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Teatro naturalistico. Vol. 1: Il padre-Creditori.
Dopo il teatro simbolistico di Strindberg, rappresentato dal Teatro da camera e Verso Damasco, s’inizia con questo volume la pubblicazione del suo Teatro naturalistico, verso cui si è accesa in questi ultimi anni una particolare curiosità. Il padre e Creditori sono due testi fra i più importanti, e relativamente meno noti, di Strindberg. Appartengono entrambi agli anni 1886-1888, straordinariamente creativi per lui, gli stessi in cui fu scritta la celebre Signorina Julie e Predatori. È questo il periodo del massimo avvicinamento di Strindberg al teatro naturalistico: ma, anche questa volta, si tratta di una categoria letteraria che verrà in certo modo stravolta dall’autore, per farne qualcosa di inconfondibilmente suo. Il padre, che Nietzsche lesse «con profonda commozione e con eccezionale sorpresa», è un dramma che Strindberg dichiarava di aver scritto «con l’accetta e non con la penna», quadro di orrori domestici sconvolgente per intensità e chiaroveggenza; e qui, forse, Strindberg è riuscito a creare il più terribile fra i suoi personaggi femminili: una moglie borghese che, dietro le tranquille apparenze, è una vera «artista del crimine» e con poche, sottili perfidie riuscirà a far passare per pazzo il marito. Creditori è un «dramma a tre» fra due uomini e una donna: chiusi in una casa, smuovono i reciproci debiti e crediti psichici, svelando a poco a poco una storia di reciproci cannibalismi, a tratti – come tanto spesso nel miglior Strindberg – furiosamente comica e macabra, una di quelle storie in cui Strindberg è ineguagliato maestro. -
La vita di Konrad Lorenz
Quando Konrad Lorenz, nel 1973, ebbe il Premio Nobel per la medicina, insieme a von Frisch e a Tinbergen, la sua fama era già enorme – e la curiosità dei lettori già da tempo puntata su di lui come persona oltre che come scienziato. Non solo ‘padre’ di una nuova disciplina, l’etologia, che si sta ormai sviluppando rigogliosamente, ma propugnatore di tutto un nuovo modo di avvicinarsi al mondo degli animali e alla natura, evitando per quanto possibile le coazioni del laboratorio, Lorenz è uno dei rari scrittori che oggi possono essere definiti veramente popolari. Negli ultimi anni, poi, sempre più spesso, Lorenz si è proposto di segnalare, in quanto etologo, le insidie più gravi che minacciano la specie umana. E la sua autorità ha fatto sì che i suoi interventi avessero un notevole peso: basti pensare al recente referendum austriaco per la nuova centrale nucleare, dove un appello di Lorenz alla televisione contro le centrali nucleari, proprio il giorno prima del referendum, sembra esser stato determinante.rnMa qual è stato il percorso della vita di Lorenz? Questo libro di un giovane scienziato inglese lo ricostruisce per la prima volta, sulla base di un’ampia documentazione e con l’ausilio di numerose conversazioni che l’autore ha avuto con Lorenz stesso. Estremamente equilibrata nel presentare e discutere tutti gli argomenti pro e contro Lorenz, tutta la forza delle sue scoperte ma anche le debolezze di certi suoi momenti, questa biografia disegna poi con vivacità il profilo di una persona affascinante e caparbiamente appassionata alle sue ricerche, unendo la scorrevolezza e la dovizia dell’informazione. Tutta la singolare avventura dell’etologia balzerà fuori da queste pagine come una vicenda ancora in gran parte da scoprire – e al centro di essa la figura del suo protagonista, che continua ancora oggi, nella vecchia casa di famiglia di Altenberg, in Austria, a vivere insieme agli animali, come già faceva da ragazzo. Fra l’uno e l’altro momento, più di cinquant’anni di riflessioni e osservazioni che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di vedere il ricchissimo mondo degli animali.rnLa vita di Konrad Lorenz è apparso per la prima volta nel 1976. -
L' infanzia dorata-Ricordi familiari
«Linfanzia dorata era qualcosa di assai diverso dalla jeunesse dorée, da cui lespressione è derivata, e cioè non una effimera figura del costume, bensì, si potrebbe dire, un vero e proprio mito: o comunque una concezione di vita tanto più perentoria e quasi fanatica perché semisommersa nellinconscio, e tanto più fornita di attrazione collettiva perché coltivata come espressione di privilegio. «Il titolo di questo libro non dovrebbe dunque portare a fraintendimenti. La storia che qui si è cercato di ricostruire, col materiale delle memorie, è quella di uninfanzia non dorata, educata, nellItalia fra le due guerre, con quei criteri ispirati alla tradizione liberale che, nellopposizione al fascismo, serano fatti necessariamente più rigorosi. Se il racconto, quasi tutto dedicato allinfanzia (intesa in quella dimensione più ampia che ha in tedesco la parola Jugend), si conclude con uno scorcio che porta, in poche pagine, sino alla soglia della maturità, ciò è dipeso da quella naturale prospettiva per cui il ricordo di sé che si conserva dallinfanzia e che nella giovinezza viene schiacciato dal premere delle convenzioni sociali che si affrontano, si ripresenta, nella maturità, come premessa chiarificatrice dei problemi morali che ormai si sono riconosciuti come nostri». Con queste parole Elena Croce presentava Linfanzia dorata nel 1964. Oggi ripubblichiamo questo testo insieme ai Ricordi familiari, centrati sulla figura del padre, Benedetto Croce, come un dittico memorialistico di rara felicità: il lettore vi ritroverà un modo di osservare la propria vita e il proprio ambiente insieme con distanza e partecipazione, in uno stile in cui si avvertono le tracce dellappassionata familiarità dellautrice con i mondi di Hofmannsthal e di Ortega, componenti austriache e spagnole di unEuropa incompiuta a cui anche Benedetto Croce apparteneva. -
Scritti su Wagner: Richard Wagner a Bayreuth-Il caso Wagner-Nietzsche contra Wagner
L’incontro, l’amicizia e il dissidio fra Nietzsche e Wagner formano una vicenda inesauribile, che si pone sulla soglia di tutto il moderno. E non solo per l’enormità dei due amici-avversari. Ma per la natura ingannevole, enigmatica, perennemente teatrale del loro rapporto: per cui vediamo Nietzsche che, nella fase della massima venerazione per Wagner, insinua i dubbi più feroci e taglienti, mentre nella vertiginosa, beffarda prosa del Caso Wagner lascia intendere che il suo avversario è pur sempre il suo unico interlocutore. Così, passando dal Wagner a Bayreuth, che è del primo, entusiastico Nietzsche, al Caso Wagner e al Nietzsche contra Wagner, testi scritti o approntati negli ultimi mesi di Torino, si percorrerà una traiettoria davvero fatale. Per ricostruirla, mostrandone tutte le ambiguità, le prospettive, i rimandi cifrati, infine il carattere profetico rispetto a tutta la storia successiva della musica (e non solo di essa), sarà prezioso il lungo saggio di Mario Bortolotto, che per la prima volta ci offre una ricostruzione critica di quel rapporto adeguata alla multiforme grandezza dei suoi due poli. -
Rapsodie gitane
Blaise Cendrars è stato il grande avventuriero della letteratura moderna, l’eterno nomade, vorace, curioso, affabulatorio, oscillante fra la Legione Straniera e il music hall, fra le roulettes degli zingari e la pampa, fra la moviola e la Transiberiana. Da quando scappò di casa, nel 1903, a sedici anni, la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari, lo ha immerso in mondi sbarrati e cifrati per gli estranei, dove però si trovava ogni volta ad abitare con naturalezza. Viaggiava senza tregua, ma non è stato mai un turista. Quasi senza farci caso, fu tra gli inventori della poesia moderna. Ma si sottrasse subito a quella trappola che era il mestiere dell’avanguardia. Con strafottenza e fierezza, proclamava: «Io non intingo la penna in un calamaio, ma nella vita». Col suo gusto infallibile per il concreto, per la peculiarità dei sapori, trovava ovunque l’enormità, l’immagine dirompente, traboccante: nella periferia di Parigi come nei suoi vagabondaggi sudamericani (mentre i suoi colleghi andavano a Mosca: «Gli altri credevano all’avvento del socialismo perché sono di formazione universitaria, io no. Io prevedevo soltanto l’antico massacro… la guerra sofisticata dalla scienza»). Gli mancava senz’altro la «formazione universitaria», ma forse appunto per questo Cendrars fu anche una sorta di erudito selvaggio, uno dei pochi che sapevano riconoscere nelle biblioteche un’ultima giungla. Nelle Rapsodie gitane (1945) Cendrars traversa a zigzag la sua vita – e mai come in queste pagine lo sentiamo presente, in tutta la densità della sua persona. Qui Cendrars si abbandona senza ritegno all’arte della narrazione orale, in cui sapeva maestri i suoi amici gitani, quando si raccontano le storie della tribù, nelle veglie notturne accanto al fuoco. Vivere non basta, bisogna raccontare. Così, in mezzo a fascinose digressioni, maestose anse, fulminee deviazioni, lo seguiamo mentre evoca figure incancellabili: l’eccentrico poligrafo Gustave Le Rouge e i suoi armadi a specchio, la messicana Paquita, «strega depravata», dal colossale patrimonio, con la sua sbalorditiva collezione di bambole di cera, il gitano Sawo e le sue atroci storie di vendette, rivalse, gelosie tribali. E qui la letteratura, che Cendrars aveva finto di voler abbandonare, si prende la sua tarda vittoria: perché ogni storia lievita e si dilata di là da ogni possibile documentabilità biografica. C’è qualcosa di continuamente eccessivo e improbabile e, insieme, di palpabilmente vero in ciascuna di queste «rapsodie». Forse anche perché ci arrivano traversando una vita che era tutta una affabulazione. E, ci ricorda un personaggio di Cendrars, «quando uno racconta, ricama su qualcosa di già ricamato. Così la verità viene chiusa in una rete da cui non scapperà più». -
Erewhon
Erewhon, romanzo fantastico e satirico pubblicato anonimo nel 1872, cui fece seguito, quasi trent’anni dopo, il non meno affascinante Ritorno in Erewhon, è l’opera più ricca e sorprendente di Samuel Butler, erede di Swift e precursore della fantascienza, outsider arrabbiato nell’Inghilterra di fine secolo. Erewhon, cioè Nowhere (In-nessun-posto) è un mondo solo apparentemente immaginario dove i malati vengono messi in prigione e processati; le vittime sono considerate immorali; i delinquenti vanno all’ospedale, ovvero sono curati a domicilio da medici dell’anima chiamati «raddrizzatori»; le scuole dell’Irragionevolezza insegnano la lingua ipotetica, e suprema istituzione del paese sono le mistiche Banche Musicali. Ma quel che forse colpirà di più il lettore di oggi è la chiaroveggenza di Butler sul futuro di una civiltà tecnologica che è già diventato, per noi, presente. -
Umano, troppo umano. Vol. 1
Umano, troppo umano, I (1878) è la prima opera di Nietzsche presentata in quella forma aforistica che si rivelerà poi essere la sua più peculiare. Con questo libro Nietzsche sentì di avere compiuto «un vero progresso –, verso me stesso», collegato innanzitutto al suo graduale svincolarsi dalle due esperienze decisive della sua giovinezza: la filosofia di Schopenhauer e l’arte di Wagner. Liberazione necessariamente dolorosa, per cui queste pagine possono anche essere viste come «il monumento di una crisi». Ma anche percorso segnato da scoperte sorprendenti, dal momento in cui tutta una serie di impulsi conoscitivi, accantonati o repressi per la vicinanza di Wagner e del suo ambiente, vengono lasciati liberi di espandersi in una meditazione solitaria. Qui appare già, con tutta la sua potenza corrosiva, il Nietzsche che dubita, che mina ogni certezza, che si addestra allo stile tagliente dei grandi moralisti francesi – in breve il Nietzsche stilisticamente più moderno. E non si tratta solo di una conquista stilistica. Con l’aforisma si manifesta una nuova fase della conoscenza: esso induce a una sorta di lampeggiamento razionale, all’analisi come incursione fulminea, che getta luce su un punto concreto, prima di ritrarsi nell’oscurità. Così, questa forma diventa l’arma naturale di «uno spirito spietato, che conosce tutti i nascondigli dove l’ideale sta di casa». Qui si può dire che assistiamo all’origine di quelle «dure cose di psicologia» che costelleranno sino alla fine l’opera di Nietzsche – e avvieranno a molte delle sue più preziose intuizioni. -
Il simposio
Se esiste il testo sull’amore nella nostra civiltà, a cui ogni testo successivo non può che ricondursi, questo è il Simposio, il dialogo di Platone che più di ogni altro ha mantenuto intatto il «fiore della gioventù» e ci si offre naturalmente non già come una disputa filosofica, ma come una lunga conversazione – forse la più bella conversazione della letteratura – fra spiriti «eccellenti» (oltre a Socrate, il suo grande avversario Aristofane e il bellissimo Alcibiade) che, uno dopo l’altro, prendono la parola e raccontano di una potenza inesauribile: Eros. C’è chi dice che sia il dio più antico, altri invece sostiene che è il dio più giovane, altri che è un grande demone. A tutti esso appare «meraviglioso fra gli uomini e gli dèi». Le due forme di Afrodite, il mito dell’androgino, le origini dell’antichissimo desiderio «di fare, di due, uno» e così di «guarire la natura umana», «la morbidezza e «l’asprezza» dell’amore, la natura del desiderio: con articolazione sottilissima, attraverso le varie voci, Platone tocca tutti i punti sensibili dell’eros e infine affida a una vera iniziatrice ai «misteri d’amore», Diotima, il compito di schiuderne i segreti ultimi. E qui, come pure nell’ultima, trascinante apparizione di Alcibiade, diventano espliciti, forse più di altre volte in Platone, i riferimenti alla «sapienza» e all’«enigma». Anche per questo, dunque, Giorgio Colli è stato interprete profondamente congeniale di questo testo, in cui risuonano, limpidi e misteriosi, alcuni temi che sono stati centrali per la sua interpretazione del mondo greco. -
Vita di Enrico Ibsen
Non creda il lettore di trovare soltanto una rapida biografia di Ibsen in questa Vita, che qui compare per la prima volta in forma di libro. Vi troverà anche e soprattutto tutt’altro: una scintillante sequenza di divagazioni che hanno, al loro centro, un tema: la donna e il femminismo. In anni (è un testo del 1943) in cui non solo questi temi non erano attuali, ma molti sembravano addirittura averne dimenticato l’esistenza, Savinio li affronta con una lucidità, un’ironia, una chiaroveggenza che sono tutt’oggi sbalorditive. L’arte della biografia è davvero per lui un «gioco segreto», che gli permette incursioni imprevedibili, e spesso esilaranti, in tutte le direzioni. E anche nella direzione di se stesso. Così, dietro il profilo di Ibsen «il costruttore», disegnato con un sentimento insieme di complicità e di irriverenza (giungendo a una punta sublime là dove Savinio invita Ibsen a propugnare la causa della liberazione dei morti: «È ora di fare per i morti quello che tu hai fatto per la donna»), intravediamo quello di Savinio stesso, il quale finirà per confessarglisi: «Nello scrivere la tua vita non avevo l’impressione di scrivere una vita ma mi pareva di scrivere la mia propria». Questo spiega la quasi insolente intimità che Savinio dichiara di avere con Ibsen, e che dà un sapore così penetrante a queste pagine: «Che altro ti ho da dire, Enrico? Coloro che leggeranno questa tua vita scritta da me, diranno che della tua vita si dice ben poco e si fanno invece molte divagazioni. Perché non sanno. Non sanno che queste “divagazioni” sono invece le cose che tu stesso ti ripromettevi di dire quando la morte ti rapì, e ora finalmente hai potuto dire per mezzo mio». Vita di Enrico Ibsen apparve per la prima volta a puntate sul periodico «Film» tra il maggio e il luglio 1943. -
Uomini tedeschi. Una serie di lettere
Pubblicato da Walter Benjamin nel 1936 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz, presso una piccola casa editrice svizzera, questo libro diventò presto una leggenda. Mentre il nazismo aveva trasformato la Germania nell’incubo del mondo, un esule tedesco come Walter Benjamin componeva questa antologia commentata di lettere di «uomini tedeschi», alcuni gloriosi – da Lichtenberg a Hölderlin, da W. Grimm a Büchner, da Brentano a Goethe –, altri del tutto ignoti (ma qui in tutto all’altezza dei grandi), a testimoniare di una linea di civiltà, di un costume di vita che erano peculiarmente tedeschi, epperò i più incompatibili col nazismo: ricordo di una costellazione abbagliante, che aveva traversato gli ultimi anni dell’Illuminismo, il Romanticismo e il Biedermeier, per inabissarsi poi negli anni di Bismarck. Opera di Benjamin sono la scelta, il montaggio e la presentazione dei testi: ma, nelle mani di un tale eminente stratega delle forme, quella che poteva essere una comune antologia diventa una delle sue opere più personali e più audaci. Paradossalmente, proprio questo oscuro lavoro didattico può essere letto come una delle più compiute manifestazioni del pensiero di Benjamin, nel senso che ha precisato Adorno in poche righe del bellissimo saggio che accompagna questo libro: «Così come Benjamin negli ultimi anni della sua vita vagheggiò l’idolo di non scrivere una sua filosofia, ma piuttosto di “montarla” con materiali che parlassero da sé, rinunciando così, per quanto possibile, a interpretarli, in ugual modo ha proceduto in questa raccolta di lettere. La scelta e la disposizione delle lettere devono lasciar trasparire la sua filosofia, senza costringerla in una forma concettuale che la contraddirebbe». -
Il navigatore del diluvio
All’età di cinquecento anni, Noè, che sino allora non aveva avuto figli, genera a breve distanza Sem, Cam e Iafet. Poco dopo Dio lo chiamerà per rivelargli un segreto e proporgli un «patto»: l’umanità è condannata a perire nel diluvio, salvo lui e i suoi figli. Ma perché Dio si rivolge proprio a Noè? E qual è il fine di questo «compromesso»? Quale vantaggio trae Dio dal diluvio? In questo suo «saggio romanzato» – come lo ha definito Karl Kerényi – Mario Brelich ci ha dato un primo esempio di quella sua lettura maliziosa e acuminata della Sacra Scrittura intorno a cui ruota tutta la sua opera. Ciascuno dei suoi libri scopre in quei testi qualcosa che tutti sembrano aver trascurato: e da lì parte una ricostruzione che dà una singolare vivezza e spessore a quegli augusti personaggi. Con un lieve sorriso agli angoli della bocca, Brelich ci spinge inesorabilmente a riscoprire, tolto ogni velo moraleggiante, la terribile realtà di quelle storie: ogni volta si tratta di un momento critico, paradossale, tragico e ironico al tempo stesso nella lunga vicenda fra il Dio biblico e l’uomo, di uno di quei momenti in cui Dio decide di scrollarsi dalla sua sonnolente onniscienza per regolare in nuovi termini i suoi rapporti con l’umanità. Noè segna il primo di questi «patti»: un amaro accordo che sigilla il definitivo allontanarsi dell’uomo dal Paradiso, attraverso una sorta di iniziazione a rovescio, che si compie nell’arca, nel «fecondo stato di morte della tomba galleggiante». Ma anche l’uomo ha le sue malizie: alla fine, scoprendo il vino, l’indecenza e l’ubriachezza, Noè risponderà alla divina perfidia tenendo fermo al ricordo di quella «ebbrezza dell’essere» che darà al Signore nuove complicazioni con l’umanità, quali Brelich ha già raccontato nelle successive puntate del suo feuilleton metafisico: Il sacro amplesso e L’opera del tradimento. -
Giù in fondo
Una giovane donna traversa, durante la guerra, il confine spagnolo per sfuggire ai tedeschi, viene risucchiata in angosciose avventure e infine si ritrova in un manicomio che è teatro di fatti stupefacenti. Una scatola di cipria, il rossetto, la bottiglia di acqua di Colonia diventano astri di un cosmo in preda alle metamorfosi. Un complotto infernale ordisce trappole. Una cappa di ipnosi grava sul mondo. Le cose hanno perso la loro naturale opacità: tutto ha senso, tutto rimanda a tutto, tutto esige feroci e matematici rituali. Una colla erotica si attacca agli oggetti e ai personaggi. Giù in fondo, come ha scritto Breton, è la storia di «uno di quei viaggi da cui si hanno poche probabilità di tornare», raccontato con «precisione sconvolgente». Leonora Carrington ci accompagna «giù in fondo» nella follia come in un giardino di orrori e meraviglie – e ci riconduce indietro appena in tempo perché sia evitato, ci dice, «il disastro nella liberazione dello spirito». Questo piccolo libro, di un’intensità ammaliante, è un frammento di quella prosa che i surrealisti avrebbero voluto scrivere e non hanno quasi mai scritto. Come pochi altri, la Carrington sa guardare tutto con un doppio sguardo: il mondo che si pretende normale con lo sguardo folle e il mondo folle con lo sguardo sobrio, come se fosse – osservava ancora Breton – «munita di un permesso di circolare a volontà nei due sensi». -
Una biblioteca della letteratura universale
Per molti il mondo dei libri è una foresta ostile, troppo folta. Sentono che lì si celano quelle pagine che sarebbero per loro preziose, ma disperano di trovarle. Per questo essi vorrebbero essere guidati fra i libri. Ma pochissimi sanno essere loro d’aiuto: nei saggi qui raccolti dimostra di aver avuto in grado eminente quel dono Hermann Hesse, uno scrittore che continua a farsi amare da schiere di lettori e, oltre tutto, uno scrittore che aveva «letto tutti i libri». Con mano ferma e gesto intimamente gentile, Hesse introduce in questi suoi saggi alla «magia del libro». Spiega con limpidezza che cosa significhi incontrare un libro – evento che può essere non meno complicato e fatale dell’incontro con una persona. E ci aiuta, con discrezione e precisione, nel passo più delicato: la formazione della nostra biblioteca. Consiglia i testi inevitabili, ma con poche parole che ci rendono subito evidente perché dobbiamo conoscerli; e ci consiglia anche libri più segreti, che però per lui sono stati decisivi – invitando così ogni lettore a scoprire la propria fisionomia nella biblioteca che a poco a poco si costruisce. Il lettore che voglia iniziarsi all’arte sottile di scegliere i libri per sé troverà qui le indicazioni di un amico sapiente e del tutto privo di quel sussiego che molti ancora associano con la cultura. Alla fine non vedrà più i libri come un’angosciosa, sopraffacente molteplicità: «da innumerevoli lingue e libri di tanti millenni, da questo mostro mitologico dalle mille teste, quella di cui il lettore, nei suoi momenti di grazia, avverte su di sé lo sguardo è una chimera strana, sublime, più che reale: è il sembiante dell’uomo, da mille tratti contraddittori magicamente ricomposto». -
Legge e caso
Scienza e dominio si intrecciano ormai in modo inestricabile. Ma «perché il dominio non deve essere esercitato? ed esercitato senza limiti? Forse perché finisce col violare i diritti dell’uomo? Ma quale conoscenza è ormai in grado di mostrare i veri diritti e di stabilire il vero limite che divide il diritto dalla stortura dell’uomo?». Con queste domande felicemente provocatorie, Severino avvia un’indagine stringente e acutissima, che vuole isolare il senso specifico in cui oggi la scienza parla di legge e di caso – e insieme risalire alla sua lontana origine, che è nella nascita del pensiero greco. Perché lì si forma la tensione che attanaglia tutto il pensiero dell’Occidente: da una parte l’affermazione inaudita del divenire in quanto «irruzione dell’imprevisto», in quanto caso che dal niente passa all’essere – e non solo è imprevisto ma imprevedibile, perché «è impossibile una previsione del niente»; dall’altra la radicale «volontà di salvarsi dalla minaccia di divenire», che si esprime nell’epistéme, in quanto esorcismo conoscitivo che si fonda sull’«incantesimo degli immutabili». Ma quest’ultima forma della conoscenza si è rivelata inadeguata di fronte all’avida volontà di dominio della scienza: anche le ultime larve di «immutabili», segnali di una verità incontrovertibile, sono state dissolte da una speculazione e da una pratica tecnica con cui la scienza raggiunge oggi «la forma più radicale di dominio proprio perché si espone al caso, cioè distrugge gli immutabili che lo rendono impensabile». Ma così si afferma anche «l’alienazione più abissale»: «la persuasione e insieme la volontà che le cose della terra, in quanto cose, siano niente». È un percorso lucidissimo, di bruciante evidenza, in cui Severino ha addensato molti temi che il suo pensiero sta articolando ormai da anni. Il libro contiene anche un lungo saggio su Carnap. -
Cinque donne amorose
«Racconti del mondo fluttuante» (ukiyo-zoshi): così si definiva nel Giappone del Seicento il genere letterario a cui appartiene questo grande classico, qui tradotto per la prima volta in Italia. Ihara Saikaku fu maestro ineguagliato dell’ukiyo-zoshi: avido di particolari e di concretezza come un Balzac orientale, svelto e netto come un Maupassant, con lui l’arte del narrare irrompe nella vita di tutti i giorni, mescolando il pathos all’ironia. In queste sue storie le fascinose figure delle stampe giapponesi fra diciassettesimo e diciottesimo secolo escono dai loro rotoli e si muovono davanti a noi: per strade formicolanti, nei quartieri del piacere, nelle botteghe dei mercanti, sui percorsi dei pellegrinaggi, fra paraventi e guanciali. Giovinette e mezzane, mercanti e libertini, monaci e cortigiane: i loro destini si incontrano, si intrecciano, si ramificano, si dissolvono – con piccoli tocchi, con sapienti stacchi, rapidi mutamenti di scena. Sono uniti dal fatto di viaggiare sui «battelli carichi di tutti i nostri desideri» e da quel senso penetrante dell’impermanenza che avvolge come una patina preziosa ogni forma di vita del Giappone. Ciò che preme a Saikaku è lo scoccare, fra questi disparati destini, della passione erotica: amori che spesso si sprigionano da un minimo gesto, da una furtiva apparizione – e presto sono catturati nella rete sottile e smisurata dei divieti, degli usi, delle cerimonie. Allusioni, sotterfugi, travestimenti, equivoci, fughe, stratagemmi accompagnano così queste storie, dove è altrettanto acuto il sapore dell’animalità e quello dell’etichetta, dove l’esito è facilmente funesto. Le vicende raccontate da Saikaku sono realmente accadute. Un giorno questi suoi amanti sono stati realmente condannati a morte, si sono suicidati o si sono insperatamente riuniti. Pochi anni dopo Saikaku, come un suo memorabile libertino, colleziona quelle lettere d’amore, quelle maniche di kimono, quelle sottovesti rosse, quelle ciocche di capelli, quei ritagli di unghie, quegli amuleti perduti e rinchiude tutto in quel «magazzino del mondo fluttuante» che è la sua prosa. Da lì quelle vicende usciranno poi trasformate in fantasmi, in leggende tramandate di bocca in bocca, corrose dal tempo, intrise di pianto come le maniche di tante sue «donne amorose». La sua narrazione, cosparsa di sapidi, asciutti commenti («Nulla è più agghiacciante delle donne» sentenzierà una volta, ma i suoi personaggi femminili sono i più accattivanti), ci sbalza continuamente dal grottesco al tragico, dalla crudeltà alla dolcezza, finché tutte le storie si avviano ugualmente a sciogliersi nel «mondo di rugiada». Ciò che rimane è schiuma e fumo. Presentati con una corposità iperreale, i personaggi di Saikaku acquisiscono così alla fine una sottile evanescenza, come una delle sventurate amanti da lui celebrate, di cui «ancora adesso par di vedere l’immagine della veste azzurro pallido che essa indossava quell’ultimo mattino», quando fu condannata a morte insieme al suo amato. -
Scritti su Nietzsche
«Chiunque abbia letto qualche pagina di Nietzsche si è sentito scandagliare in profondità, si è sentito provocato a dare il proprio assenso su una questione scottante: alcuni non perdonano questa invadenza, altri rimuovono l’impressione, altri reagiscono con ardente partecipazione»: così scriveva Giorgio Colli nel presentare quella edizione critica di Nietzsche, da lui approntata insieme a Mazzino Montinari, che ha permesso di leggere migliaia di pagine inedite e di svelare una volta per tutte le falsificazioni subite da quei testi. Colli si è esposto per tutta la sua vita allo «scandaglio» nietzscheano: nel suo paesaggio del pensiero gli ultimi, fra i pochi, che avevano risposto alla sfida dei sapienti della Grecia arcaica erano Schopenhauer e Nietzsche. In questi scritti lo vediamo seguire fin nei più minuti segmenti la frastagliata sequenza delle opere di Nietzsche, soppesarle ogni volta in ciò che di inaudito introducevano così come nei ripiegamenti che testimoniavano, accompagnarle tra euforie e depressioni, azzardi teoretici e furie immoralistiche, scorribande letterarie e squarci di vaticinio. Parla qui un’assoluta intimità con quel pensiero – e insieme la distanza che permette di giudicarne i passaggi dal punto di osservazione di un altro pensiero: quello di Colli stesso, che è destinato a stagliarsi sempre più nettamente nella sua solitaria grandezza. E proprio in questa compresenza, nel commentatore, di «ardente partecipazione» e del «pathos della distanza» riconosciamo un tratto profondamente congeniale all’autore commentato. In tutta la sterminata bibliografia nietzscheana sarebbe difficile trovare una serie di scritti che costituiscano una migliore ‘introduzione’ a Nietzsche. -
De profundis
Fra il giugno 1944 e l’aprile 1945, rifugiato in una casa di famiglia nel basso Friuli, Satta scrisse queste pagine, cariche di sarcasmo e profonda amarezza, nel tentativo di risalire a certe ragioni nascoste della paradossale, atroce storia italiana dei vent’anni precedenti. E subito si poneva due domande inevitabili: perché gli italiani avevano accettato, e nella stragrande maggioranza sostenuto, il fascismo? E perché, una volta spinti nella guerra, quegli stessi italiani avevano subito sperato nella sconfitta? Più che sul ripugnante manipolo dei veri fascisti, attori occasionali e brutali, ma sempre accompagnati da una «scia di ridicolo», l’occhio di Satta si fissava sulla figura dell’«uomo tradizionale», il medio cittadino di stampo ottocentesco, attaccato alla libertà soltanto come «garanzia del privilegio»: era lui che l’aveva subito ceduta al fascismo, impaurito dagli squarci che si erano aperti nel vecchio ordine; era lui che aveva accettato la «servitù per non morire». Così, quando l’ultima guerra aveva rivelato la sua natura di «spettacoloso omicidio rituale», quello stesso «uomo tradizionale», figura ormai grottesca e stravolta, ma pur sempre universalmente diffusa, preso dal panico si era buttato a sognare l’impossibile restaurarsi di un vecchio ordine che ancora una volta lo tranquillizzasse. Questa è la durissima, cupa visione che Satta ci presenta: traversata da continue, e talvolta sgradevoli asprezze, è sostenuta da una vena di grande moralista nero, oltre che dalla dolorosa asciuttezza del narratore che si sarebbe poi rivelato col Giorno del giudizio. -
La lingua salvata. Storia di una giovinezza
Fin dal suo apparire, nel 1977, questa «storia di una giovinezza» è stata accolta da molti come un «classico immediato», uno di quei libri destinati a restare, che coinvolgono profondamente ogni specie di lettori. Con la sua prosa limpida, tesa, vibrante in tutti i particolari, Canetti è qui risalito ai suoi ricordi più remoti, cercando di ritrovare nella propria vita quella difficile verità che solo il racconto può dare. Dopo aver vagato per decenni fra migliaia di miti, di fiabe, di trame, si è rivolto a quell’unica storia che per ciascuno di noi è la più segreta ed enigmatica: la propria. È una storia che comincia in una piccola città sul basso Danubio, dove «in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue». In quella variopinta mescolanza di genti erano da tempo insediati i Canetti, dinastia di agiati commercianti ebrei di origine spagnola, tutti segnati da un forte «orgoglio di famiglia». Fra i primi ricordi incontriamo quello del grande magazzino del nonno, in cui si vendevano coloniali all’ingrosso, con il suo «odore meraviglioso», con i suoi sacchi di lenticchie, di avena, di riso, dove il bambino affondava le mani. Da quello scenario arcaico e variegato, commisto di Oriente e di Occidente, il cui sapore intride tutte le primissime esperienze del piccolo Elias, si verrà sbalzati, nel giro di pochi anni, in vari altri mondi: prima l’Inghilterra, dove si delinea la figura del padre, che lì muore improvvisamente, giovanissimo; poi Vienna, con lo scoppio della prima guerra mondiale, e infine Zurigo, il «paradiso» da cui Canetti sarà cacciato, adolescente, alla fine del libro. In tutte queste peregrinazioni vedremo svilupparsi un rapporto madre-figlio di una tale intensità, violenza, sottigliezza che potrebbe anche apparire inverosimile, se ogni parola non avesse il «suono giusto». Canetti è qui riuscito nell’impresa di trasporre la figura della madre dalla sempre dubbia verità delle «memorie» alla verità assoluta della letteratura. Una passionalità smisurata lega questi due esseri, e il bambino di cui qui si racconta conosce in pochi anni, nel rapporto con la madre, tutti gli estremi della tenerezza ma anche della gelosia, della dedizione ma anche del feroce conflitto. E intanto assistiamo al nascere in lui di quella avida vocazione che poi lo accompagnerà sempre: innanzitutto nel rapporto con il linguaggio e con la parola scritta. Rapporto di superstiziosa venerazione, come di fronte a immense potenze cosmiche. Così la scoperta dei libri, degli scrittori, la scuola stessa – tutto si presenterà come uno di quegli appassionanti resoconti di esploratori che allora i bambini usavano leggere. E il ricordo si fermerà, via via, su una costellazione di scene, di personaggi, di apparizioni che mantengono nella scrittura l’intatta vivezza, l’emozione sospesa e irripetibile di ciò che succede per la prima volta. -
La grande triade
«Il Cielo copre, la Terra sostiene» dice un’antica sentenza cinese. Il cielo è la «perfezione attiva», la terra è la «perfezione passiva». «Cielo, Terra, Uomo» (Tien-ti-jen), ecco la Grande Triade che Guénon volle illuminare in questo suo ultimo libro, pubblicato nel 1946. Invece di affermare in termini generali la corrispondenza esoterica delle tradizioni, volle qui far vedere in concreto che cosa è tale corrispondenza e in quali modi essa si articola, mostrandone ogni volta un aspetto, come la faccia di un cristallo, nei brevi, magistrali capitoli di quest’opera, che appunto perciò può essere vista come la summa e il simbolo essa stessa del pensiero di Guénon. Lo yin e lo yang, la doppia spirale, il solve e coagula dell’alchimia, i numeri celesti e i numeri terrestri, i rapporti fra l’essere e il suo ambiente, l’Essenza e la Sostanza, l’autorità sacerdotale e l’autorità regale, l’Invariabile Mezzo e la Via del Mezzo, il simbolismo massonico della squadra e del compasso e quello cabbalistico della Shekinah, la ruota cosmica: ciascuno di questi temi è di immensa ricchezza. Tanto più stupefacente apparirà l’impresa che Guénon ha qui compiuto: pur facendo presagire ogni volta tutta la complessità e peculiarità di queste immagini, le ha fatte risuonare nella loro essenza, le ha rese trasparenti con poche, sobrie e decisive parole, così inanellandole in un’aurea catena, dove il vincolo è invisibile e indissolubile. -
Ritratti immaginari
I Ritratti immaginari (1887) ci appaiono oggi non solo come l’opera più perfetta di Walter Pater, ma come la più adatta a introdurci, per vie umbratili e sinuose, al segreto della sua visione. Maestro della Decadenza in terra inglese, appartato monaco del Bello, Pater non riusciva a osservare la storia senza trasmigrarvi, immettendo un «fremito tutto moderno in persone e cose del passato» (Praz). Dietro la maschera di squisito dilettante, era una sorta di sciamano degli oggetti, delle tracce e delle «occasioni sensibili». Anche se il ritegno e il pudore lo imbrigliavano, la sua tentazione non era lontana da quella di Nietzsche negli ultimi giorni di Torino: essere «tutti i nomi della storia». Così questi Ritratti immaginari, oltre che una superba galleria di figure trascorrenti dalle fêtes galantes di Watteau a una Germania invasa dall’«aurora apollinea» e all’Olanda dei limpidi interni seicenteschi, sono una autobiografia indiretta e cifrata, dove un io multiplo si riflette su screziate superfici. Dal Fanciullo nella casa, mirabile anticipazione del Proust che rivive Combray, al Denys l’Auxerrois, crudele, ebbra apparizione di un Dioniso «in esilio» (secondo la formula di Heine) nella Francia medioevale, sino alla furia astratta e annientatrice del giovane spinoziano Sebastian van Storck, in tutti i personaggi di questa fantasmagoria avvertiamo un’occulta aria di famiglia, un accento di «perversa malinconia».