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Quaderni. Vol. 2
Questo volume contiene i quaderni quinto, sesto, settimo, scritti a Marsiglia dal novembre 1941 all’inizio del 1942. Periodo dunque brevissimo, dove tanto più prodigiosa appare la concentrazione e l’intensità del pensiero di Simone Weil. Qui si direbbe che venga trasposta in regola di vita metafisica quella abitudine che è tipica degli allievi della École Normale (come Simone stessa era stata): studiare pochi testi, ma tentando di derivarne le conseguenze più ramificate, più vaste e più decisive. E proprio in questi mesi vengono a giustapporsi, per la Weil, a quelli greci antichi alcuni testi della tradizione indù, che prendono posto fra quelli per lei essenziali: innanzitutto la Bhagavad Gīta e le Upaniṣad, che ella cominciava allora a leggere nell’originale, dopo essere stata iniziata allo studio del sanscrito da René Daumal agli inizi del 1941. Tra i Vangeli, la Gitā e i greci antichi si viene così a creare una triangolazione abbagliante. Al di là di essa, percepiamo un azzardo peculiare di Simone Weil: tentare di fissare una fisica del soprannaturale, che trasponga le nozioni di leva, forza, limite, equilibrio, gravità, livello, ecc., in un altro ambito, quello di cui meno sappiamo e da cui dipende ogni attimo della nostra vita. Ed è solo la grazia di un rigoroso pensiero analogico a permetterci di procedere, come in queste pagine, verso quella «linea d’ombra» di ogni pensiero che è la giuntura dello spirito con la materia. -
Ombre sull'erba
Nel 1931 la Blixen abbandonò definitivamente la sua Africa, ma per lei «la Croce del Sud brillò ancora per un poco dopo la sua scomparsa, come una traccia luminosa nel cielo, poi impallidì e si spense». I paesaggi, gli animali, gli esseri umani che avevano colmato quellesistenza di angosce e felicità acquistarono laspetto delle figure che ci appaiono nei sogni. Eppure la Blixen sapeva che «lUnità creativa» della sua stessa persona era costituita dalla tensione fra quellAfrica, immagine di una primigenia, selvatica nobiltà, e il suo Nord, gotico e metafisico. Così per anni la sua memoria continuò a volgersi verso uninvisibile Croce del Sud, e a poco a poco si sarebbero depositate le pagine di questo piccolo libro, ricco di storie e di memorabili ritratti, primo fra tutti quello del servitore Farah, qui presentato come «il gentiluomo più perfetto». Intorno a lui, molti altri profili si disegnano, «ombre misteriose, altere e vigili». E ancora una volta avvertiamo la profonda affinità fra la Blixen e questi esseri, come lei «innamorati del pericolo, della morte, e di Dio». Pubblicato nel 1961, un anno prima della morte della Blixen, Ombre sullerba è un ultimo gesto di omaggio e di feudale fedeltà a una terra molto amata. -
Cervelli
«In pace e in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell’ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista. Misi in moto una sorta di concentrazione interna, smossi sfere segrete, e sprofondò l’individuale, e salì alla superficie uno strato primigenio, ebbro, ricco di immagini e panico. Periodicamente rafforzato, l’anno 1915-16 a Bruxelles fu inaudito, nacque Rönne, il medico, il flagellante delle cose singole, il nudo vuoto dei contenuti, che non poteva sopportare alcuna realtà, e neppure afferrarla, che conosceva soltanto il ritmico aprirsi e chiudersi dell’io e della personalità, la incessante discontinuità dell’essere interiore, e che, di fronte alla esperienza della profonda illimitata antichissima mitica estraneità tra l’uomo e il mondo, credeva incondizionatamente ai miti e alle loro immagini». Con queste parole brucianti Gottfried Benn raccontò una volta la nascita di Cervelli, il libro che raccoglie le storie del dottor Rönne e apparve nel 1916. A distanza di settant’anni, quell’inaudito che irruppe allora nella prosa non ha perso nulla della sua forza d’urto. -
Vita di poeta
Quando Vita di poeta fu pubblicato, nell’autunno del 1917, Hermann Hesse lo recensì subito. Nel suo articolo si leggevano le seguenti parole: «Questo Robert Walser, a cui già dobbiamo tanta bella musica da camera, suona in questo nuovo libretto in modo ancora più puro, ancora più dolce, ancora più alato che nei precedenti. Se scrittori come Walser appartenessero agli “spiriti guida”, non ci sarebbe più guerra. Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore».Appare e scompare in questo libro, sotto sempre nuove spoglie, il personaggio di un giovane vagabondo, che ama le lunghe camminate e guarda il mondo con stupore. Talvolta dorme sulle panchine o in misere locande. Talvolta osa mettere piede, con la sua innocente insolenza, in locali di lusso. Talvolta si rivolge, con devota galanteria, ad affascinanti figure femminili. Gli capita anche che le mutevoli autorità del mondo, quali un capocameriere o un poliziotto, lo sottopongano a severe reprimende. E ogni volta il giovane vagabondo risponderà con amabile eloquenza. Non c’è nulla di più allarmante, in Walser, di queste insistenze sulle maniere soavi, e perfino vezzose: è lì che sentiamo la prossimità della follia. Un immenso disordine è a portata di mano, ma tanto più il giovane vagabondo continuerà ad avanzare con il suo passo elastico, avventato, con l’incoscienza di chi sa troppo e vuole soltanto celare ciò che sa dietro ampi arabeschi di parole. Ogni volta, ciò che Walser ci racconta è come l’avvio di un Bildungsroman, di un «romanzo di formazione»: ma è una formazione che si tronca subito, per ricominciare poi da capo, con una nuova storia. Il modello segreto, per Walser, non è lo svagato perdigiorno di Eichendorff né il Wilhelm Meister di Goethe, avido di assaporare il mondo. È piuttosto il disperato Lenz di Büchner, che vaga abbacinato, fuggendo qualcosa che lo ha già, per sempre, colpito. Ma, sulla via della scomparsa totale, qui ancora Walser vorrebbe fermarsi al penultimo passo, per quell’amore che pure la vita continua a ispirargli. Allora vagheggia un’esistenza minima e nascosta, come può essere quella di un bottone. E appunto a un bottone Walser rivolge in queste pagine un’appassionata esortazione, che è quasi la sua regola di vita: «Che tu non ti dia alcuna importanza, che tu sia, o almeno sembri essere, tutt’uno con la missione della tua vita, e ti senta interamente consacrato a quel tacito adempimento del dovere che si può chiamare una rosa dallo squisito profumo, bella di una bellezza che è quasi a se stessa un enigma, profumata di un profumo del tutto disinteressato perché non è altro che il suo destino». -
Fato antico e fato moderno
Negli anni in cui elaborava la sua opera capitale, Il mulino di Amleto, Giorgio de Santillana pubblicò alcuni saggi che miravano a introdurci a quella nuova visione, così sconcertante, di tutto il mondo arcaico. E innanzitutto si soffermò sull’idea posta all’origine di ogni altra nella imponente concezione del cosmo che ci appare già formata al nascere della scrittura: l’idea di fato. Questa necessità scandita nel tempo, che tocca tutte le figure «sul “teatro del mondo ammascherate”, come direbbe Campanella», ed è segnata dal moto degli astri, si lascia riconoscere nei più svariati documenti: «nel paesaggio coltivato, nelle immagini, nel mito, nella tradizione molte volte dispersa e frammentata ma in cui si ravvisano, come i pezzi di un puzzle, ingegnose costruzioni narrative che si erano venute diffondendo e che, ricomposte almeno in parte, si rivelano essere il primo linguaggio scientifico». Ma la perfetta «incastellatura di corrispondenze», per cui numeri e immagini si dispongono nei punti nodali di un cosmo dove «tutto è come deve essere, se è», lascia intravedere un dramma iniziale, «un grande conflitto dei primi tempi, in cui venne dissestata la fabbrica dell’universo». Capire il mito o la scienza arcaica, avvinti – come Santillana ci ha dimostrato – l’uno all’altra, è un riscoprire le tracce sia di quell’ordine sia di quel dissesto. Dai Caldei a Parmenide, a cui qui è dedicato un celebre saggio, è stato questo il fuoco centrale del pensiero. Nei saggi qui raccolti torniamo a percepirne la luce. -
La fine di Chéri
«Quando una donna matura ha una relazione con un ragazzo giovanissimo lei rischia meno di lui. In tutte le storie che lui avrà in seguito, sarà marchiato da quella esperienza e non riuscirà a cancellare il ricordo di quella sua prima amante» (Colette in un’intervista). La dimostrazione di questo teorema ci è offerta dalla Fine di Chéri (1926), seguito duro e amaro di Chéri. La scena si apre nel momento stesso in cui il primo romanzo si chiudeva: «Chéri si richiuse alle spalle il cancello del piccolo giardino e aspirò l’aria della notte: “Come si sta bene...”. Ma si riprese subito: “No, non si sta bene”. Gli ippocastani accalcati gravavano sulla calura prigioniera». Con sconcerto, e una sottile rabbia, Chéri dovrà riconoscere che anche nella vita lui non sta poi così bene. Giunto all’acme della sua esistenza di ‘bello’ dinanzi a cui le donne, giovani o mature, si inchinano, Chéri percepisce una vaga inquietudine: «Non distingueva i punti precisi in cui il tempo, con tocchi impercettibili, segna su un bel viso l’ora della perfezione e poi quella di una bellezza più evidente, che annuncia già la maestà di un declino». E quel declino maestoso vivremo in questo libro, dove la punta avvelenata della storia di Chéri emerge con fredda chiarezza, come la canna di una pistola, dalla prosa avvolgente, atmosferica, precisa di Colette. -
La mia Europa
L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Miłosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Miłosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»? Così Miłosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell’«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua «vita di poeta», e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storiche. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Miłosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa «sequestrata», dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che «pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo». Chi si è trovato a vivere, come Miłosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perché ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto. È parte della grandezza di Miłosz aver conservato intatta la forza del ricordare. Guidati da quella forza, siamo qui spinti a immergerci, con stupore, in una selva di dettagli che la storia ha condannato. Così le strade di Parigi come l’intreccio delle generazioni e dei caratteri finiscono per fissarsi in immagine: «re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali». -
Il soffio vivo. I procedimenti del «Nutrire il principio vitale» nella religione taoista antica
Eccentrici anche in questo, i Taoisti della Cina antica non miravano soltanto a una modesta immortalità dell’anima, ma intendevano la salvezza come Vita Eterna, in quanto «immortalità materiale del corpo stesso». Tanti, infatti, erano per loro gli spiriti, le anime e i soffi, che soltanto l’unità del corpo permetteva di farli convivere senza troppa confusione. Ma, per giungere a tale risultato, occorre un lungo lavoro alchemico, durante il quale «il corpo immortale si costruisce misteriosamente all’interno del corpo mortale». Le ossa diventano oro e la carne giada: «tra vita mortale e vita immortale non esiste frattura, ma un impercettibile passaggio dall’una all’altra». Questa fisiologia mistica è una delle parti più affascinanti e segrete del Taoismo – e si può dire che Maspero sia stato il primo studioso occidentale a far breccia, con questo saggio del 1937, negli arcani Campi di Cinabro (come veniva definito, in cifra, il corpo umano). Usando un linguaggio mirabilmente immaginoso, i sapienti taoisti erano arrivati a una conoscenza sottile delle forze vitali che ci lascia sbalorditi. Il reciproco sopraffarsi, paralizzarsi o rinvigorirsi dello yin e dello yang, del principio femminile e di quello maschile, è osservato con acutezza tale da delineare, fra l’altro, una dottrina della vita erotica rispetto alla quale ogni equivalente occidentale appare quanto mai goffo. I Taoisti sapevano con minuziosa precisione perché l’eros può servire sia a esaltare la vita sia a minarla. Come dice, con impassibile ironia, un loro antico testo: «L’Imperatore Giallo giacque con milleduecento donne e diventò Immortale; gli uomini comuni hanno una sola donna e si distruggono la vita». -
Quaderni. Vol. 1: Quaderni-Ego-Ego scriptor-Gladiator
Per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». A tale folgorazione, in sé perfettamente neutra, Valéry tenne fede per tutta la vita, come fosse stata una illuminazione religiosa. Più che di poesia o di filosofia o di scienza, era interessato a fare la sua mente. «Gli altri fanno libri, io faccio la mia mente». Dalla specola dei Quaderni, poesia o filosofia o scienza non sono che punti di applicazione di quella «cultura psichica senza oggetto» dove chi pensa non ha neppure un nome o un’identità, ma è lo spaccato di una serie di eventi della coscienza. E la scrittura li registra, studia, combina, come fossero un’algebra. Opposto per natura all’«intima ridicolaggine» del Sistema, il procedimento di Valéry nei Quaderni è un inarrestabile «lavoro di Penelope..., giacché consiste nell’uscire dal linguaggio ordinario e ricadervi, uscire dal linguaggio – in generale – vale a dire dal – passaggio e ritornarvi». Immense sono le scoperte a cui Valéry è giunto nella sua assidua, silenziosa esplorazione dell’«impero nascosto». Ma la loro prima caratteristica è che non possiamo elencarle come teoremi o concetti. Per capirle, bisogna ripercorrere i passi dell’esploratore, bisogna entrare nella pelle di quel procedimento, di quegli «esercizi». La loro potenza potrà essere constatata da ogni lettore: chiunque sia stato mentalmente contagiato dal procedimento di questi Quaderni non potrà più disfarsene per la vita: diventerà una seconda natura della sua coscienza, una seconda mente, che aspettava di essere svegliata – e viene risvegliata dalle innumerevoli ore di veglia lucida, ignorata da tutti, di quella mente che si chiamò Paul Valéry. -
Schopenhauer come educatore
Questa terza «Considerazione inattuale», scritta e pubblicata nel 1874, è un’altra sfida che il giovane Nietzsche volle lanciare alla cultura moderna. Al centro, questa volta, è Schopenhauer. Ma Nietzsche non vuole qui addentrarsi nel suo pensiero, bensì prendere la sua figura come emblema del «grande uomo», del genio, categoria che l’Ottocento aveva esaltato e ora si apprestava a sgretolare. Di fronte al diffondersi di una certa generale pavidità, di fronte alla incapacità dell’individuo di sostenere se stesso come unicum, di fronte all’appiattirsi della cultura in servile obbedienza allo Stato, Nietzsche ha voluto ricostruire una fisionomia, quella di «Schopenhauer come educatore», incompatibile con quei caratteri che vedeva affermarsi sempre più intorno a lui. La grandezza, per Nietzsche, non può essere disgiunta dalla familiarità con i mostri e con il fondo feroce dell’esistenza. Eppure, solo chi è avvezzo ad attraversare l’oscuro riesce a emanare un senso perdurante di serenità: «Il vero pensatore rasserena e allieta sempre, sia che egli esprima la sua serietà o il suo scherzo, la sua penetrazione umana o la sua indulgenza divina; senza atteggiamenti tetri, mani tremolanti, occhi acquosi, ma sicuramente e semplicemente, con coraggio e vigore, forse con un certo fare cavalleresco e duro, in ogni caso però come vincitore; e proprio ciò rasserena più profondamente e intimamente: vedere il dio vincitore accanto a tutti i mostri che egli ha combattuto». -
Le finestre di fronte
Siamo a Batum, sul Mar Nero, nei primi anni di Stalin. Adil bey è il nuovo console turco. Comincia a guardarsi intorno. Entra nel suo ufficio, «sporco di quella sporcizia lugubre che si ritrova nelle caserme e in certi uffici pubblici». Dà unocchiata fuori e vede due persone affacciate alla finestra di fronte. «Prendevano il fresco, nelloscurità, in silenzio». Più tardi vedrà il punto rosso di una sigaretta nel buio di quella finestra. Adil bey avverte subito un invincibile disagio, in quella città desolante, dove tutto lo respinge, dove ogni significato è dubbio e sfuggente. E si sente preso in una rete: sguardi, mezze parole, contrattempi, scene intraviste. Capisce di essere un insetto condannato a contemplare la ragnatela che lo imprigiona. Continua a guardare le finestre di fronte, con maggiore curiosità di quella che mostrano gli altri a osservare lui. Spia le spie, e intanto anche il suo corpo sembra intaccato, una cupa rabbia si unisce alla paura. E langoscia si espande, nulla può arrestarla. Su questa scena si consuma una storia di amore, inganno e morte. Pubblicato nel 1933, quando la natura della Russia di Stalin era ancora ignota allesterno, e nessuno poteva raccontarla dallinterno, questo romanzo è una prova sconcertante della precisione visionaria di Simenon. Nel ritmo torpido e maligno della vita a Batum troviamo tutti i tratti dellossessione poliziesca che fa da sfondo al nostro tempo. Nulla di essenziale cè da aggiungere a questa immagine, che ha una sonnambolica sicurezza. Non vi è qui alcuna preoccupazione ideologica: sola allopera è la capacità primordiale di cogliere unaria, unaura, unessenza nascosta. Così, forse senza accorgersene, Simenon ha scritto il romanzo russo di quegli anni che altri non hanno potuto scrivere. -
Il problema di Aladino
Un giovane prussiano fin de race, ancora mosso da qualche residuo impulso aristocratico-militare, cresce nell’esercito della Polonia comunista. E un giorno passa all’Occidente. Non si aspetta né «più libertà», né un mondo a lui affine. Sa di essere solo: è un «anarca», uno spirito stirneriano mimetizzato nel regno della macchina. E proprio qui trova l’impresa adatta a lui: una multinazionale delle pompe funebri, che gestisce la morte come un problema industriale su vasta scala. Con freddezza e praticità, si dedica al progetto di uno sterminato cimitero centrale del pianeta, da situare in Turchia. Là, in cunicoli senza fine, nascerà un immane club dei morti, che affluiscono a migliaia da ogni paese. Talvolta sono intere sette che si prenotano, nella speranza di una quiete indisturbabile accanto al loro guru. Nella sua creativa vecchiaia, Jünger è rimasto non meno temibile e provocatorio di quando, adolescente, fuggì di casa per arruolarsi nella Legione Straniera. Questo suo recente romanzo (1982) è un apologo beffardo e penetrante su un mondo, il nostro, che non sa bene cosa fare della morte. E tanto basta a svelare la sua inconsistenza. Come sempre, con demonica percettività, Jünger non si oppone frontalmente a ciò che lo circonda ma vuole spingerlo all’estremo. La sua formula è quella di svellere le basi del mondo nichilista con una carica di nichilismo ancora maggiore. Non è forse il mondo segretamente ossessionato dall’immagine di scavatrici che sventrano le tombe? Non è forse vero che «il terreno si muove verso la capitale» e nessun luogo di riposo è garantito per sempre? A questo risponde il sogno di «Terrestra», la multinazionale delle pompe funebri di cui qui si racconta la lugubre ed esilarante avventura. -
Leyla e Majnun
«Giunse l’amore e colmò loro il calice di vino. Quand’ebbero colto la rosa profumata dell’amore, vollero assaporare il suo profumo ogni giorno: l’uno rapito dalla bellezza dell’altro, il cuore stordito e pur senza perdere i sensi, perdutamente innamorati in uno struggimento che mai si estingueva». I due amanti che così si incontrano sono Leyla e Majnun: hanno dieci anni, vanno insieme a scuola. Leyla è «una luna, una bambola, un tenero svettante cipresso»; Majnun ha «labbra di rubino che spargevano perle». Insieme, formano la coppia archetipica dell’amore estremo, della passione sino alla follia, che traversa gloriosamente la storia dell’Oriente islamico nell’immaginazione di tutti, dotti e incolti, un po’ come da noi la storia di Romeo e Giulietta. Come nel loro caso, l’amore di Leyla e Majnun è avversato dal mondo, che lo vuole distruggere con ogni mezzo. Ma non ci riuscirà, perché «amore è quello che non ha fine». Così la separazione e l’assenza si trasformano in possenti catapulte della passione. Majnun, il «Folle d’amore», vaga giorno e notte cantando versi, le spine del deserto lacerano i lembi di lino e seta delle sue vesti, ma l’occhio della sua mente è fisso sempre sullo stesso fuoco. Il suo delirio amoroso lo spinge a un moto perenne, «come un’azzurra veste di lutto che galleggia nelle acque di un fiume profondo». La società degli uomini gli è invisa, mentre le fiere gli si accovacciano intorno. A specchio del suo vagare, Leyla rimane al centro del giardino, insieme prigioniera ed esule, «colma di grazia e di fascino». Ma «nell’intimo il cuore le sanguinava», il pensiero è fisso sull’amato inavvicinabile, mentre la circondano tanti «miseri cuori che a migliaia erano precipitati nel pozzo della fossetta del suo mento». Né la guerra né un matrimonio forzato valgono a soffocare l’ardore dei due amanti, pur costretti a essere «appagati di fantasmi e fantasmi essi stessi». I numerosi episodi che scandiscono la loro vicenda servono a Nezami per tessere un sontuoso manto di immagini, dove «simbolismo sufi, e anche gnome e pura fiaba rimangono fra loro in continuità, senza che possa dirsi che un aspetto prevalga nitidamente sull’altro». Chi legge questo libro non può che rimanere abbagliato innanzitutto dalle immagini, per la profusione e la sottigliezza delle figure, per lo smalto dei dettagli, per la febbre lirica che li anima. Sono queste immagini a formare il «velo» dell’opera, come l’amore di Majnun, nel suo eccesso rigoglioso, serve a proteggere quel «frammento di paradiso» che è Leyla. E lo scrittore Nezami potrebbe pronunciare le stesse parole dell’amante: «È meglio che l’essenza rimanga celata e che solo l’involucro appaia, meglio che dell’amata io sia il velo, che della perla io sia la conchiglia!». Leyla e Majnun fu composto nel 1188 ed è uno dei Cinque Tesori di Nezami (1141-1204), romanzi in versi di varia lunghezza che costituiscono il centro della sua opera e una delle più alte manifestazioni della letteratura persiana. Innumerevoli altre versioni della storia di Leyla e Majnun, la più popolare storia d’amore di tutto l’Oriente musulmano,... -
Come un talismano. Libro di traduzioni
Per vari decenni, Guido Ceronetti ha incontrato testi che gli si imponevano come accompagnatori silenziosi. Erano parole scritte in greco, in ebraico, in spagnolo, in arabo, in tedesco, in latino, in inglese, in francese. E, nella loro lunga permanenza, quasi di squatters della mente, quei testi via via esigevano di essere detti anche in italiano, e in versi (anche se non tutti, in origine, erano in versi). Quella compagnia si rivelò, nel tempo, a Ceronetti, e vorrebbe ugualmente rivelarsi a ogni lettore di questo libro, come una potente medicina. Remedium vitae, più che remedium amoris, riesce a essere, talvolta, la parola poetica. E Ceronetti, cultore di ogni medicina paradossale, si è avvinto a questo significato. Così è nato questo libro, terribilmente personale e terribilmente anonimo, e insieme composto di molti nomi. Fra questi: Eraclito, Giovanni Evangelista, Nostradamus, Blake, Saffo, Schopenhauer, Virgilio, Hallâj, Villon, Mani, Kavafis, Spinoza, Machado, Artaud, Melville, Hardy, Emily Brontë, Hernández, Nietzsche, Verlaine, Trakl, Montesquieu, Lucrezio, Baudelaire, Zola, Céline. Questi ultimi due nomi potranno, ancor più di altri, sorprendere, perché appartengono a due maestri della prosa, e oltre tutto di una prosa che ha molta difficoltà a passare in quella italiana. Ma i loro testi avevano, per Ceronetti, lo stesso carattere degli altri elencati. Perciò li troveremo qui tradotti in versi, per un azzardo felice che dà finalmente una voce, nella nostra lingua, a questi due scrittori. -
La ricerca di Iside. Saggio sulla leggenda di un mito
Sin dai tempi di Erodoto, lEgitto ha esercitato una singolare fascinazione sullOccidente. In confronto agli Egiziani, i Greci si sentivano «giovani» e nella sapienza egizia vedevano un antico e ben custodito tesoro. Da allora a oggi, si può dire che tale fascinazione non sia mai cessata, assumendo le più varie forme: lEgitto ispira il Rinascimento ermetico e i progetti rinnovatori di Giordano Bruno così come, secoli più tardi, ispirerà la moda dei mobili Impero o i camini di Piranesi. Chiunque si accingesse a una ricerca delle origini approdava allEgitto. E unimmensa attrazione esercitava la scrittura geroglifica, in cui molti riconoscevano una forma di comunicazione non discorsiva, superiore a quella della scrittura alfabetica, più adatta di questa a trasmettere i segreti celati sotto il velo di Iside. Il mito della dea sembra così presiedere, in tutte le epoche, alle speculazioni più ardite, compositi grovigli dove lerudizione e la fantasticheria spesso si intrecciano inestricabilmente. Occorreva allora il maestro delle anamorfosi, degli specchi e delle aberrazioni Jurgis Baltruaitis per ricostruire alcuni dei passaggi più oscuri e sorprendenti di quel sinuoso percorso che Iside ha compiuto nellimmaginazione occidentale, percorso che si iscrive a pieno diritto nella storia e nella dottrina delle «prospettive depravate». Di questo «Egitto assoluto» troveremo le tracce nei luoghi più distanti: dalle pagine del pansofo Athanasius Kircher alle scene del Flauto magico, dalla Lapponia alla Bastiglia, dai templi druidici a quelli massonici. Sotto il sigillo dell«egittomania», lEuropa ha raccolto molta della sua follia e della sua sapienza. «Uniconografia fantasiosa aggiunge una nota di bizzarria a queste evocazioni dellEgitto esteriore. Questultimo si trasfigura continuamente sconfinando in regioni nuove, teologiche, scientifiche ed etnografiche ma rimane sempre un miscuglio di stranezze, paradossi, ragionamenti rigorosi e falsi poetici, corrispondenti in un certo senso agli aromi che Iside, secondo gli autori dellAntichità, aveva fatto amalgamare alla cera colata nelle false immagini del morto Osiride. La leggenda del mito egizio non è soltanto la nostalgia di un paradiso perduto. È anche una logica implacabile che sfiora il delirio e unerudizione posta al servizio del sogno». Pubblicato per la prima volta nel 1967 e riapparso nel 1985 nella presente edizione ampliata, La ricerca di Iside, è il «terzo e ultimo pannello del polittico delle Prospettive depravate». -
La conoscenza di sé. Scritti e lettere (1939-41)
Questo volume riunisce scritti di Daumal compresi fra l’estate del 1939 e l’autunno 1941. Poco più che trentenne, lo scrittore ha qui raggiunto la sua piena maturità. Da una parte continua a elaborarsi la sua opera letteraria, dall’altra la conoscenza approfondita del sanscrito lo arricchisce di un tesoro che egli vuole anche trasmettere ad altri: e rimane insuperata la trasparenza con cui Daumal ha saputo attuare questa trasmissione, come provano in questo volume certi suoi saggi quali Per avvicinare l’arte poetica indù o certe sue traduzioni, dalle Upanisad o dal Panca-tantra. È a questo punto della sua vita che si situa un «cambiamento di programma», con il manifestarsi della malattia che lo avrebbe portato alla morte nel 1944. Si avverte, in tutto ciò che Daumal ha scritto in questo periodo, il senso di un’urgenza che gli impedisce di stornare lo sguardo dall’essenziale. D’ora in poi tutti i testi di Daumal, che si muovevano su direttrici apparentemente disparate, e in genere tutto ciò che scrive – comprese le lettere, rivelatrici, anch’esse qui raccolte – sembra convergere verso un centro invisibile: la conoscenza di sé, intesa nel senso della antica tradizione indù, per la quale «il “sé” è l’oggetto primo della conoscenza; conoscenza non soltanto sperimentale, ma trasformatrice». -
Il funesto demiurgo
«Agli inizi, nella promiscuità in cui si operò lo slittamento verso la vita, qualcosa di innominabile dovette accadere, che si propaga nei nostri malesseri se non nei nostri ragionamenti. Che l’esistenza sia stata viziata alla sorgente, insieme agli elementi, chi potrebbe esimersi dal supporlo? Colui che non sia stato indotto a considerare questa ipotesi, come minimo una volta al giorno, avrà vissuto da sonnambulo». Cioran, che è l’opposto del sonnambulo – e subisce, se mai, la coazione alla «lucidità cronica» –, ha contemplato la suddetta ipotesi per lunghi anni. E così ha evocato, quasi un personaggio di romanzo, quel «funesto demiurgo» a cui accenna il titolo di questo libro e che ritroviamo, quale fedele compagno, non solo nei testi gnostici ma in ogni pensiero che non distoglie lo sguardo dal male. Se la colpa e «l’infermità di essere» hanno sulla nostra esistenza una presa così tenace, è perché avvertiamo che esse appartengono al mondo nella sua costituzione e non sono certo qualcosa che nasce e muore per un supposto arbitrio dell’uomo. Dire questo implica gettarsi in una lunga e fosca avventura. E qui ne percorriamo alcuni tratti, in acri variazioni sulle quali sembrano vegliare due numi tutelari: Baudelaire e il Buddha. Si parla, fra l’altro, del politeismo e del suicidio, del dubbio e della tolleranza, della liberazione e della sua impossibilità. I temi sono gravi, ma la prosa è leggera. Cioran è un virtuoso nell’evitare la ponderosità professionale del teologo o del filosofo. E ci offre qualcosa di più: una riflessione senza barriere protettive, lo stile acuminato di un etnografo del vuoto, di un clinico della tara primordiale. -
Poesie (1972-1985)
Il giorno 4 di giugno del 1972 abbandonava la Russia, con una piccola edizione delle poesie di John Donne in tasca e quasi nient’altro, il poeta Iosif Brodskij. La prima persona che Brodskij cercò in Occidente fu W.H. Auden. Su un prato del villaggio austriaco di Kirchstetten, il delfino dell’Achmatova e l’anziano poeta inglese, troppo chiaro per essere capito dai suoi contemporanei, si intesero in una communicatio idiomatum che non si sarebbe più interrotta, come testimonia la mirabile orazione funebre pronunciata da Brodskij nel decennale della morte del poeta: scritta in inglese, «per compiacere un’ombra». Da quel giorno Iosif Brodskij è diventato anche Joseph Brodsky, residente a New York ma di ascendenza tutta pietroburghese, se non vi è luogo come Pietroburgo «dove i pensieri si distacchino altrettanto volentieri dalla realtà». Così, «è con l’emersione di San Pietroburgo che la letteratura russa è entrata nell’esistenza». Molti dei tratti stilistici peculiari di Brodskij sembrano derivati, per osmosi, dalla città: la disciplina dei colonnati illusionistici, la luce pallida e diffusa, «dove occhio e memoria operano con inusuale acuità», l’onnipresenza dell’acqua, questa «forma addensata del Tempo», il soffio di vento saturo di alghe. In questo microclima alessandrino, dove l’Europa venne a riflettersi in uno specchio gigantesco, si è compiuta una prodigiosa eruzione di letteratura moderna, da Puškin a Mandel’štam, nel segno di un classicismo allucinatorio. E oggi quel luogo, che è un linguaggio, continua a vivere proprio in Brodskij, nelle schegge delle sue immagini, nei suoi metri sapienti, magari celati da una temeraria sprezzatura. In questo volume sono state raccolte, in accordo con l’autore, poesie degli anni 1972-1985, anni di un esilio che preesisteva alla partenza e al tempo stesso non sarà mai, perché Brodskij ha la sua patria nella lingua russa. Così ci accorgiamo di leggere i suoi versi, dopo Mandel’štam, la Cvetaeva, l’Achmatova, come parte di un’unica storia. -
Sull'amore
Ismenodora, giovane vedova irreprensibile, molto ricca e di grande bellezza, si innamora del ragazzo Baccone e si propone di sposarlo. Con audacia, addirittura lo fa rapire. Ma Baccone è desiderato anche da altri giovani, che si indignano contro Ismenodora. Chi avrà ragione? Chi difende la normalità dell’amore omosessuale? O chi difende la stranezza di un matrimonio con ratto dello sposo? Tale è la situazione, deliziosamente ambigua, da cui si diparte questo dialogo di Plutarco, lettura consigliabile per chiunque voglia capire che cosa fosse, in concreto e nelle avventure quotidiane, l’amore in Grecia. Esso si fondava su un’antica disputa, che opponeva l’amore dei maschi per le donne e l’amore dei maschi per i ragazzi: partiti potentissimi, pieni di eloquenza e passione. Qui, come in una sorta di tarda ripresa del Simposio platonico, Plutarco riesce, con sovrana saggezza e coprendo la scena con una fioritura di storie e di aneddoti, a ricondurre le due opposte forme dell’amore sotto le ali di Eros, senza che alcuna abbia la vittoria, mentre entrambe finiscono per inchinarsi al potere soverchiante del dio. -
Imperatore della Cina. Autoritratto di K'ang Hsi
Kang-hsi fu Imperatore della Cina fra il 1661 e il 1722. Per larga parte, il suo regno corse parallelo a quello di Luigi XIV. Ma il regno di Francia era giovane in paragone allImpero cinese: Kang-hsi era entrato a far parte di una successione di Imperatori documentata da diciotto secoli, e di una storia i cui annali risalivano a quattro millenni prima. «Quasi tutti i dettagli della sua vita mettevano in rilievo la sua unicità e la sua superiorità sui comuni mortali: egli solo si volgeva a sud, mentre i suoi ministri si volgevano a nord; egli solo scriveva in rosso, mentre loro scrivevano in nero ... e perfino la parola che egli usava per dire io, chen, non poteva essere usata da nessun altro». Eppure, la sublime grandezza del Figlio del Cielo fu minacciata, durante il suo lungo regno, da tutte le insidie della vita. E dovette affrontare anche mirabili sorprese: come il contatto con i Gesuiti, che portavano notizie e prodigi da un mondo del tutto sconosciuto, il nostro. Curioso e avido di conoscenze, Kang-hsi soppesò quelle novità, in parte le accettò, in parte le rifiutò. La sorte lo aveva posto al punto dincontro fra i due più grandiosi ed efficaci sistemi che la storia abbia conosciuto. Verso la fine della sua vita, toccato dalla malattia, Kang-hsi promulgò il suo Editto di Commiato, uno dei rari testi scritti da un Potente che non si possono leggere senza commozione: una confessione cerimoniale, lucida e ferma, venata di una somma tristezza. Devoto della perfezione e della cura incessante del particolare, Kang-hsi ebbe la sventura di trovare il proprio maggior nemico in uno dei suoi cinquantasei figli, lunico nato da unImperatrice e perciò allevato come Erede Legittimo. Dopo decenni di regno, sentiva che la possente macchina dellImpero rischiava di guastarsi per sempre. Ma non per questo defletteva dalla sua regola: «Tutti gli Antichi dicevano che lImperatore dovrebbe interessarsi di princìpi generali, senza necessariamente occuparsi dei particolari minuti. Personalmente mi trovo in disaccordo. Trascurare un solo dettaglio potrebbe nuocere al mondo intero, la negligenza di un momento potrebbe danneggiare tutte le generazioni future». Jonathan Spence, autore di questo libro apparso nel 1974, è un illustre sinologo. Ma qui ha messo la sua dottrina al servizio di unalta forma letteraria, di cui i cinesi sono stati insuperati maestri: la citazione. Invece di scrivere una biografia di Kang-hsi, o unevocazione mimetica come quella delle Memorie di Adriano della Yourcenar, ha lasciato parlare lImperatore con le sue stesse parole, componendole in un tessuto dove non si avvertono le cuciture. Rendendosi invisibile, Spence è riuscito a far vivere in noi con imponente nettezza la figura del lontano Imperatore. Così, dopo averlo seguito in guerre, cacce, ispezioni, letture, intrighi, riflessioni, potremo annuire alle parole con cui Kang-hsi chiudeva il suo Editto di Commiato: «Ho rivelato le mie viscere e mostrato le mie budella, dentro di me non cè più nulla da rivelare. Non dirò altro».