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L' adone
Se cè unopera letteraria in cui il Barocco non solo italiano, ma europeo ha trovato il suo culmine, e quasi laccensione ultima di tutte le sue peculiarità, è LAdone di Giovan Battista Marino, scrittore «che le bocche unanimi della Fama (per usare unimmagine che gli fu cara) proclamarono nuovo Omero e nuovo Dante», come ricordò Borges in una pagina memorabile al Marino appunto dedicata. Le parole di Borges alludevano alla fortuna dellAdone: questo smisurato poema erotico, dove le favole della mitologia greca e la sensibilità più moderna si fondono in una narrazione variegata, fluida e avvolgente, fu celebre ai suoi tempi, ma scarsamente letto in epoche più recenti. Oggi lo riscopriamo come uno dei capolavori della letteratura italiana, vera miniera di immagini, campo magnetico di unintera civiltà e ciò con tanto maggiore gusto e sicurezza se ci inoltriamo nellimponente apparato critico che ha preparato per questa edizione uno dei maggiori italianisti viventi, Giovanni Pozzi. Ledizione attuale dellAdone ripresenta, riveduta e ampliata, quella milanese del 1976. «Io ho avuto la fortuna di leggere LAdone del Marino, in età estremamente adolescente, a diciassette o diciotto anni. È stata una lettura che probabilmente mi ha corrotto definitivamente perché mi ha dato un tale piacere leggere questa cosa dissennata, questa macchina demente, questo coacervo di versi sonori e molto spesso anche ambigui o sordidi, o vilmente corruttivi, che mi ha affascinato moltissimo» - Giorgio Manganelli -
Il cavaliere e la morte. Sotie
Il protagonista di questo romanzo è un commissario di polizia, il cui solo nome qui è Vice: sostituto, forse di qualcosa che non c’è affatto, supplente di una realtà già scomparsa, o dilatata fino a diventare irreale, come la moneta in tempo di inflazione. Nella mente di Vice, molto malato, sembra svolgersi la storia che leggiamo: storia di un biglietto minaccioso e misterioso scambiato fra due Potenti a un pranzo, scambio a cui fa subito seguito l’assassinio di uno dei due e l’indagine della polizia sull’altro, avviata con l’ansia di scagionarlo. Ma ciò che si sprigiona nella realtà da quel biglietto scambiato non è solo un delitto: una intera associazione eversiva, i figli dell’ottantanove, è forse nata in quel momento, e da allora non può che dilagare nella realtà, come un ultimo miraggio di sangue e insieme come beffardo contributo alle celebrazioni per l’anniversario della Rivoluzione francese. Mentre l’azione si dipana, mutandosi in un potente apologo, il Vice tiene sempre nella mente l’incisione di Dürer intitolata Il cavaliere, la morte e il diavolo, che lo ha accompagnato sulle pareti di tante stanze, nelle sue peregrinazioni da un ufficio all’altro, come se in quell’immaginazione stesse il segreto di ciò che avviene intorno a lui. Solo che il mondo, ormai, sembra poter fare a meno del Diavolo. Forse perché ormai «il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui». -
Fernando Pessoa. Immagini della sua vita
Fernando Pessoa è passato in pochi anni da autore noto a pochi ad astro della mitologia letteraria moderna. La sua Lisbona, la sua vita dai soggetti multipli, il baule pieno di manoscritti che facevano nascere ogni volta nuove fisionomie di scrittori, fanno ormai parte dei sogni di ogni lettore. Tanto più preziosa sarà questa biografia per immagini che per la prima volta raccoglie le tracce fotografiche della vita di Pessoa, in apparente opposizione con Pessoa stesso, il quale una volta confessò in una lettera una sua «certa riluttanza a farmi delle fotografie». Sono testimonianze intrise di un sottile fascino, che riesce a intaccare con lirrealtà pessoana anche le immagini più normali. E finalmente ci appariranno qui i volti e i luoghi che furono la scena della sua vita. Nella sua fuga sapiente dalla realtà quotidiana, Pessoa ancora una volta riuscirà vincitore. -
Il re del mondo
Nel 1924 apparve a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski, dal titolo Bestie, uomini e dèi. Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell’Asia centrale, nel corso del quale l’autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono ovunque: il capo supremo di questo centro era detto Re del Mondo. René Guénon prese spunto da tale pubblicazione per mostrare, in questo breve e splendido libro, come, dietro alle confuse narrazioni di Ossendowski e di altri scrittori, si profilassero dottrine e miti immemoriali, di cui si ritrovavano tracce dal Tibet (con la sua nozione dell’Agarttha, la terra ‘inviolabile’) alla tradizione ebraica (con la figura di Melchisedec e della città di Salem), e così anche nei più antichi testi sanscriti, nel simbolismo del Graal, nelle leggende sull’Atlantide e in tanti altri miti e immagini. A mano a mano che si svelano questi rapporti, siamo còlti come da una vertigine: con pochi e sobri gesti Guénon riesce a mettere in contatto tali e così diverse cose che alla fine ci troviamo dinanzi a una sterminata prospettiva, che traversa tutta la storia fino a oggi, dalle origini inattingibili della Tule iperborea fino all’occultamento del centro iniziatico nella nostra ‘età nera’, il Kali-Yuga. In poche pagine, e tutto per immagini, Guénon disegna dunque la linea della trasmissione della Tradizione primordiale, sicché questo libro potrà valere per molti come introduzione al pensiero di un maestro solitario e indispensabile del nostro tempo. -
Doppio sogno
Un ballo in maschera, due misteriose figure in domino rosso, uno straniero insolente, qualche parola incomprensibile e allusiva: queste apparizioni gettano, una sera, «un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo» nella vita di un medico e di sua moglie, giovani, belli e chiusi in un’ovattata felicità domestica. Da quel momento essi entrano, senza saperlo, in un intreccio speculare di peripezie notturne tanto inverosimili da sembrare oniriche e di sogni tanto invadenti da sembrare fatti reali: e, per tutti e due, i desideri segreti occuperanno la scena, per una notte, con una violenza e una fascinazione tali che li trascineranno inermi con sé, tra la voluttà e l’angoscia. Come in un film di von Stroheim, dalla Vienna borghese e tranquilla emergono inquietanti personaggi, le maschere dilagano, si aprono porte segrete, si svelano esseri equivoci, incombono giudici oscuri e feroci. Alla fine, un fascio di fredda luce clinica illuminerà il corpo bianco ed esanime di una sconosciuta, e in essa il protagonista riconoscerà «il cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione». Non senza, però, aver anche irrevocabilmente mutato la vita del giovane medico e della sua compagna. Insieme al Ritorno di Casanova e alla Signorina Else, il Doppio sogno (1926), racconto chiaroveggente e immerso in un incanto surreale, è una delle riuscite supreme di Schnitzler, ormai sempre più spesso riconosciuto, in questi ultimi anni, come uno dei grandi narratori psicologici della letteratura moderna, per il sorprendente spessore e la temibile lucidità delle sue storie, che sembrano aver dato fin dall’inizio per sottintese le scoperte della psicoanalisi. -
Enten-Eller. Vol. 2: Un frammento di vita
Con la presente edizione di Enten-Eller si può dire che il lettore italiano viene messo in grado di leggere per la prima volta quell’opera geniale e indispensabile di Kierkegaard finora conosciuta sotto il titolo Aut-Aut. In questo volume molte saranno le sorprese, sia perché due dei quattro saggi qui contenuti (Silhouettes e la singolare, apparente divagazione su Les premières amours di Scribe) compaiono per la prima volta nella nostra lingua, sia perché gli altri testi (fra cui quello memorabile sul Tragico, che anticipa clamorosamente Nietzsche, Wagner e ciò che ne è seguìto) ritrovano finalmente il loro posto giusto nella sapiente e sconcertante architettura, piena di rispondenze e di enigmi, ideata da Kierkegaard. Solo così, per esempio, si potrà cogliere il senso globale di una straordinaria sequenza di figure femminili, da cui Kierkegaard prende ‘occasione’ (e l’occasione stessa diventa qui categoria filosofica) per presentarci le sue riflessioni: l’Antigone di Sofocle, la Marie Beaumarchais di Goethe, Donna Elvira della ‘leggenda’ di Don Giovanni, Margherita della ‘leggenda’ di Faust e infine Emmeline, la fatua protagonista della commedia di Scribe. E proprio con questo accorgimento di far parlare il pensiero attraverso personaggi teatrali, Kierkegaard ci introduce per vie serpentine al cuore del suo pensiero, al tempo stesso inventando quella forma di ‘pensare narrando’ di cui dobbiamo ancora recuperare la modernità. -
L'anticristo. Maledizione del cristianesimo
Le opere che, in sequenza incalzante, Nietzsche riuscì a scrivere in pochi mesi nel 1888, prima di sprofondare nella follia, si presentano innanzitutto come una sorta di fulminea chiusura dei conti: con Wagner e la musica (Il caso Wagner), con la filosofia (Crepuscolo degli idoli), con se stesso (Ecce homo). All’Anticristo, infine, spetta la funzione di chiudere i conti con il cristianesimo, oggetto sempre più ossessivo delle analisi e degli attacchi dell’ultimo Nietzsche. Il tono è ultimativo, da manifesto, preludio a un’«azione» che doveva essere un attacco radicale a tutta la nostra civiltà. Ma, al tempo stesso, Nietzsche si mostra qui ancora una volta di una sottigliezza psicologica (nel suo senso) prodigiosa, come dimostrano le parole bellissime, e profondamente amiche, sulla figura di Cristo. Mentre la condanna del cristianesimo e della morale convogliano in sé quella, più generale, contro tutte le forze nemiche della vita e capaci di camuffarsi dietro le potenze della religione e della cultura. Contro di esse Nietzsche scende definitivamente in guerra in queste pagine devastatrici, giungendo a siglare, alla fine, la sua «legge contro il cristianesimo» col nome terribile dell’Anticristo, in quanto «trasvalutatore di tutti i valori». -
Saggio su Pan
Chi è Pan? E chi sono gli dèi della Grecia? Tutta la cultura moderna – basta pensare a Hölderlin e a Nietzsche – è stata traversata dal desiderio di un ‘ritorno alla Grecia’ di cui qui Hillman ci aiuta a riscoprire le motivazioni profonde e la tortuosa storia. L’immenso lavorio degli studi sull’antichità classica negli ultimi due secoli è andato di pari passo con l’erosione di quel modello monocentrico di cultura che ci ha trasmesso la tradizione giudeo-cristiana. Così la ricerca della Grecia si è collegata con la riscoperta di un modello policentrico, dove i nuclei sono i vari dèi. E quei nuclei vivono ancora in noi. Poggiando sulle tesi di Jung, ma spingendole alle loro conseguenze più radicali, Hillman ci mostra come l’immagine di Pan continua a manifestarsi nella nostra esperienza, dietro le maschere della psicopatologia. Il panico, lo stupro, la masturbazione, l’incubo, la malia delle ninfe, la sincronicità – sono tutti fatti oscuri che in qualche modo si rivelano governati dal potere di Pan, e grazie a esso possono acquistare senso, invece di continuare ad agire ciecamente. Ma perché il dio possa operare in noi, perché il dio che rende pazzi possa anche guarire la nostra follia, bisogna che ritroviamo ciò che qui Hillman, sulla scia di Corbin, chiama l’immaginale, un livello di percezione e di esperienza delle immagini a cui la nostra storia ha tentato in ogni modo di impedire l’accesso. Scritto con felice piglio polemico, questo saggio, che rivendica «una regressione che sia peculiarmente ‘greca’» e ne argomenta lucidamente le ragioni, ci introduce subito nel cuore dell’opera di uno degli psicoanalisti che più hanno fatto in questi anni per criticare rigorosamente dall’interno la psicoanalisi e la sua storia. -
La torre
Due opere necessariamente incompiute accompagnano la vita di Hofmannsthal e sembrano esserne il cuore: da una parte il romanzo Andrea, dall’altra La Torre, il dramma che riprende la vicenda della Vita è sogno di Calderón. Il magico viaggio veneziano fra le maschere – e l’implacabile, statico cerimoniale spagnolo: sono le due facce di quella ‘Romània’, di quello specchio latino utopico dell’Impero absburgico, che è un fantasma perennemente attivo in Hofmannsthal e quasi il «luogo del suo linguaggio», come osserva Massimo Cacciari nel lungo saggio che accompagna questa edizione: un saggio che, a partire da questo fantasma, riesce a illuminare nelle sue articolazioni più segrete e delicate tutta l’opera di Hofmannsthal. Dal 1901 fino alla morte, nel 1929, Hofmannsthal lavorò a più riprese intorno alla Torre (di cui qui pubblichiamo l’ultima versione, del 1927, con l’aggiunta in appendice degli ultimi due atti della versione del 1925) – e la storia di come quest’opera gli si trasformò fra le mani equivale a una confessione. Il significato della vicenda di Sigismund – il principe prigioniero nella Torre, come una bestia selvaggia, perché gli astri hanno indicato in lui chi rovescerà l’Ordine – viene avvicinato sempre di più, e sempre più disperatamente con gli anni, alla situazione che Hofmannsthal viveva: quella di una crisi estrema di tutta la civiltà europea. La Torre è il vero (e in certo senso l’unico) «dramma del potere» dell’età moderna: in esso una visione lucidissima, disincantata del Politico si delinea su uno sfondo di macerie, quelle stesse che, per Walter Benjamin, formavano la scena naturale del «Trauerspiel» barocco tedesco: le macerie di un Ordine che ha perduto ogni possibile legittimità, e che perciò – non potendo più raggiungere la pace vera della «harmonia mundi» – si riduce a uno strumento scordato, luogo di tutti i conflitti e di tutte le separazioni. La Dittatura, allora, sarà il tentativo di celare con l’imposizione questa mancanza di fondamento del potere. E la grande arte di Hofmannsthal si rivela nell’offrirci questo conflitto insanabile «in figure», secondo il senso benjaminiano dell’allegoria – e perciò scavalcando le viete soluzioni del dramma di idee. Queste pagine, per la loro densità e per l’audacia della concezione formale, si distaccano radicalmente da tutto il teatro esplicitamente ‘politico’ del Novecento: come adeguato contrappeso, reggono soltanto Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, il grande antagonista di Hofmannsthal. Entrambi questi testi diversissimi sono una messa in atto dell’«impossibile» tragico moderno, presentato appunto nella sua impossibilità. -
La cura
Una pausa di due settimane nella vita di un intellettuale che aspira alla saggezza lo spinge – attraverso piccoli fatti in apparenza irrilevanti – a dubitare con buone ragioni di sé: e quell’intellettuale è Hesse stesso, che ironizza stupendamente sulla propria persona. Questo conflitto silenzioso, involontariamente comico ma non perciò meno duro, si svolge entro la cornice antiquata di una stazione termale: su tale pretesto, Hesse ha costruito una delle sue più perfette parabole, La cura (1925), che segue di poco a Siddharta (1922) e in certo modo ne è «l’altra parte». Come lì si assisteva a un itinerario verso l’illuminazione, qui si ‘smonta’ un illuminato occidentale troppo sicuro di sé, che viene messo in crisi da piccoli incidenti quotidiani – e da ciò è condotto a rivedere certe sue convinzioni troppo tranquille. Ma il punto di arrivo è lo stesso: in quella «psicologia dell’occhio cosmico» che è il grande dono di Hesse e davanti alla quale «non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». -
Incontri con animali
I molti lettori di La mia famiglia e altri animali sanno bene quale straordinario dono abbia Gerald Durrell per parlare di animali. Le sue esperienze di scienziato e viaggiatore in ogni parte del mondo alla ricerca di animali rari da salvare sono vastissime: ma è soprattutto la percettività del suo occhio, la partecipazione appassionata ai fatti della vita che rendono i suoi libri irresistibilmente attraenti. Incontri con animali è una serie di rapide storie accadute a Durrell e di «ritratti di animali», dai più domestici ai più selvaggi, da lui incontrati nell’Africa Occidentale e in Sud America, per la maggior parte. Sono storie che si snodano come una conversazione tra vecchi amici – e alla fine avremo l’impressione di essere circondati da svariati personaggi, evocati spesso in poche parole: da un formichiere femmina neonato, che si nutre col biberon, ad alcune maestose tigri, osservate nei loro drammatici corteggiamenti. Come ha scritto il «Times Literary Supplement»: «Se animali, uccelli e insetti potessero parlare, Gerald Durrell sarebbe probabilmente uno dei primi a ricevere da loro il Premio Nobel. Durrell è l’opposto dei vecchi naturalisti che si portavano dietro zanne e pelli e campioni di animali sotto vetro. Le sue creature sono vive come il suo stile». -
Walter Benjamin e il suo angelo
Tutta l’opera di Walter Benjamin è protetta dall’ala di un’immagine: quella di un acquarello di Klee, dal titolo Angelus Novus. E questa immagine, a sua volta, può essere intesa in tutti i suoi densi e sovrapposti significati soltanto se la si mette in rapporto con un breve, stupendo racconto in cui Benjamin svela qual è il suo «nome segreto»: Agesilaus Santander. Siamo qui, dunque, nel cuore del cuore di un’opera che, sempre più con gli anni, ci appare di una prodigiosa ricchezza di pensiero. E nessuno poteva essere più adatto di Gershom Scholem a interpretare questa cifra nascosta di tutto Benjamin. Scholem, infatti, grande ebraista e autore di fondamentali studi sulla cabbala, fu l’amico più intimo e affine di Benjamin per molti anni. E, proprio per la sua conoscenza magistrale della mistica ebraica, egli poteva apprezzare l’inesauribile sottigliezza teologica applicata da Benjamin con audacia a ogni sorta di materiale ‘profano’, dalla letteratura, al marxismo, alla sua stessa persona. Esaminando puntigliosamente, frammento per frammento, questo «mito dell’angelo», da cui discendono gli aggrovigliati rapporti di Benjamin sia con la Storia sia con se stesso, Scholem ricostruisce una sorta di percorso occulto che si può intravedere nella vita di Walter Benjamin. Il presente volume, oltre al saggio Walter Benjamin e il suo angelo (dove il lettore troverà, per la prima volta tradotto, il racconto Agesilaus Santander), contiene un profilo di Walter Benjamin scritto da Scholem nel venticinquesimo anniversario della morte del grande scrittore e amico, testo che ci offre una preziosa introduzione alla sua opera. -
Istruzioni alla servitù
Come e qualmente i Servitori possano e debbano disubbidire, confondere, ingannare, ridicolizzare, truffare, svergognare, umiliare i loro Padroni. Tale è l’oggetto a cui si dedica questo irresistibile trattatello, che accompagnò Swift per più di trent’anni e fu pubblicato infine nell’anno della sua morte, il 1745. Ad esso Swift confessò di dare grande importanza: e lo si può ben capire, non solo per l’incessante presenza, in queste pagine, del genio comico, ma per il loro valore in qualche modo di beffardo messaggio testamentario. Di fatto, nell’immemoriale guerra tra Servi e Padroni, questo trattatello, pur ostentando una sventata leggerezza, segna una data davvero storica e augusta. Qui Swift ha predisposto un vero manuale di sabotaggio, che ogni lettore accorto potrà facilmente trasporre dalla cucina a tutti gli altri possibili luoghi. Mostrandoci il Servitore che vessa il Padrone e lo sfrutta in ogni modo, egli ha leso l’aureola della Sovranità ben più gravemente che con un pamphlet di immediato tema politico. E insieme ha tracciato una Piccola Antropologia del Risentimento destinata ad avere molta fortuna. Ma bisognerà anche dire che Swift non sarebbe quell’immenso artista che è se per lui l’occasione, l’esempio non valessero anche e innanzitutto di per sé: così, anche trascurando le trasparenti applicazioni ‘ad altro’ di questo testo, non si può non rimanere incantati (ed esilarati) di fronte al quadro di nefandezze domestiche, descritte in ogni loro minuzia, che Swift ci offre, condensando a volte in poche righe intere epopee di dispetti e rappresaglie che dovevano essersi depositate per secoli, insieme alla polvere nelle case patrizie inglesi. -
L' intelligencija e la rivoluzione
Quando Blok pubblicò il saggio Intelligencija e rivoluzione, nel gennaio 1918, nei giorni decisivi della rivoluzione russa, grande fu l’eco delle sue parole. Perché con esse uno dei più prestigiosi poeti e portavoce dell’intelligencija – questa categoria peculiarmente russa, che è venuta a inglobare in sé tutta la nostra concezione degli «intellettuali» – si schierava dalla parte dei bolscevichi, all’insegna del motto: «Rifare tutto». Ci fu chi gridò al tradimento, altri seguirono Blok con entusiasmo. Ma, se si percorrono i suoi saggi qui per la prima volta raccolti, in parte scritti in quei vent’anni prodigiosi per la Russia che precedettero lo scoppio della Rivoluzione, in parte reazione diretta a quell’evento incommensurabile, vediamo che la posizione di Blok non è tanto il frutto di un convincimento politico («politicamente sono un analfabeta» scrisse una volta), quanto l’annuncio di un rinnovamento globale, dove le ambizioni cosmiche del simbolismo si mescolano con la furia elementare di Bakunin e l’antica spinta messianico-visionaria della cultura russa. Queste potenze diverse, che poi sarebbero diventate nemiche o comunque separate, convivevano in Blok in un precario e stupefacente equilibrio. Ed è anche per questo che leggere oggi i saggi di Blok è così emozionante – e dà una nostalgia che si rivolge al futuro. Come egli scriveva: «La vita ha valore soltanto se le si pone una esigenza infinita: tutto o nulla; attendere l’inaspettato; credere non già “in ciò che non esiste sulla terra” ma in ciò che deve esistere sulla terra, anche se non esiste ancora e non esisterà per lungo tempo». -
Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali
Aurora è l’opera con cui Nietzsche si avvia verso quella «guarigione», che viene a coincidere con la sua perfetta maturità, ed è anche l’opera in cui diventa centrale la «passione della conoscenza», a cui Nietzsche si abbandonerà fino all’ultimo. Lo stile aforistico raggiunge qui uno dei suoi apici: con le sue antenne ipersensibili Nietzsche si avvicina ai temi più vari: dal cristianesimo ai valori morali moderni, dalla décadence alla «cattiva coscienza», dalla civiltà greca al romanticismo tedesco. E ce li presenta col gesto più fermo e insieme delicato, in un libro dove – egli stesso ci consiglia – si può «metter la testa dentro e sempre di nuovo fuori, senza trovare intorno a sé nulla di consueto». -
Indiani in tuta
Jaime de Angulo seppe scrivere i suoi mirabili Racconti indiani proprio perché agli indiani d’America dedicò tutta la sua vita, mimetizzandosi quasi tra loro e assumendo la loro sensibilità, «unico bianco che volesse sedersi a mangiare con loro». E così ha potuto osservare da un punto di vista privilegiato il fenomeno inverso: il necessario mescolarsi degli indiani, per sopravvivere, alla civiltà occidentale. Questi Indiani in tuta, che sono i protagonisti del breve e intenso frammento di memorie che qui presentiamo, sono personaggi di straordinaria finezza, in bilico fra due mondi che solo de Angulo è riuscito finora a raccontarci. Dopo Alce Nero parla questa è l’altra epica, più moderna e nascosta, degli indiani d’America in contatto ormai remissivo con la civiltà dei bianchi, passati dalle loro grandi case sotterranee a squallide capanne fatte di bidoni, «piene di spifferi e di buchi nel tetto». Ma sempre aperti a quel «senso del meraviglioso» che aveva attirato de Angulo a condividere la loro vita, guardato con sospetto da molti antropologi, per i quali somigliava troppo a uno di quegli «ubriaconi che vanno in giro a rotolarsi nei fossi con gli sciamani». Eppure, forse proprio per questo, il suo occhio era tanto amoroso e lucido: «Mio Dio, è incredibile, passare dall’ascia di pietra al telegrafo senza fili nell’arco di una vita! Indiani in tuta; no, non c’è nulla di pittoresco in questi indiani ... in questi indiani che raccolgono i rifiuti dei bianchi nei mucchi della spazzatura ai margini della città. I miei indiani in tuta!...». Indiani in tuta è stato pubblicato per la prima volta nel 1950. -
I temi di Fritz Kocher
Questo primo, piccolo libro di Robert Walser, illustrato dalle deliziose vignette del fratello Karl, viene pubblicato a cento anni dalla nascita del grande scrittore svizzero. Sono pagine che hanno traversato il secolo (erano apparse nel 1903) senza nulla perdere della loro freschezza. Nella prima parte, con tocco leggero e svagato – da ‘temi in classe’ di un alunno rispettoso e diligente, dietro cui affiora l’ombra di un essere selvatico e imprendibile – esse ci danno un esempio, subito perfetto, di quella che rimarrà l’arte suprema e più praticata da Walser: l’arte della ‘piccola prosa’, brevi racconti, fantasie, schizzi, dove solo Kafka gli sta a pari. Dopo questi ‘temi’ Walser ci presenta, invece, alcuni ‘ritratti’ (del ‘commesso’, dell’artista – un pittore che assomiglia molto al fratello Karl –, del bosco, che sta a rappresentare la natura tutta): e anche qui lo vediamo tracciare con sicurezza il profilo di personaggi e situazioni che poi sempre lo accompagneranno. Fra questi ritratti spicca, come un’anticipazione su tutta l’opera e la vita di Walser, quello del commesso, questo essere trascurabile e anonimo, che gli scrittori, osserva Walser con la sua perenne ironia, non avevano ancora ritenuto degno di attenzione, forse perché «troppo banale, troppo innocente, troppo poco pallido e deperito, troppo poco interessante, per servire come materia ai signori scrittori». Ma Walser non appartiene ai «signori scrittori», anzi, proprio in quella innocente quotidianità del commesso, dietro cui sta sigillata l’angoscia, riconosciamo il mondo simultaneamente felice e disperato del suo cantore – e anche la scena della sua vita, che fu per anni quella precaria e migrante di un commesso sballottato di posto in posto: un nomadismo inappariscente, che corrisponde al movimento fluido, ininterrotto, della sua prosa. -
Enten-Eller. Vol. 3: Un frammento di vita.
Questo terzo volume di Enten-Eller contiene quello che forse è lo scritto in assoluto più celebre di Kierkegaard, Il diario del seduttore, preceduto da un altro testo, La rotazione delle colture, che invece appare per la prima volta completo in italiano e sarà una sorpresa memorabile: qui, in poche decine di pagine, partendo «dal principio che tutti gli uomini sono noiosi», Kierkegaard disegna un vertiginoso arabesco metafisico, che contiene, senza troppo dichiararla, una critica distruttiva della società che lo circondava. Quanto al Diario del seduttore, il lettore potrà qui constatare ancora una volta la novità della nostra edizione di Enten-Eller rispetto alle precedenti: Il diario del seduttore era stato sempre presentato, infatti, sino ad oggi, arbitrariamente da solo, e non come parte e contrappunto di un’opera tentacolare, quale è appunto Enten-Eller. Restituito al suo luogo, e in connessione con altri testi finora ignoti al lettore italiano, Il diario del seduttore sarà letto in una prospettiva del tutto nuova. La traduzione, inoltre, si propone di far apparire in tutta la loro nettezza le sottigliezze stilistiche di quest’opera. Così apparirà, in tutti i suoi molteplici e ingannevoli piani, un testo dove il pensiero, secondo il gesto segreto di Kierkegaard, e quasi vergognandosi delle regole espositive della filosofia, si camuffa nella divagazione e nel romanzo per continuare ad aggirarsi, imprevedibile, per il mondo. E Il diario del seduttore è appunto un esempio perfetto di quel procedimento. -
Vita di Apollonio di Tiana
Si racconta che l’imperatore romano Alessandro Severo tenesse fra i suoi Lari, oltre alle effigi degli imperatori deificati e dei suoi avi, quelle di certi «santi spiriti» tra cui Apollonio di Tiana, Cristo, Abramo e Orfeo. Ma chi era questo Apollonio di Tiana, degno di stare accanto a un «nuovo dio» come Cristo o a una primordiale figura del mito come Orfeo? Ben difficile è ricostruire la realtà storica di questo «mago e stregone abilissimo» (come lo definisce Dione Cassio), su cui scarse sono le testimonianze dirette, del I secolo dopo Cristo. Ma negli anni successivi alla sua morte vediamo crescere la sua leggenda e si impone il parallelo, e il contrasto, fra Apollonio e Gesù, che doveva valere a rivendicare gli dèi pagani, ormai stanchi, e a dimostrare che i miracoli di Gesù non erano in fondo maggiori di quelli del sapiente Apollonio. Infine, tra il II e il III secolo, il letterato Filostrato (su commissione della temibile Giulia Domna, moglie di Settimio Severo e devota ad Apollonio) scriverà questa Vita che rimane una delle creazioni che meglio ci danno l’aura del tardo mondo pagano. Certo, per noi oggi quest’opera non è preziosa soltanto per le enunciazioni dottrinali (dove ritroviamo tanti tratti di un esoterismo sincretistico), quanto per la sua qualità di romanzo favoloso, dove tutto il mondo antico, da Roma all’Asia Minore, all’India, ci si mostra come sfondo delle avventure di questo mago itinerante e sentenzioso, di questo guru che è, come non potrebbe non essere, insieme cialtrone e divino. Inoltre la Vita non ci offre soltanto i fatti memorabili di Apollonio, ma ci appare come una narrazione sinuosa, piena di incantevoli digressioni etnografiche, naturalistiche, mitologiche, antiquarie. Se tentiamo di coglierne il profilo, possiamo vederla innanzitutto come una sorta di itinerario nel meraviglioso, non meno variegato e appassionante di quello di Marco Polo: «Passano così nel racconto strani animali e piante prodigiose, sterminate pianure e monti che paiono invalicabili e fiumi larghi come mari, città ciclopiche e palazzi tutti d’oro, genti d’altre razze e i loro re e sacerdoti, leggi, usanze, tradizioni di un mondo diverso» (così scrive Dario Del Corno, che qui ha tradotto, introdotto e commentato per la prima volta in italiano l’opera di Filostrato). E alla fine di questo grande viaggio Apollonio apparirà anche a noi come l’ultimo, sontuoso riflesso del mondo magico e religioso pagano prima del suo inabissarsi. E ripenseremo ai versi in cui lo evocava il grande Kavafis: «Forse non è venuto ancora il tempo / d’una sua nuova comparsa nel mondo, / o forse, ignoto, in una strana metamorfosi, / fra noi s’aggira. – Un giorno apparirà / com’era, in atto d’insegnare il vero: allora / certo riporterà il culto degli dèi / nostri, i nostri squisiti riti ellenici». -
Specchio d'astrologia
«Ho frugato i cespugli della terra e ne sono uscite le Bestie dello Zodiaco, allora ho inseguito le Bestie come in una caccia» – scrive Max Jacob in epigrafe a questo libretto. Il suo spirito estroso e pungente, che aleggiava come quello di un angelo beffardo sulla Parigi del dada e del surrealismo, riporta un ricco bottino da questa caccia: un manualetto di astrologia maneggevolissimo e preciso (scritto in collaborazione con l’astrologo Valence), dove per ogni segno, dopo gli elenchi delle varie qualità e difetti caratteristici (oltre che delle corrispondenze del segno in ogni ambito della realtà, dai sapori ai profumi alle pietre preziose), seguono come esempi viventi i ritratti delle singole Dame dei Segni. E sono ogni volta racconti leggeri e penetranti, affettuosi e acidi: ognuno reca l’impronta di un segno dello Zodiaco su persone che Jacob sa descrivere con tale familiarità da farcele sembrare vecchie conoscenze non solo sue ma nostre. Non c’è dubbio, poi, che questo libro sfugga a un vizio comune di tanti manuali di astrologia: quello di assommare troppe Virtù nei ritratti dei vari nativi, fino a stemperare le differenze. In Jacob, al contrario, vediamo che un soffio di invincibile misoginia (forse per eccesso di comprensione?) lo spinge a sottolineare, se mai, più i vizi che le Virtù delle sue Dame. Così, con calibrata frivolezza e una certa sorniona malizia, Jacob non ci offre soltanto un variegato Zodiaco femminile ma un indiretto autoritratto di Max-Jacob-fra-le-donne.