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Il piccolo almanacco di Radetzky
«Non abbiate timore. A prima vista / può sembrare poesia, ma sono storie / di due guerre, raccolte da un cronista / che si è perduto fra vecchie memorie. / Il testo, anche se ha righe disuguali, / non differisce in nulla da una prosa, / con nomi, date e luoghi ben reali – / sia documento o cronaca o altra cosa». Questo cronista ha sfogliato a lungo gli «annali dispersi» dell’Impero absburgico, ha educato l’orecchio alle sue nitide voci, con sottigliezza, con eleganza si è esercitato a riprodurle, trascrivendole in versi assai discorsivi, che legano queste vicende come l’aria che esse tutte respirarono. Se Grillparzer disse per Radetzky: «dove è il tuo campo, lì è l’Austria», oggi possiamo dire che dove sono quelle voci, lì è l’Austria. Personaggi e vicende: una onorificenza per Franz Kafka; un’avventura del tenente Musil; la famiglia Canetti al concerto; da Cracovia l’addio di Georg Trakl; le notti di Alban Berg in camerata; un discorso di Hofmannsthal a Vienna; l’ultima ora dell’Imperatore; il Golem è apparso a Gustav Meyrink; Ettore Schmitz tra i naufraghi del Wien; Wittgenstein da Asiago a Cassino; Anton Webern protesta e scrive lieder; Karl Kraus detta epitaffi per gli amici; Oskar Kokoschka è dato per disperso; l’epidemia uccide Egon Schiele. Voci che qui ci parlano in storie familiari e remote, chiuse in sé come altrettanti medaglioni, fogli di un ‘lunario’ che racconta, dal 1914 al 1918, anno per anno, mese per mese, il tramonto dell’Impero e le vicende personali dei suoi scrittori e dei suoi artisti, fino alla sconfitta che distruggerà la vecchia compagine e libererà nuovi demoni. Dopo Il piccolo almanacco di Radetzky la seconda parte del volume, sotto il titolo In memoria di alcuni prigionieri, è dedicata a sei vittime dei nuovi demoni, a sei figure in vario modo esemplari nella tragedia della seconda guerra mondiale. -
Claustrofilia
Nel suo scritto quasi testamentario sull’«analisi interminabile» Freud individuava il più maligno problema dell’analisi nella sua tendenza a un prolungamento indefinito. La storia successiva gli ha dato conferma: oggi schiere innumerevoli di persone sono in analisi da anni, e per anni si apprestano a continuare. Se ciò avviene, afferma Fachinelli, è perché l’analisi è caduta vittima del suo stesso inconscio: paradossalmente, essa è rifluita in un’«area claustrofilica», dove fra analista e paziente si instaura un rapporto di «unità duale» che rimanda a quello tra la madre e il bambino, alla nascita e prima di essa. Con procedimento affascinante, Fachinelli non ci espone qui soltanto le sue tesi, ma racconta come esse sono nate nella sua pratica analitica, come ha visto lentamente delinearsi due presenze inquietanti che magnetizzano la relazione claustrofilica: le esperienze di doppio e di coincidenza. Siamo qui vicini alle colonne d’Ercole della psicanalisi, se si pensa al sacro timore che già Freud mostrava per quelle presenze. Qui, inevitabilmente, «le acque si mescolano», la psicologia è costretta ad affrontare fenomeni usualmente relegati nell’inferno della parapsicologia e il «perturbante», che una buona parte della pratica analitica vorrebbe addormentare, si rivela essere il protagonista dell’analisi stessa. La condanna che esso riserva a chi non lo riconosce è quella di rimanere stregato dentro la foresta da cui vorrebbe incessantemente uscire. -
Gli ultimi giorni di Immanuel Kant
La vita di Immanuel Kant, scrive De Quincey, «fu notevole non tanto per i suoi avvenimenti quanto per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano». Era un ordine perfetto e infantile, dove ogni minuzia della giornata veniva osservata con lo stesso rigore, con lo stesso scrupolo di trasparenza che il grande filosofo dedicò ai problemi epistemologici. Nel corpo minuto di Kant, nelle sue maniere austere e amabili vivevano i Lumi, giunti al grado più nobile e penetrante del loro fulgore, come in un delicato involucro. E un giorno quel perfetto ordine avvertì i primi segni del declino. Da allora, ingaggiò una lunga, testarda lotta contro le forze della disgregazione. Thomas de Quincey, collazionando le varie testimonianze di amici sull’ultimo periodo della vita di Kant, e utilizzando soprattutto quella, insieme modesta e rapace, di Wasianski, ne ha tratto una narrazione che corrisponde agli antichi tratti del «sublime». Dinanzi al progressivo decadere di quella vita mirabilmente costruita, dinanzi alla raccapricciante comicità di certe scene e allo strazio immedicabile di altre, viene naturale dire di questo testo, in cui convivono, come rare volte accade, la più acuminata modernità e un purissimo pathos: chi ha lagrime per piangere pianga. -
Epistolario
La maggior parte delle lettere che compongono questo volume è del tutto inedita o qui pubblicata per la prima volta nella sua interezza. A distanza di più di settantanni dalla morte di Michelstaedter, che sempre apparve come un temibile enigma, possiamo dire finalmente con questo libro di sapere qualcosa della sua vita. Ed è un qualcosa di immensamente vivo, dettagliato, coinvolgente: un documento prezioso che nulla toglie alla enigmaticità di Michelstaedter, ma conferisce alla sua fisionomia un profilo più netto, una voce penetrante, il fascino di una invincibile gioventù che convive con una maturità precoce e devastatrice. Quando, nellottobre del 1905, il diciottenne Carlo Michelstaedter lasciò Gorizia per andare a studiare alluniversità di Firenze, quella partenza gli appariva al tempo stesso come «esiglio» e come inizio di unavventura. Da principio quasi ora per ora, poi sempre con grande slancio e naturalezza, oltre che con ironia, spesso esilarante, raccontava nelle lettere ai suoi le impressioni che gli venivano incontro: gli amici di famiglia, per lo più della buona borghesia ebraica, che lo accolgono nelle varie città, descritti in brevi tratti corrosivi; le bellezze dItalia che appaiono finalmente dal vero e gli fanno «scorrere nel corpo come unonda di bellezza»; i professori, i compagni, luniversità, la vita di tutti i giorni. Cè unaffettuosa immediatezza in queste lettere, una vitalità prorompente, che evita senza esitazioni ogni paludamento retorico, così frequente nellItalia di quegli anni, e nei giovani non meno che negli altri. Poi, fin dalle prime, bellissime lettere damore, si cominciano ad avvertire i segni dellaltro Michelstaedter, quello della Persuasione: laddensarsi di unesperienza solitaria, la cristallizzazione di un pensiero aspro, estremo, che vive sin dallinizio nellintimità con il proprio naufragio. Da una posizione di apertura totale al mondo, mobile e irriflessa, nel giro di pochi mesi e anni assistiamo a un richiudersi esigente e doloroso. Solo le lettere ci permettono di seguire, momento per momento, questo processo. Così una volta Michelstaedter vi alluse, scrivendo a Chiavacci: «Mi sto richiudendo e godo della curva graziosa che le foglie fanno per riunirsi; in tanto dagli ultimi spiragli scappano precipitose queste poche righe». -
Dialoghi delfici. Il tramonto degli oracoli-L'E di Delfi-Gli oracoli della Pizia
Il tramonto degli oracoli è forse il testo più grandioso che ci parli della fine del mondo antico. Nessun’altra immagine di storico o di poeta ha l’eloquenza desolata di Plutarco, quando ci presenta la terra che «un tempo straripava di voci oracolari» e «ora si è completamente inaridita, come una sorgente che si esaurisce». Narra una storia che aquile, oppure cigni, «partiti dai limiti estremi della terra e diretti al suo centro», si ritrovarono a Delfi, «ombelico» del mondo. Ma ora anche lì gli oracoli rischiano di giacere «muti come strumenti trascurati dai suonatori», mentre una voce soprannaturale annuncia ai naviganti la morte di Pan, e un lungo gemito risponde all’annuncio. La testimonianza di Plutarco ci appare tanto più significativa in quanto egli stesso fu per vent’anni uno dei sacerdoti di Delfi: questo amabile saggista, questo Montaigne della tarda antichità era anche un custode dei suoi segreti. Ed è commovente ascoltarlo nella sua difesa dell’oracolo, quand’anche esso non parli più in versi, ma in prosa, come vuole il tempo del declino. Mai come nei «dialoghi delfici», che sono raccolti in questo volume, il carattere bifronte di Plutarco, che si rivolge al tempo stesso alla divagazione letteraria e alla verità esoterica, si rivela in tale evidenza. E tanto basta a fare di queste pagine il congedo più ammaliante e più misterioso dal mondo pagano. -
L'anima dell'indiano. Un'interpretazione
Questo libro è unico tra le molte introduzioni alla civiltà degli indiani d’America, innanzitutto perché non lo scrisse un antropologo ma un indiano, un Sioux cresciuto negli anni tragici in cui si compiva il massacro della sua gente. Eastman però conobbe molto bene anche il mondo dei bianchi: dopo aver raggiunto il dottorato in medicina all’Università di Boston, a lungo si dedicò alla vana impresa di fare intendere alle autorità americane le ragioni degli indiani. Alla fine gli rimase una lucida disillusione, sentimento che spesso si avverte in questo libro, dove si espongono sobriamente gli elementi di cui è costituita «l’anima dell’indiano», in modo che perfino un bianco possa capirla. Basterà aprire queste pagine per essere subito avvolti dallo hambeday, quella «sensazione misteriosa», che è l’esperienza primordiale dell’indiano, primo segno della sua «comunione solitaria con l’Invisibile». Da quella sensazione discende ogni altro aspetto della sua civiltà, costruzione altamente complessa, austera e illuminata, che qui Eastman illustra con dolce e desolata fermezza. -
Abdia
Fra i grandi scrittori dell’Ottocento, Adalbert Stifter è forse il meno conosciuto fra noi. Sempre più chiaramente appare, con gli anni, che l’opera di quest’uomo che visse a lungo appartato nella provincia austriaca, che vide il mare per la prima volta a cinquantadue anni, a Trieste, che pretendeva di scrivere «trastulli per giovani cuori», è una delle rare opere di cui si può dire, nelle parole di Hofmannsthal, che «nascono da necessità assolutamente sovrapersonali». Non c’è scrittore, ad esempio, che sia riuscito ad assorbire, come lui, storia e metafisica in pure descrizioni di paesaggio. Ciò si applica in modo quasi paradigmatico ad Abdia (1842, versione rivista nel 1847), uno dei suoi racconti più perfetti. Qui una fosca, fatale vicenda si tende fra gli estremi del deserto africano – con il suo «incanto fatto di solitudine e silenzio» – e l’altra solitudine, umida e verdeggiante, di una conca alpina, scoperta dall’ebreo Abdia come terra del più rapinoso esotismo, idillica cerchia dove egli racconterà, passeggiando, alla figlia le fiabe del deserto. Qui, come sempre in Stifter, gli eventi osano presentarsi come «una serena catena di fiori»: ma poiché, di quella catena, soltanto «pochi petali sono stati svelati finora», e le sue lacune sono vaste, un senso di acutissimo allarme accompagna quella visione. L’immenso amore di Abdia per la figlia – una delle raffigurazioni più intense dell’amore che conosca la letteratura – è vegliato da due potenze: il fulmine e l’arcobaleno. Con la stessa indifferenza, con la stessa imprevedibilità, esse portano e sigillano, volta a volta, la grazia e la sciagura. -
Marte in ariete
Questo romanzo non solo racconta unavventura, che oscilla fra il nostro e altri mondi, ma la sua origine stessa è avventurosa. Lernet-Holenia, che era stato ufficiale dellesercito absburgico nella prima guerra mondiale, si trovò a essere richiamato alle armi, questa volta nellesercito tedesco, poco prima dellinvasione della Polonia. Durante i primi mesi di quella campagna, tenne un minuzioso diario. E, appena ebbe una licenza, si mise a scrivere questo romanzo, al cui centro è appunto linvasione della Polonia: sarebbe presto apparso a puntate su una rivista dal titolo frivolo: «Die Dame». Quando però il testo stava per essere pubblicato in forma di libro, e tutta la non piccola tiratura era pronta, un intervento del ministero di Goebbels proibì la diffusione di quellopera sospetta. Due anni dopo, un bombardamento distruggeva tutti gli esemplari del libro, che erano rimasti nel magazzino delleditore. Ma a Lernet-Holenia rimaneva ancora una copia delle ultime bozze: fu quello il testo che finalmente sarebbe apparso nel 1947. Per una volta, i censori erano stati buoni lettori. In queste pagine si legge davvero in filigrana una possente raffigurazione dello sfacelo che i nazisti stavano portando nel mondo. Ma non già perché lautore ricorra a una densa simbolicità, come Jünger nelle Scogliere di marmo. Anzi, con la sua funambolica lievità, con il suo gesto sovrano di mistificatore che introduce al vero mistero, Lernet-Holenia riesce qui ad avvolgere e camuffare i suoi segnali in una aggrovigliata storia damore, che nasce a Vienna e subito ci trasporta in quel «mondo intermedio» dove gli spiriti e i corpi, la vita e la morte, il passato e il futuro amano scambiarsi le parti ed è la vera terra delle sue storie. Immersa in questa realtà irreale, la guerra non perde nulla del suo atroce peso, stagliandosi in immagini incombenti, come una nitida allucinazione. Nessun libro ha saputo raccontarci con tale mirabile precisione il momento sospeso, afoso, immobile che precedette lo scatenarsi delle armi. E ciò avviene proprio perché Lernet-Holenia ha saputo intessere in questo romanzo i messaggi, brevi e ultimativi, di quegli altri regni che «non hanno ambasciatori». La sua arte era quella di vivere sul confine di quei regni e di riuscire così a rendere avvertibile, nelle sue limpide narrazioni, quando «di tanto in tanto qualche piccola parte di essi si stacca per poi arenarsi, come legno galleggiante che giunge da ignoti continenti, ai lidi della nostra percezione». -
Appunti di un guardiano notturno
Il Guardiano Notturno che ci parla in questo libro appartiene alla specie dei «refrattari», esseri inservibili per la società ibanese (della quale il mondo sovietico è un modesto specchio). Con il suo occhio di fantasma maligno, egli osserva lo svolgersi di una vita che non vuole rinunciare, in nessuna sua forma, a produrre l’avvilimento delle persone e delle cose. Ora non c’è più bisogno di ricorrere alle feroci persecuzioni del Padrone (delle quali possiamo farci un’idea leggendo una vita di Stalin). No, ora lo stile ibanese è diverso, più pallido, più quieto, una tortura meno appariscente e ben più prolungata. Il Guardiano Notturno, quale esperto di quella vita, ce ne offre una miniatura avvelenata, dove ritroveremo molti personaggi di Cime abissali. Scritto nel 1975, quando Zinov’ev non era ancora stato espulso dall’Unione Sovietica, questo libro viene a confermare l’assioma ibanese secondo cui «un intellettuale è immancabilmente marcio». -
Gioco all'alba
Lungo racconto, amaro e perfetto, Gioco all’alba (1927) narra la vicenda di una creatura peculiarmente schnitzleriana: Willi, un ufficiale snello, piacente, leggero, che ama la vita e le donne, purché non esigano troppo da lui. Le amanti, il gioco, i colleghi, gli spettacoli, i soldi, le uniformi si alternano nella sua mente in una tenue ma costante fantasticheria, che aggira accortamente gli ostacoli del reale. Ma c’è un momento in cui il destino, come risvegliandosi da una ingannevole sonnolenza, comincia a stringere anche per lui i suoi nodi: da quel momento le ore di Willi precipitano verso un’alba livida e irreparabile. Una lunga partita a carte, con i suoi precedenti e le sue conseguenze, basta qui ad assumere i tratti antichi della fatalità. Le sorti ruotano, le parti si rovesciano, i fatti vorticano intorno al protagonista. Con magistrale colpo di scena, quando la stretta è già divenuta soffocante, Schnitzler fa balenare, accanto al denaro, l’amore, l’uno nello specchio dell’altro. E la reciprocità erotica svela qui il suo volto segreto: quello della più sottile crudeltà. Come in Doppio sogno e Fuga nelle tenebre, che appartengono allo stesso giro di anni, Schnitzler compendia in queste pagine, infallibilmente scandite, tutta la sapienza della sua arte. -
Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale
A venticinque anni, nel 1934, Simone Weil scrisse queste Riflessioni, vero talismano che dovrebbe proteggere chiunque è costretto ad attraversare l’immenso ammasso di menzogne che circonda la parola «società». Come sempre nelle parole più ovvie, in essa si cela una realtà segreta e imponente, che agisce su di noi anche là dove nessuno la riconosce. La Weil è stata la prima a dire con perfetta chiarezza che l’uomo si è emancipato dalla servitù alla natura solo per sottomettersi a un’oppressione ancora più oscura, ancora più capricciosa e incontrollabile: quella esercitata dalla società stessa, poiché «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso». Da questa intuizione centrale si diparte, con cristallina virtù argomentativa, una sequenza di ragionamenti che svelano nei meccanismi del potere come in quelli della produzione e dello scambio altrettanti volti di una stessa idolatria. Scritto quando Hitler era al potere da pochi mesi e quando Stalin era venerato da gran parte dell’intelligencija come «piccolo padre» di una nuova umanità, questo testo non ha un attimo di incertezza nel delineare l’orrore di quel presente. Ma, come sempre nella Weil, lo sguardo è così preciso proprio perché va al di là del presente e percepisce un’immagine inscalfibile del Bene, in rapporto alla quale giudica il mondo. È uno sguardo che ci induce a «sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo». -
La gattomachia
Come l’avventuroso gatto Marramachiz, a cavallo di una scimmia, volle conquistare la leggiadra gatta Zapachilda, che cantava una «solfa gattesca», sopra le tegole di un tetto; come anche il gatto Micifuf, «per la pompa, la coda ed il vigore / celebre in ogni parte» si perdesse d’amore per Zapachilda; come da ciò nascesse una trama di inganni amorosi, duelli e sanguinosi agguati; come si scontrassero le armate dei due rivali, in una guerra che ripeteva l’assedio di Troia; come infine un casuale colpo d’archibugio abbattesse uno dei due rivali, lasciandolo «lì tra le dure tegole insepolto»: per cantare questa vicenda di alta comicità e tenero strazio occorreva un poeta che, oltre a tutte le corde dell’Umano, conoscesse quelle più segrete del Gattesco. E ci appare naturale che fosse Lope de Vega, lo scrittore più prodigioso per fecondità e facilità d’invenzione nella letteratura moderna, colui che ebbe il verso «più dolce» nella poesia spagnola. Pubblicata nel 1634, questa Gattomachia è un gioiello che potrebbe facilmente perdersi nell’oceano dei versi di Lope (circa un milione, secondo stime prudenti): ma qui la isoliamo nella prima traduzione italiana quale ineguagliato Epos del Gatto. -
Stalin
Questo libro è il primo che abbia detto alcune essenziali verità su Stalin. E le ha dette così presto, e con tale nettezza, che la sua presenza ha accompagnato come un’ombra gli ultimi vent’anni di vita del capo sovietico, oltre che la sua fortuna postuma. Non solo: le ha dette per bocca di uno storico che era stato uno dei segretari della Terza Internazionale, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese, collaboratore di Lenin, Trockij, Zinov’ev, Bucharin, Radek, Rakovskij, Klara Zetkin, Gramsci, Bordiga, infine amico e compagno di Simone Weil nelle lotte del sindacalismo rivoluzionario in Francia. Souvarine giunse dunque a capire la natura di Stalin e del bolscevismo dall’interno, e da un interno assai intimo, senza però che la sua visione fosse a sostegno di un certo bolscevismo contro un certo altro, come avvenne invece ai molti trockisti che denunciarono i misfatti di Stalin negli Anni Trenta. Souvarine presentò per la prima volta all’Occidente un’immane quantità di fonti e documenti, fino allora ignorati o letti rozzamente: e soprattutto illuminò questo materiale con una lucidità e una fermezza esemplari, che vi facevano risaltare non solo il profilo della persona Stalin ma quello che Souvarine chiamò il «disegno storico del bolscevismo». Pubblicato a Parigi nel 1935, dopo complesse vicissitudini editoriali, lo Stalin di Souvarine ebbe un’edizione ampliata nel 1940 – e infine, nel 1977, dopo lunghi anni in cui il libro era introvabile e ricercatissimo, riapparve nell’edizione che qui si presenta, con l’aggiunta di un capitolo sugli ultimi anni di Stalin e di una preziosa prefazione in cui l’autore ha raccontato la tortuosa storia della sua opera. A Georges Bataille, amico di Souvarine, che gli chiedeva notizie sulle decisioni dell’editore Gallimard riguardo allo Stalin, André Malraux rispose: «Penso che lei abbia ragione e, con lei, Souvarine e i vostri amici, ma sarò dalla vostra parte quando sarete i più forti». Il tempo sembra aver rafforzato in modo inaudito, con le rivelazioni e i fatti che si sono sgranati negli anni, la posizione di Souvarine. Ma non per questo oggi il suo libro si pone dalla parte dei «più forti». Rimane il fatto che rare volte gli eventi hanno a tal punto accentuato l’attualità di un libro di storia contemporanea come in questo caso. Tre decenni prima che il mondo occidentale cominciasse a capire il significato della sigla GULag, Souvarine scriveva: «Se si pensa alle condizioni miserabili dei milioni di deportati, alle masse di forzati maltrattati e ai campi di concentramento nei quali una spaventosa mortalità apre larghi vuoti, ai campi di isolamento e alle carceri gremite, ai milioni di bambini abbandonati fra cui una esigua percentuale riesce a sopravvivere alle esecuzioni capitali e alle spedizioni punitive, in breve alle moltitudini “falciate a larghe bracciate” da Stalin, non c’è da stupirsi davanti agli immensi carnai di questa gigantesca prigione definita con doppia antifrasi “patria socialista”». -
Romanzi brevi: La tela del ragno-Hotel Savoy-La ribellione-Il peso falso
Questo volume raccoglie quattro romanzi brevi, che hanno grande importanza nell’opera di Roth. I primi tre (La tela di ragno, Hotel Savoy e La ribellione) sono quelli con cui Roth si è rivelato come scrittore, fra il 1923 e il 1924, con straordinaria felicità e sicurezza nel cogliere «l’aria del tempo» e, insieme, alcuni dei propri temi essenziali. Il quarto, Il peso falso, che apparve nel 1937, appartiene invece all’ultima stagione di Roth e va considerato – accanto alla Leggenda del santo bevitore e al Leviatano – come uno di quegli apologhi narrativi, in certo modo testamentari, nei quali lo scrittore ha racchiuso il senso segreto della sua opera. Si sfiora dunque, in queste pagine, l’intera tastiera di Roth: c’è il romanzo politico (La tela di ragno, stupefacente prefigurazione non solo del nazismo, ma di tutte le trame occulte che continuano a tessersi intorno a noi); la raffigurazione di un mondo dalle molte voci (Hotel Savoy, dove il protagonista è l’albergo stesso con le sue 864 stanze, luogo affascinante, sordido e misterioso come la vita); la storia di un singolo (La ribellione, in cui troviamo il Roth più aspro, che rifiuta ogni ordine oppressivo); infine la grande visione metafisica (Il peso falso, storia di un verificatore dei pesi e delle misure, che si trova a vivere in un mondo dove tutti i pesi sono falsi). Nei primi romanzi prevale un timbro acido e asciutto, e sul fondo si avverte un pathos di rivolta sociale: sono testi mirabilmente intonati agli anni di Weimar, alla loro torbida caoticità, carica di risentimenti e di violenza. Nel Peso falso, invece, l’occhio di Roth si fissa sui temi perenni della giustizia, della passione e della colpa. E, soprattutto, si sofferma a evocare una sorta di primordiale scenario della sua arte: l’Osteria della Frontiera, dove si aggirano la bella zingara Euphemia e l’infido contrabbandiere Kapturak, dove la legge e il delitto giocano una interminabile partita di tarocchi. In quel luogo di continuo passaggio, che sa di fumo, di alcol e di letti sfatti, dove gli avventori portano quasi sempre nomi falsi, si consuma il destino del verificatore dei pesi e delle misure Eibenschütz. Ma si direbbe anche che a uno di quei tavoli sia stata scritta tutta l’opera narrativa di Joseph Roth, testardamente devota all’inesauribile impresa di «stabilire e verificare ... misura e peso degli eventi». -
Il re e il cadavere. Storia della vittoria dell'anima sul male
Heinrich Zimmer era un grande studioso dell’India, ma in questo libro – forse il suo più affascinante – ha voluto presentarsi come «dilettante fra i simboli». Dilettante significa qui colui che trova un inesauribile diletto nelle immagini, nelle storie che, rampollando di civiltà in civiltà, accompagnano la nostra memoria e, intrecciandosi le une con le altre, finiscono per avvolgerci in una rete che non ci è meno vicina della rete dei nostri nervi. Nodi di quella rete sono i simboli, e questo libro è dedicato appunto a «coloro che si dilettano di simboli, amano conversare con essi e amano vivere tenendoli continuamente presenti». Ai simboli si applica la sentenza delle Upanisad: «L’abbondanza si attinge dall’abbondanza, eppure l’abbondanza rimane». La loro ricchezza non viene intaccata dall’usura del tempo, e nessuna interpretazione riesce a sequestrarla. La loro muta presenza è un continuo invito ad affrontare il «compito interminabile di sondare le acque tenebrose del significato»: di quelle acque Zimmer è un mirabile traghettatore. Guidati da lui, ritroveremo in queste pagine le grandiose intemperanze degli dèi indù ma anche seguiremo la storia dell’avaro Abu Kasem e delle sue maligne babbucce, che non vogliono abbandonarlo, o quella del principe irlandese Conn-eda o le vicende di Lancillotto e Merlino, che qui si dispongono con luminosa precisione nel luogo che a loro è destinato sul manto incantato di Maya: l’uno come immagine dell’Amante, perennemente fedele nella sua infedeltà, l’altro come immagine del Mago, che alla fine preferisce lasciarsi ingannare dalla sua stessa magia. Zimmer non ha certo l’ingenua pretesa di strappare d’imperio il loro segreto a queste storie auguste e beffarde, sa che le storie vogliono innanzitutto continuare a essere raccontate e che, per cogliere il senso dell’Avventura, bisogna abbandonarsi all’avventura della narrazione. Così per questo libro ha inventato una forma peculiare e felice, che è insieme racconto e riflessione, in equilibrio fra una limpida arte narrativa, che ricorda Hofmannsthal, e una sapienza psicologica che accenna a Jung: un delicato, esaltante processo di riappropriazione delle immagini, perché tornino a circolare nelle nostre vene. -
Mente e natura. Un'unità necessaria
Nei suoi ultimi anni, Gregory Bateson, il maestro della «ecologia della mente», volle provare per una volta a esporre il suo pensiero – e soprattutto il modo di procedere del suo pensiero – in un solo libro: questo Mente e natura, che apparve nel 1979, pochi mesi prima della sua morte. In fondo, la preoccupazione centrale delle sue multiformi ricerche – che avevano toccato la biologia e l’antropologia, la psichiatria e l’epistemologia, lasciando ovunque tracce incancellabili – era stata sempre una sola: scoprire, descrivere, esplorare la «struttura che connette», quella struttura che è la risposta a una domanda qui presentata sulla soglia del libro: «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». Sono queste le domande prime e ultime – e troppo spesso sono proprio quelle che vengono schivate. Con il suo sbalorditivo dono pedagogico, Bateson ci mostra come porle subito – e ci mostra anche che esse riappaiono intatte, come una sfida, alla fine di ogni processo conoscitivo. Comunque, se a una risposta dobbiamo avvicinarci, la via regale sarà, per Bateson, quella di porsi un’ulteriore domanda: che cos’è la mente? Così questo libro andrà considerato quale «inizio di uno studio su come pensare all’attività del pensare». Lo sforzo maggiore di Bateson consiste qui nell’isolare alcune caratteristiche irriducibili della mente – e nel mostrare l’intrecciarsi altrettanto irriducibile fra pensiero ed evoluzione. È questa la parte più nuova e più audace del libro, che Bateson illustra con i suoi accenni rapidi, appuntiti, carichi di potenziali sviluppi. Esempi, analisi, accostamenti imprevisti vengono così a suffragare la convinzione originaria di Bateson: quella che il conoscere, il conoscere di ciascuno di noi, sia «una piccola parte di un più ampio conoscere integrato che tiene unita l’intera biosfera o creazione». -
Ascolto il tuo cuore, città
In margine a questo libro, Savinio avverte il lettore che si tratta di «un libro discorsivo: un entretenimiento». E subito aggiunge che questa forma di «lungo e tranquillo conversare» è per lui la più ambiziosa, in quanto sottintende tutta la civiltà: qui «la fase cosmogonica della poesia – e del pensiero – è superata, sottintesa, e “taciuta”; per quel pudore che è regola rigorosa sul piano di questa superiore civiltà. Ormai non si opera più, non si cede più alla bassa ambizione di mettere le mani in pasta. Si rievoca soltanto. Si passa tranquilli, indifferenti, fra i ricordi che il dramma ha lasciato dietro di sé. E solo c’è voce per un discorso calmo. Poi, più oltre, più su, luogo non ci sarà nemmeno per un discorso; ma solo per il silenzio». Una volta decifrato tale impeccabile cartiglio, che illustra non solo questo libro ma tutta l’opera di Savinio, siamo pronti a seguire questo «lungo conversare» che – ci accorgeremo presto – è anche un passeggiare: passeggiare per Milano, scoprendo in questa città (che Savinio si azzarda a definire «dotta e meditativa: la più romantica delle città italiane») una selva di associazioni, di figure, di fantasmi, di fatti. Per lo scrittore, Milano è una robusta, onesta stoffa su cui ricamare divagazioni. E la divagazione è per lui anche il pretesto per contrabbandare i frammenti di una sottile confessione autobiografica. Ovunque si spinga in questo suo urbano girovagare, Savinio è assistito dalla sua amica più fedele, l’ironia, intesa come «maniera sottile d’insinuarsi nel segreto delle cose», virtù tanto più necessaria a Milano, che si presenta come «città tutta pietra in apparenza e dura», mentre è «morbida di giardini “interni”». E, a fianco di Savinio, quale perenne compagno di conversazione riconosciamo un’ombra, il milanese Henri Beyle. Da lui, solo da lui, Savinio ha derivato un certo sguardo amoroso che si posa sui dettagli della città – e persino un gesto che ormai è una sfida dell’immaginazione, respirare «a pieni polmoni l’odore della sua cara città, ch’è l’odore di legno bruciato esalato dai camini e custodito dalla nebbia». -
Discorsi sacri
Questo libro è «la prima e unica autobiografia religiosa che il mondo pagano ci ha lasciato» (Dodds), ma anche in certo modo il primo caso clinico che conosciamo, documentato dal paziente stesso. Tutta la vita di Elio Aristide ruota infatti intorno a un male psichico, mutevole e insidioso. E al tempo stesso intorno alla divinità che salva dal male: Asclepio. Nel santuario del dio, a Pergamo, si compiva il rito dell’incubazione: il paziente andava in quel luogo a sognare, e l’intervento guaritore del dio avveniva appunto nel sogno. Si creava così una sacra intimità fra il paziente e Asclepio. Da essa è dominata tutta la vita di Aristide: questo abile e fecondo retore, sempre oscillante fra la minuziosa ossessività nevrotica e la maestà sciamanica, ha scelto, per raccontare la storia della sua anima, una forma tortuosa, in un perpetuo intreccio fra sogni risanatori ed eventi perturbanti: intreccio di cui è superfluo sottolineare la sconcertante modernità. E un’altra sensazione ci colpisce subito in questo testo: mai avevamo avuto l’impressione di calarci così profondamente nella vita quotidiana di uno scrittore dell’antichità classica. A lungo trascurati per la loro eccessiva stranezza, questi Discorsi sacri, che risalgono al secondo secolo dopo Cristo, epoca della suprema fioritura dell’Asclepieo di Pergamo, vengono oggi riscoperti e rivendicati quale «documento unico, e uno dei più notevoli del mondo antico» (Festugière). -
Cristallo di rocca
Cristallo di rocca (1853) è la storia di due bambini sperduti fra i ghiacci in una tempesta di neve, alla vigilia di Natale. Avanzano «con la tenacia e il vigore che hanno i bambini e gli animali, perché non sanno ciò che li attende e quando le loro energie saranno esaurite». Ma un paesaggio sempre più estraneo e impenetrabile li avvolge, come una sterminata, candida prigione. Nella passeggiata avventurosa di questi due bambini fra il paese della nonna e quello dei genitori, Stifter ha fissato l’immagine stessa che governa tutta la sua arte: quella di una natura familiare e intima, che si spalanca poi, se appena deviamo dal sentiero battuto, in uno spazio inquietante, primordiale, dove la nostra presenza è quella di «puntini minuscoli» fra «blocchi immensi». Il mondo di Stifter è devoto ugualmente alla minuzia e alla grandiosità; alle orme nella neve, delle quali il calzolaio del paese dice: «Non sono di scarpe di mia lavorazione», e al tempo stesso ai ghiacci abbaglianti, alle caverne azzurrine che ci introducono a palazzi incantati e infidi. Questo racconto mirabile ricalca un antico modello di fiaba: quello delle storie di bambini perduti e scampati alla morte. Ma l’emozione che esso evoca sembra risalire ancora più indietro, a un’alba silenziosa precedente a ogni storia, allo sgomento ammaliato del bambino dinanzi alla «tenebra bianca» della natura. -
Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico
Con questo libro si rivelò al mondo, nell’anno 1911, la scienza delle scienze, che tutte le altre ingloba e vanifica: la patafisica, «scienza delle soluzioni immaginarie», che si prefigge di studiare le leggi che reggono le eccezioni (quindi, in modo più o meno evidente, tutto) e di spiegare l’universo supplementare al nostro. Suo araldo è il dottor Faustroll, «negromante moderno, mescolanza di uomo e di marionetta, di trasposizione mitica e di caricatura» (Sergio Solmi). Al pari di tanti eroi delle favole, il dottor Faustroll deve compiere un viaggio – e la sua imbarcazione si spingerà indifferentemente per terra, per mare o per le vie della città. Le varie «isole» a cui approda sono altrettante costellazioni sull’atlante celeste della décadence, come dire su quello che ancora oggi è il nostro cielo. Lì vegliano invisibili numi protettori, che rispondono volta a volta ai nomi di Lautréamont e di Bloy, di Mallarmé e di Gauguin, di Schwob e di Verne. E lì sentiremo risuonare l’inestinguibile riso patafisico, che si sovrappone a quello più antico di Rabelais, in quanto «coscienza viva di una dualità assurda e che salta agli occhi». In quanto tale, precisava Daumal, esso è «la sola espressione umana dell’identità dei contrari (e, cosa notevole, ne è l’espressione in una lingua universale)».