zoo, che è tuttora in funzione e si pone come primo obiettivo quello di contribuire a salvare le specie in pericolo. Per Durrell lo zoo è così diventato una forma di vita: per lui significa svegliarsi all’alba alle voci degli svariati animali, che egli riconosce una per una, e poi passare la giornata affrontando i più umili e bizzarri problemi, trattando gli animali come propri conviventi, in un rapporto di felice intimità, che Durrell riesce a trasmetterci in tutti i suoi libri, e particolarmente in questo, che alla storia del suo zoo è dedicato. Le risse del trombettiere Trombi e di due pinguini, la laboriosa uscita di tante tartarughine dal loro uovo, il recupero di un tapiro fuggito, un matrimonio combinato fra gorilla: attraverso queste pagine ricche di movimento (e di insegnamenti) seguiamo Durrell in tutte le vicissitudini della sua vita quotidiana nello zoo di Jersey, vissute e raccontate dallo scienziato e insieme dal bambino che le aveva sognate. -
Gitagovinda
Il Gītagovinda, «il pastore del canto», è uno dei grandi testi dell’eros indiano – celebrazione della voluttà senza soggetto e insieme delle nozze dell’anima con Dio, che qui appare come il giovane Krsna «inghirlandato di bosco», incarnazione di Visnu. Il Gītagovinda canta le sue inesauribili avventure d’amore con le molte pastorelle dalle «carni tonde, lisce, quasi elastiche, dense della molle densità del miele che cola sopra il miele» e con la pastorella che è l’Amata prediletta fra le mille spose. I dati elementari di ogni storia d’amore – la gelosia erotica, il languore fantasticante della separazione, il brivido del ritrovarsi – parlano qui in immagini lussureggianti, come se ogni pulsazione del sentimento si dilatasse nel cosmo trascinando dietro di sé un corteo sontuoso di metafore. Mentre Jayadeva, raffinato poeta del secolo XII, scriveva il Gītagovinda, il dio Visnu volle sostituirsi a lui nella stesura di alcuni passi dove si cantano le bellezze della sua amante e in particolare in una strofa dove il dio prega la fanciulla di porgli sul capo «il bocciolo sublime» del suo piede, strofe che il poeta, per reverenza al dio, non osava concludere. Una voluttuosa delicatezza, la capacità di vivere il divino «tramite il fisiologico», come scrive Marguerite Yourcenar nel saggio che qui accompagna la prima traduzione italiana del Gītagovinda, ci vengono incontro da queste pagine abbaglianti che sembrano polverizzare, con un minimo gesto di Krsna, ogni «terrore superstizioso del fatto sensuale». -
Il mondo che ho visto
Questo libro è lultimo lavoro a cui si dedicò Mario Praz: una vasta scelta dai suoi scritti di viaggio (in buona parte mai prima raccolti), preceduta da unintroduzione inedita, che è un magistrale profilo della storia del Grand Tour. In queste pagine Praz osserva che «pochi viaggiatori sanno essere personali, sanno vedere con occhi che penetrano nellessenza delle cose» e accenna a certi scrittori che hanno lasciato, nei loro diari, puri elenchi di monumenti e chiese visitate. Praz è ovviamente lopposto: come nella sua attività di critico era attratto sempre e soltanto dalla peculiarità e dal risuonare delle peculiarità luna sullaltra così nella sua veste di viaggiatore lascia vibrare la sua attenzione, di preferenza, non già dinanzi agli spettacoli obbligatori, ma dinanzi a scene laterali, ad angoli dimenticati, a piccole enclaves nello spazio, verso le quali il suo passo rabdomantico è ogni volta attirato. Il suo amato Charles Lamb, «quando si recava a far visita a una qualche famosa country-house dInghilterra, per prima cosa chiedeva del salottino cinese». Allo stesso modo, dopo una doverosa gita alle Piramidi, Praz prende subito loccasione per una lunga visita alla deplorevole villa di Faruk. Quanto al neoclassico, lo insegue fino in Tasmania. E mai il greve orrore delle celebrazioni guerriere gli apparirà così incombente come nel War Memorial di Canberra. Ci sono luoghi e cose che sembravano attendere da tempo il suo sguardo: in un seminterrato alla periferia di Washington, una vera città fatta di case di bambole; le «carrozzelle decrepite» di una «Baden-Baden tropicale», la Petropolis di Pedro II; i palazzi di Nancy, dai «balconcini rococò... su cui i viticci e le conchiglie dorate serpeggiano come rampicanti delle Esperidi o dun altro paese di favoleggiata beatitudine...»; le rovine di Palmira, dove «il tempo ha smussato gli ornamenti, steso un velo di poesia su quel che poteva esserci di crudo, di provinciale in questo impero duna stagione». Mentre la vita immediata, invadente poco lo tocca, il suo vagare è una ricerca delle «anime morte delle innumerevoli cose». Per lui, «il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo». Allora è la sua acuminata percezione del senso del tempo a guidarlo verso lesistenza-sospesa, quasi ritagliata dal resto, dei suoi luoghi, come la minuscola St. Lukes Church di New York: «Simili angoli sono come i sogni della città, remoti archetipi che passano sullanima di una città come nubi, e la città pare per un momento dimenticarsi, rimanere sospesa sullorlo dunesistenza prenatale, ma poi la risveglia lo scampanio dei carri dei pompieri». -
Le dame galanti
Noi pensammo dunque che il miglior mezzo per rompere la nefasta fama che toglie dalla libera circolazione queste opere belle e meritevoli di essere lette da tutti, è il divulgarle, non più sotto il velo del libro clandestino ma nella veste chiara e nobile del libro classico». Così scriveva Alberto Savinio nel presentare la sua magistrale traduzione delle Dame galanti. E di fatto, a distanza di quattro secoli, Brantôme è finalmente passato, insieme al suo contemporaneo Tallemant des Réaux, dallo scaffale appartato dei classici galanti e osceni a quello dei classici tout court. Monumentale raccolta di aneddoti licenziosi, Le dame galanti è intriso in ogni sua riga di una ferina arguzia, quella che dominava allora alla corte di Francia. L’alterigia aristocratica e la sordidezza si mescolano qui assai spesso, e fra la beffa e la vanteria erotica si intrecciano storie brevi ed esilaranti. Nell’accumulare centinaia di episodi libertini, Brantôme sembra animato dallo scrupolo dell’enciclopedista, che vuol raccogliere ogni possibile variante della furia amorosa. Così, alla fine, questo guascone pettegolo e caustico riesce a creare un suo epos della profanità, dove una folla di dame insolenti nella lussuria fa corona a un immenso letto. La traduzione di Alberto Savinio, che fu da lui compiuta nel 1937 per l’editore Formiggini, viene qui ripresentata come esempio forse unico di restituzione nella nostra lingua, in tutta la sua sapidità, di un classico così peculiare. Un folto apparato di note, dovuto a Pascal Pia, permetterà di seguire nella loro realtà storica le vicende dei numerosi personaggi che appaiono e scompaiono sulla scena approntata da Brantôme. La prima edizione delle Dame galanti apparve nel 1665. -
Ultimi racconti
«Le storie si raccontano da quando esiste la parola, e priva di storie la razza umana sarebbe perita, come sarebbe perita priva dacqua» dice un personaggio di questi Ultimi racconti, frase che possiamo leggere come un codicillo testamentario. Tutta lopera della Blixen presuppone infatti che il narrare storie corrisponda a una nostra esigenza primordiale, a un desiderio che va costantemente nutrito, se non vogliamo che la vita stessa si inaridisca. Ed è un desiderio demoniaco, linvito a un «gioco spietato e crudele». Quanto alle domande sulle cose ultime, per la Blixen non era opportuno, né adeguato, rispondervi con un qualche concetto o sentenza, ma con una storia. E nessuna vera storia pretenderà mai di essere in sé la risposta, ma rimanderà sempre a unaltra storia: fondamento della vocazione della letteratura a non avere mai fine. Su questo presupposto Karen Blixen concepì un «romanzo» che doveva essere composto di cento racconti intrecciati e sarebbe stato la corona della sua opera. Non giunse a compierlo, ma la prima, mirabile parte di questi Ultimi racconti pagine in cui la Blixen si è avvicinata come mai prima a pronunciare il segreto della sua arte contiene sette storie che sarebbero dovute appartenere a quel libro dallo strano titolo: Albondocani, nome di un principe italiano derivato da quello di un sultano delle Mille e una notte, personaggio che sarebbe apparso e scomparso più volte nel corso del libro. Se il grande progetto della Blixen non giunse a compiersi (e avrebbe mai potuto?), tutta la sua opera compiuta va però vista nella sua luce: come unarchitettura aerea e sapientemente ponderata, dove alcune parti sono rimaste da costruire, ma altre sono cesellate in ogni dettaglio. Così anche gli altri racconti che compongono questo libro, pubblicato nel 1957, cinque anni prima della morte dellautrice, si riallacciano alle «storie gotiche» e ai «racconti dinverno», quali nuovi anelli di ununica catena, quali nuovi intarsi di una cornice che avrebbe avuto al centro una piccola pezza di lino immacolato, quel silenzio che sta al di là di tutte le storie e tutte le vere storie evocano. -
Storia e utopia
Quando questo libro apparve, nel 1960, suonò come una voce appartata, subito coperta dal chiasso delle cose in baldanzoso movimento; oggi quello stesso movimento delle cose lo ha suffragato, a distanza di tempo, in modo allarmante. Ma Cioran non va misurato su alcuna attualità che non sia quella, perenne, di una caduta originaria, la «caduta nel tempo». Come leggiamo in questo libro, «una volta cacciato dal paradiso, l’uomo, perché non ci pensasse più e non ne soffrisse, ottenne in compenso la facoltà di volere, di tendere all’atto, di inabissarvisi con entusiasmo, con brio». Di quell’accecato entusiasmo, di quel sinistro brio è fatto ciò che da qualche secolo chiamiamo storia. All’interno di essa agiscono certe forze immense che non solo gli storici, ma i pudibondi psicologi dimenticano sempre più spesso di nominare. Cioran sa osservarle con la maestria di un moralista di Versailles che si sia educato su Dostoevskij e sulle taglienti discriminazioni dei testi buddhisti: la «nostalgia della servitù» e l’«euforia della dannazione», il «delirio dei miserabili» e le «virtù esplosive dell’umiliazione», altrettante tappe di un grande viaggio che qui viene definito «l’odissea del rancore». Ma c’è qualcosa di ancora più disperante della storia: la pretesa di uscirne con i mezzi forgiati dalla storia stessa, l’utopia. Se dissipiamo la loro cornice di Buone Intenzioni, le utopie sono inferni rosati, che non esercitano più neppure l’attrazione dell’orrido. E il loro difetto non è nella lontananza dalla realtà, ma nella capacità di anticiparci con notevole precisione un futuro di squallore. «I due generi, l’utopistico e l’apocalittico, che ci sembrano così dissimili, si fondono, stingono adesso l’uno nell’altro per formarne un terzo, meravigliosamente adatto a rispecchiare la sorta di realtà che ci minaccia e alla quale diremo tuttavia di sì, un sì corretto e senza illusioni. Sarà il nostro modo di essere irreprensibili davanti alla fatalità».