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L' iguana
«A tutti i lettori che desiderano qualcosa di inaudito, che li porti di colpo oltre i confini della realtà; a tutti i lettori appassionati, annoiati, sazi, entusiasti, drammatici, frivoli, passeggeri, costanti – consiglio questo bellissimo libro, uno dei pochi destinati a onorare la letteratura italiana del dopoguerra. È stato pubblicato venti anni fa; ma sembra che nessuno l’abbia mai comprato, nessuno l’abbia mai letto. È come la principessa della fiaba, la cui bellezza si nasconde dietro gli stracci e la cenere. Soltanto alcuni happy few hanno alzato il velo grigio, hanno scosso con la mano la cenere, e sostengono che è un capolavoro» - Pietro Citati. Quando il giovane milanese Aleardo, di famiglia ricca, nobile e illuminata, decide di approdare con il suo yacht nella sperduta isola di Ocaña, al largo del Portogallo, non sa quale inusitata avventura, e quale incontro fatale, lo attendano. Fino a quel momento, egli è «il compratore di isole», sempre incerto su quale comprare, perché Aleardo è sì facoltoso, ma anche rispettoso della generale dignità del creato e non vorrebbe turbarlo con indiscrete iniziative. Come giocando, un suo amico editore lo aveva sfidato a fornirgli un manoscritto capace di risvegliare i lettori intorpiditi per eccesso di offerte: e precisamente «le confessioni di un qualche pazzo, magari innamorato di una iguana». Appunto l’iguana attende Aleardo nell’isola di Ocaña, sotto forma di una «bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembialetto fatto di vari colori». Quell’iguana, come la prima materia dei testi alchemici, è ciò che di più vecchio e insieme ciò che di più giovane si possa trovare nella sostanza del mondo, è la natura stessa nel suo perenne invito alla «fraternità con l’orrore». Intorno a questa principessa-servetta e al suo principe illuministico e bisognoso di iniziazione la Ortese ha intessuto una perfetta favola romantica, genere fra i più ardui, che già aveva tentato vari grandi scrittori di lingua tedesca, da Novalis a Hofmannsthal, mentre in Italia non sembra aver attirato nessuno, forse anche per la profonda estraneità della nostra letteratura alla vena fosforeggiante del romantico. L’Iguana fu pubblicato per la prima volta nel 1965, incontrando una generale incomprensione. Oggi sappiamo che questo romanzo, nella sua impeccabile commistione di incanto e ironia, è destinato a rimanere un approdo felice per chiunque ami la letteratura. -
Il matrimonio moderno
Giunta a un punto critico della sua vita, tra l’infelicità del suo matrimonio e la passione per Denys Finch Hatton che la chiudeva in un cerchio magico, Karen Blixen si lanciò in questa divagazione sul «matrimonio moderno» (1924), dedicata al fratello Thomas. Il tema viene preso da lontano, come da un giovane falco che si avvicini alla preda con ampie volute. E a tratti leggiamo queste pagine come un brillante componimento di una fanciulla piena d’ingegno. Ma, prima per brevi avvertimenti, poi con irruenza, l’animus che spingeva allora la Blixen finisce per svelarsi: ed è un animus di violenza e sarcasmo. Raramente il «matrimonio moderno», quello che non può più appellarsi all’imperativo di una stirpe e ormai copre come una «foglia di fico» i rapporti amorosi, tentando di soffocarli fra l’ipocrisia e il «cannibalismo spirituale», raramente questa intuizione è stata attaccata con pari sprezzo, e con una penetrazione così crudele nei suoi tristi segreti. Sepolto per decenni fra le carte del fratello, questo pamphlet venne pubblicato per la prima volta nel 1977. Oggi lo leggiamo non soltanto ammirati per la sua verve devastatrice, ma anche curiosi per quanto indirettamente ci rivela sui sentimenti della Blixen in un momento teso e drammatico, incline alle posizioni estreme. E, dietro al pathos trattenuto di queste pagine, riconosciamo l’immaginazione nordica della Blixen, che le faceva sognare una scena del crepuscolo degli dèi, quando «gli Asi troveranno, tra l’erba della pianura di Ida, i dadi d’oro con cui avevano giocato all’alba dei tempi». Per loro, come per la Blixen, l’immagine della «felicità piena» stava nell’atto del giocare. La furia contro il matrimonio celava il tentativo disperato di ritrovare, per l’uomo e per la donna, i «dadi d’oro» della passione. -
Gli asiatici
Un americano ventiduenne bello, si desume, e di buona fibra sbarca a Beirut e si mette in viaggio. Verso dove? Verso lAsia. «Mi bastava sentire questo nome Asia perché il cuore mi battesse più in fretta». La meta è talmente vasta e indeterminata che il viaggiatore può ondeggiare, secondo i capricci del vento e delle occasioni, senza perdere mai la strada. In realtà, la sua strada è ovunque gli arrivi «il rumore vellutato degli zoccoli dei cammelli». Tutto ciò che la strada può offrire va bene, purché porti più in là. Ogni volta, laria si impregna di umori diversi, poi spazzati via da una folata improvvisa. Rimane il cielo sgombro. E lavventura ricomincia: amori frettolosi fra cocci e molle rotte, su un tappeto di rampicanti; una borsa con tanti barattoli di oppio, gettata vicino a una boa dipinta di viola; la latrina di una prigione turca; una ragazza dai grigi occhi fanatici, con una brocca di ottone accanto a un pozzo; vecchi dallo sguardo inquieto ed esausto, in guerra con la vita; racconti sotto una tenda; paludi salate scintillanti come neve; una principessa persiana, silenziosa bambola di porcellana con la punta delle dita dipinta doro; briganti saturnini; monaci ciarlieri, sporchissimi e insolenti; nuvole galleggianti come fiori di spuma sotto laltopiano; una Maharani corpulenta, con un ghepardo che le lecca le mani; un Rajah vizioso e oxfordiano; un bordello dolciastro in Cambogia; e vari esseri alla deriva, che si ritrovano e tornano a perdersi, di tappa in tappa, da Beirut ai confini della Cina, come se tutta lAsia fosse la galleria di un Luna Park. Ma soprattutto un continuo sfiorare la felicità e la morte, «come un filo dargento per tutto il disegno». Prokosch scrisse questo romanzo quando aveva più o meno letà del suo eroe. Il libro apparve nel 1935 e fu accolto dagli scrittori più illustri come un incantevole libro di vita, ancora vibrante. In verità, il giovane Prokosch aveva vissuto tutto il suo viaggio in una grande biblioteca americana. Non aveva mai messo piede in Asia. Ma i critici entusiasti avevano ragione: in quella catena di avventure asiatiche cè uno sprigionarsi di giovinezza, lo slancio di una ricerca che finisce, appagata, per dimenticare la sua origine. Dissipato in mille frantumi picareschi, tutto il libro è un prolungato, reciproco inseguimento fra lo spirito della giovinezza e lAsia in quanto «terra finale», che si attacca al viaggiatore «come unamante infatuata». E alla fine anche noi, come una voce del romanzo, sentiamo il respiro di questa terra «che passa nel buio». Di questo libro così hanno scritto: André Gide: «Una sorprendente impresa dellimmaginazione. Poetico nella sua sensualità, spiritoso nella sua melodrammaticità, urbano nella sua misantropia, incandescente nelle sue immagini: è un romanzo unico, un capolavoro autentico». Thomas Mann: «Un libro che mi ha stimolato, ossessionato e stregato. Per giorni e giorni, non riuscivo a strapparmi via da questo sorprendente racconto picaresco, abbagliante per talento e spirito audace, avventuroso». Albert Camus: «Prokosch ha inventato quello che si potrebbe... -
Corpo spirituale e Terra celeste. Dall'Iran mazdeo all'Iran sciita
Quando apparve nella sua prima versione (1960), questo libro suonava come un tentativo sconcertante di collegare e articolare categorie del remoto Iran mazdeo, cifrate e ostiche, con altre dello sciismo, di cui ben poco si sapeva. Oggi si può dire di Corpo spirituale e Terra celeste che è stato un vero punto di partenza, ma non già soltanto per l’audacia della prospettiva storica. Essenziale è qui l’elaborarsi di una concezione dell’immaginazione a cui poi molti hanno attinto, per la sua grandiosità e perspicuità. Qui si traccia per la prima volta una «carta dell’Immaginale». Per intendere la novità dell’impresa, basti pensare che la parola stessa «immaginale» è stata introdotta da Corbin. E di una parola nuova c’era davvero bisogno da quando, in Occidente, «tra le percezioni sensibili e le intuizioni o le categorie dell’intelletto il luogo era rimasto vuoto». Si trattava appunto del luogo della Imaginatio vera dell’alchimia, della immaginazione attiva, di quell’«intermondo tra il sensibile e l’intelligibile» la cui «scomparsa porta con sé una catastrofe dello Spirito». Quel luogo della conoscenza, e di una conoscenza a noi preclusa, è l’«ottavo clima» dove appaiono le città mistiche di Jābalqā, Jābarsā e Hūrqalyā. Nessuna civiltà è stata pari a quella iranica nello sviluppare questa «geografia immaginale». Dai mirabili paesaggi, puri archetipi di una natura visionaria, sino alle pagine esaltanti di Sohravardī o di Mollā Sadrā, l’Iran ci ha offerto la guida più dettagliata alla «Terra di Hūrqalya», «mondo attraverso cui si corporizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi», luogo della realtà epifanica. Sino a questo libro di Corbin ben poco era filtrato di tali tesori – e la seconda parte dell’opera ci offre anche una doviziosa antologia di testi iranici su questi temi, per la prima volta tradotti. Ma l’effetto sovvertitore di Corpo spirituale nel suo insieme è dovuto non soltanto alla novità dei materiali. Qui assistiamo, innanzitutto, al dispiegarsi della prospettiva di Corbin. L’autore stesso la definiva «fenomenologica», in contrasto con ogni storicismo. Ma, più che a termini occidentali, occorrerebbe riferirsi, per definire il procedimento di Corbin, a quella «ermeneutica per eccellenza indicata dalla parola ta’wīl, che letteralmente significa “ricondurre una cosa alla sua fonte”, al suo archetipo, alla sua realtà vera». Qui il ta’w īl è al tempo stesso l’oggetto del libro e il metodo del suo autore, come anche dovrebbe diventare il percorso di ogni lettore. Così ci avvicineremo finalmente all’Albero dell’Immaginazione, di cui dice il Corano che può essere «l’Albero benedetto» o «l’Albero maledetto». «L’immaginario può essere innocuo; l’immaginale non lo è mai». -
La nascita del giorno
Con gli anni, Colette si accorgeva di somigliare sempre più alla madre: Sido. Nel luglio del 1927, prima di partire per la sua casa nel Sud della Francia, formulò un progetto: «rileggere tutte le lettere di mamma, ed estrarne qualche gemma». Così nacque questo libro dal percorso sinuoso, insieme romanzo, memoria e divagazione, che fin dal suo primo apparire (1928) fu considerato un frutto aureo. Qui la «vagabonda» si fa più riflessiva, subisce un tempo di muda, nasce di nuovo come accade ogni giorno allasciutto cielo meridionale. «Una donna vanta tanti paesi natii quanti sono stati i suoi amori felici, e nasce sotto tutti i cieli dove guarisce dal mal damore». Era quello il momento in cui, sapendo di mentire, Colette poteva scrivere: «Una delle grandi banalità dellesistenza, lamore, scompare dalla mia». E subito aggiungeva: «Giuro che non desidero più nulla, tranne ciò che è inaccessibile». Pronta a contraddirsi un attimo dopo, mentre avvia il racconto di unaltra storia amorosa. Ma questa volta è la storia di un amore accortamente evitato, con una sapienza attinta da quelle cose «che simparano nella scuola migliore, dove insegnano anche la grande eleganza delle convenienze, lo chic supremo del saper declinare...». -
Enten-eller. Vol. 5: L'equilibrio fra l'estetico e l'etico nell'elaborazione della personalità.
Con questo volume si completa la nostra edizione di Enten-Eller, a cura di Alessandro Cortese, la prima integrale che sia apparsa in Italia. In questa parte, che contiene L’equilibrio fra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, si vedranno tutti i temi dell’opera, e innanzitutto quello del contrasto fra estetico ed etico, riorchestrati e rielaborati in una nuova prospettiva, secondo il tipico procedimento kierkegaardiano della rotazione romanzesca e prismatica. Ma questa inesausta diatriba non è destinata a chiudersi in se stessa: di là da essa si apre uno squarcio sul religioso, accennato nel finale Ultimatum, e nella argomentazione sui generis dell’«edificante che giace nel pensiero che di fronte a Dio abbiamo sempre torto». -
La società della mente
Per anni, l’Intelligenza Artificiale, a cui oggi si dedicano milioni di dollari per la ricerca e l’energia intellettuale di migliaia di scienziati, è stata una sorta di chimera nella mente di un uomo: Marvin Minsky. A lui in primo luogo si deve, infatti, se questa disciplina ha assunto una fisionomia, si è distaccata dal resto della ricerca, e infine, se ha attratto così tanti cervelli. Ma tutto questo si manifestava, per anni, attraverso brevi e densissimi articoli. Mentre, per altrettanti anni, correva voce che Minsky «stava preparando un libro», il quale naturalmente sarebbe stato il libro. E un giorno il libro si manifestò: è La società della mente. Qui Minsky, con gesto che è tipico dei grandi scienziati della mente, non vuole accettare nulla per inteso. Occorre partire veramente da zero, se si vuole tentare una risposta alla temibile domanda che egli pone fin dalle prime righe: «Come è possibile che il cervello, in apparenza così solido, sia il supporto di cose tanto impalpabili come i pensieri?». Inutile dire che, se l’inizio del libro è semplicissimo, alla fine ci troveremo avvolti da una rete di pensieri altamente complessa, in obbedienza al sapiente precetto di Einstein: «Ogni cosa deve essere resa quanto più semplice possibile, ma non ancora più semplice». Così, in questa rete, riconosceremo i famosi «frames» che Minsky aveva già introdotto in anni passati, ma anche (e questo è una sorpresa) discussioni che coinvolgono Freud o Piaget. Alla fine, ci accorgeremo che questo libro tiene fede, sino ai limiti di ciò che oggi si può dire nella scienza, alla sua scommessa iniziale: render conto di come funziona il cervello, questa «vasta società organizzata», e di conseguenza la nostra mente, se è vero, come Minsky afferma, che «la mente è semplicemente quello che fa il cervello». -
Il corsivo è mio
«Che ne facciamo della visione tragica della vita in cui siamo stati educati? Del tragico periodo della nostra storia? Del destino della mia patria, della mia generazione e infine del mio destino personale? Mi sembra che una risposta ci sia: la tragedia mi fu data come terreno, come base di vita: noi, nati tra il 1900 e il 1910, siamo cresciuti nella tragedia che a suo tempo è entrata in noi; per così dire l’abbiamo bevuta, ce ne siamo nutriti e l’abbiamo assimilata, ma ora che la tragedia è finita ed è iniziato l’epos, io ho il diritto, dopo aver vissuto una vita, di non prendermi troppo sul serio». Prima di giungere a «non prendersi troppo sul serio», la Berberova ha tracciato la storia della sua vita in questo libro, che apparve nel 1969 e col tempo sempre più si impone per l’intensità e la ricchezza della testimonianza. La Russia di prima, durante e dopo la rivoluzione, il mondo degli esiliati russi fra le due guerre, fra Berlino, Praga, Parigi, infine l’America, dove la Berberova è a lungo vissuta, ne sono la scena mutevole. E continuamente la vediamo attraversata da figure vivissime e disparate, fra cui riconosciamo Blok o Pasternak, la Cvetaeva o Belyj, Chodasevic o Remizov, Jakobson o Nabokov, tutti disegnati con la nettezza spavalda della narratrice. Difficile pensare un altro libro che restituisca con altrettanta precisione quell’aria del tempo, fosca e vibrante, che avvolse la vita di tanti grandi russi del nostro secolo, dispersi per l’Europa. A mano a mano che procediamo nella selva degli anni, il tempo sembra apparirci palpabilmente come quell’«ordito che non si può comperare, né scambiare, né rubare, né contraffare, né impetrare», nel quale la Berberova intesse sapientemente la sua vita, devota sin all’inizio, secondo la formula di Herzen, della «crudelissima immanenza». -
La ribellione
Fra tutti i romanzi di Joseph Roth, La ribellione (1924) è forse il più aspro e sconsolato. Siamo qui immersi nell'atmosfera torbida degli anni di Weimar. Andreas Pum, il protagonista, è un mutilato di guerra che ancora crede nell'ordine del mondo e degli uomini e sogna di gestire una rivendita di francobolli. Ma la sorte, dietro cui si maschera l'oppressione senza scampo esercitata dalla società, lo trasforma a poco a poco in un capro espiatorio, in un Giobbe inerme, costretto a riconoscere l'onnipresenza del male. È questo un estremo delle oscillazioni di Roth, al cui altro capo troveremo, alla fine, l'aura di grazia sovrana che investe La leggenda del santo bevitore. Ma i due estremi sono compresenti in tutta la sua opera, e ciascuno dà la forza all'altro. -
Contributo alla critica di me stesso
Giunto alla piena maturità della sua vita, quando già aveva scritto alcune delle sue opere maggiori, come l’Estetica e Teoria e storia della storiografia, Croce si pose un interrogativo che Goethe aveva così formulato: «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a se stesso?». Nella sua pacatezza, un interrogativo insolente: poiché presuppone, di fronte ai dati della propria esistenza, la stessa capacità di mettere a fuoco, la stessa distanza strategica dell’occhio che lo storico si conquista di fronte alle testimonianze di un’età remota. Con quella «calma» che fu l’acquisizione della maturità di Croce, ma celava in sé un costante e prezioso nutrimento di «angoscia», Croce affrontò la sfida implicita nell’interrogativo di Goethe e la vinse, stilando in pochi giorni, nell’aprile del 1915, questo Contributo alla critica di me stesso: una «autobiografia mentale» (così definita dall’autore) dove «un pathos rattenuto, una commozione non spenta ma vinta e superata» (Contini) danno alle pagine un timbro inconfondibile di verità. -
Tra don Rodrigo e don Giovanni. Scenari secenteschi
Scena di questo libro è un«età fosca»: il Seicento. Epoca di guerre e turbinosi conflitti, grande secolo dellombra e della dissimulazione, che suscitò nella letteratura e nel pensiero figure di cui non sappiamo fare a meno. Quel «teatro del mondo», dove si alternano le empie avventure di Don Giovanni e le taglienti riflessioni di Gracián, dove un infido Mazzarino mette in pratica i suoi «dogmi politici» e Retz ricorda le sue trame fallite, è ancora il nostro teatro, con un sovrappiù di tensione e di tenebra. Al Seicento ci volgiamo quando abbiamo bisogno di aggiungere, alla scena dentro di noi, «una pennellata di buio». Il Seicento, così, non è soltanto una certa epoca e i suoi testi, ma anche levocazione di quellepoca nella mente di certi posteri affini, che possono essere Stendhal o Casanova o Manzoni. Questo gioco delle riverberazioni fra i secoli non poteva incontrare orecchio più percettivo di quello di Giovanni Macchia. E, al centro di questa camera di echi, troveremo la figura del Manzoni, che in quellepoca passata non solo trovò la stoffa dei Promessi Sposi, ma lartificio formale più possente e innovatore del suo romanzo: la digressione. -
Agli dei ulteriori
«Che io sia Re, mi pare sia cosa da non dubitare. V’è in me un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico. Penso alle aquile; specie al primo dilùcolo, nel silenzio tra notte e giorno, nel freddo che anneghittisce, in mezzo al distratto sgomento dei fiori, penso ad enormi aquile, ali metalliche e sapiente malvagità di occhi...». Con questo perentorio attacco il nuovo libro di Manganelli s’apre e prende slancio per un crescendo di variazioni sul tema d’una lucida esaltazione megalomane. Un bestiario araldico, cifrario d’una cupa euforia, è evocato dalla solitudine dell’insonne che si rigira tra le lenzuola come su una pagina bianca. Il teatro di cui Manganelli ancora una volta apre il sipario per il suo spettacolo verbale è lo spazio della mente: lo popolano fantasmi che convergono tutti sull’allegoria sovrana, la morte, il più carnevalesco e il più sontuoso oggetto della nostra scenografia interiore. Ma al posto della violenza «discenditiva» e autodistruttiva dell’Hilarotragoedia, al posto dell’architettura che eleva propilei e trabeazioni su una gelida capocchia di spillo nel Nuovo commento, qui c’è la tensione energetica del raptus, il librare le ali nei cieli grandiosi della simulazione, il volo radente verso i vortici dell’assenza. Un’ossessione moltiplicatoria e deduttiva affolla le prospettive labirintiche di proliferazioni mitologiche, di moltitudini di dèi o di defunti: dèi a grappoli, dèi a gomitolo, pasta per fare dèi; oppure la popolazione sterminata dei morti, brulicanti nelle filettature d’una madrevite arrugginita, loro ricettacolo segreto, microscopico averno, o addirittura sfarinati e cotti in una focaccia d’oltretomba. Nei sei capitoli di questo libro intimamente unitario – ancorché vario al punto da inglobare un carteggio tra Amleto e la principessa di Clèves, e il già classico Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti –, l’autore non lesina sorprese, novità di timbro e d’invenzione, non meno vistose della sua caparbia fedeltà a se stesso. Il meccanismo mistificatorio funziona con la naturalezza d’un organismo vivente grazie a una particolare accensione di cui Manganelli scrittore contende il segreto al Manganelli teorizzatore della «letteratura come menzogna». Il dotto acrobata che volteggia attorno al trapezio della retorica sul vuoto atemporale dei significati potrebbe essere riconosciuto un giorno come il più fededegno collettore delle allucinazioni e dei deliri dell’io pubblico e privato in questa nostra anticamera dell’ade. -
Impressioni personali
«Si può guardare la vita da molte finestre, e nessuna è necessariamente limpida o opaca, più o meno deformante rispetto a una qualunque delle altre», scrive in queste pagine Isaiah Berlin. Quasi tutti, comunque, tendono a rimanere attaccati alla loro finestra. Berlin invece ha una suprema agilità e disponibilità nel passare dall’una all’altra, sempre con il gesto rispettoso – e intimamente interrogativo – dell’ospite di passaggio. La sua vita è uno fra i migliori esempi che possiamo ricordare di una vita plurale, capace di attraversare esperienze e mondi opposti e incompatibili rendendo giustizia a ciascuno, pronta ogni volta ad apprezzarne la peculiarità irriducibile. Nelle sue pagine, personaggi oscurati dalla loro fama come Churchill e Roosevelt, o grandi studiosi ipocondriaci e incompresi come Lewis Namier o scrittori amati e poi obliati come Aldous Huxley appaiono con la naturalezza, la precisione nel dettaglio, il tono giusto che conosciamo dai ritratti dei grandi classici. E mondi così lontani come la Oxford degli Anni Trenta, con le sue dispute roventi, e anche comiche, fra i nuovi filosofi del linguaggio, e la Russia terribile degli anni 1945-1956, dove resistevano solitarie figure come Anna Achmatova o Boris Pasternak, ci si rivelano con stupenda vivezza. A volte si direbbe che qualcuno apra la porta di casa dinanzi a noi («Anna Andreevna Achmatova aveva un aspetto imponente, gesti pacati, una nobile testa, tratti bellissimi, un po’ severi, e un’espressione di infinita tristezza»). Berlin sa capire le persone che incontra senza mai ridurle a una sua preesistente misura. Non si mette mai in primo piano, lascia che queste «impressioni personali» ci vengano incontro con il fraseggio di quelle conversazioni deliziose che talvolta risuonano in sogno, finché non vi affiora «qualcosa che non era stato detto altrove», includendo in ciò l’involontario autoritratto di una mente duttile e sapiente come pochissime altre del nostro tempo. -
Il respiro. Una decisione
Come in un’allucinazione, il diciottenne Thomas Bernhard si risveglia un giorno in «un lungo corridoio» con una «infinita serie di stanze, aperte e chiuse, popolate da centinaia se non migliaia di pazienti». È l’ospedale dove Bernhard lotterà per sopravvivere a una grave malattia polmonare. Ed è una delle più nette immagini di «inferno» che Bernhard, maestro nella precisione dell’orrore, ci abbia trasmesso. Qui, in una stanza da bagno dove una suora passa ogni mezz’ora per alzare il braccio del paziente e sentire se ancora si avverte il polso, Bernhard decide di non permettere che gli uomini della sala anatomica con le loro bare di zinco vengano a prenderlo, insieme agli altri morti, come «sgomberando un magazzino di marionette». Decide di vivere. È un momento spartiacque: nella massima inermità, la massima determinazione. Così comincia una traversata delle regioni di confine fra la vita e la morte che è diventata poi, non solo un passaggio cruciale nella vita di Thomas Bernhard, e non solo questo libro, altrettanto cruciale, ma l’opera intera di Bernhard, che qui si mostra nei suoi due gesti originari: la testarda determinazione di vivere e la conoscenza immediata, quasi tattile della morte: «Qui, in questo trapassatoio, io mi ero imposto di non abbandonarmi alla disperazione, semplicemente dovevo lasciare che la natura umana, la quale si palesava qui, come probabilmente in nessun altro luogo, con assoluta brutalità, facesse il suo corso». -
Capitano Ulisse
Composto di un «dramma» (Capitano Ulisse) e di un saggio (La verità sull’ultimo viaggio), questo libro ci offre una visione del mito di Ulisse riflessa nel prisma dell’intelligenza di Savinio. Ulisse è per lui personaggio congeniale e familiare – e anche il pretesto per alludere a se stesso, uomo «incompreso» per «eccesso di futilità». Troviamo molta provocazione in questi testi, a tratti una strepitosa comicità e, camuffati nella finzione mitica e scenica, molti segreti di Savinio, buttati a piene mani, come con la convinzione di non essere capito. Di fatto, Capitano Ulisse ha avuto sino a oggi una storia difficile e accidentata. Scritto nel 1925 per l’effimero Teatro d’Arte di Pirandello, venne rappresentato per la prima volta solo nel 1938, in clima ostile. Da allora, fino a oggi, l’oblio. Eppure Savinio rivendicava l’importanza della sua impresa, argomentava con vigore beffardo la necessità di sottoporre Ulisse a «quell’apparecchio di apparenza frivola e di pessima riputazione» che è il teatro, qui ribattezzato «Avventura Colorata». Oggi possiamo ben capire perché: dentro la cornice pirandelliana della pièce riconosciamo in quest’opera il Savinio più acrobatico, penetrante, il suo irresistibile talento per il grottesco borghese e, nel tempo stesso, la sua capacità di percepire le figure mitiche senza diminuirle. -
Senza domani
A Parigi, una qualche sera di uno degli ultimi anni dell’Ancien Régime, un gruppo di amici si pose la seguente questione: è possibile raccontare una storia erotica senza usare parole indecenti? Pensavano tutti di no, salvo il giovane Vivant Denon. Per dimostrare la sua tesi, Denon scrisse allora Senza domani, un racconto che oggi ci appare come un vertice della letteratura erotica. In poche pagine, con scansione impeccabile, si svolge qui una storia di seduzione, inganno e felicità, che si apre e si chiude nel corso di una sola notte. Con mano leggera e segno preciso, Denon ha afferrato, come per gioco, l’effimero erotico in tutta la sua magia. Seguiamolo, provvisti di maschera, nel «boschetto labirintico di questa avventura d’amore» e ascoltiamone subito le prime parole, se vogliamo sapere che cos’è un ritmo perfetto: «Amavo perdutamente la Contessa di...; avevo vent’anni, ed ero ingenuo; lei mi ingannò, io mi arrabbiai, lei mi lasciò. Ero ingenuo, la rimpiansi; avevo vent’anni, mi perdonò: e poiché avevo vent’anni, poiché ero ingenuo, ancora ingannato, ma non più lasciato, mi credevo l’amante più amato, e quindi il più felice degli uomini». -
Il manoscritto di Missolungi
Negli ultimi tre mesi della sua vita, esausto, disilluso, con gli occhi fissi sulla palude di Missolungi, Byron evoca i molteplici fantasmi del suo passato. Il diario e le memorie si alternano e si intrecciano. E il poeta annota: «Nel corso della mia vita ho tenuto innumerevoli diari. Il primo fu a Harrow, quando mi ammalai di febbre, lultimo il settembre scorso, a Cefalonia. Ma è tempo chio parli da recessi del mio essere più profondi di questi pedestri e superficiali scarabocchi. Annoterò gli eventi della giornata (di solito tediosi e insignificanti), poi un asterisco (ho sempre amato gli asterischi, e in Persia una stella simboleggia il destino), e dopo questo asterisco casto e simbolico mi addentrerò nel passato, vagherò nella notte alla ricerca di recessi più profondi». A poco a poco, da questi «recessi», dove fiorisce una selva lussureggiante di storie, emerge la vita delluomo che forse più di ogni altro scrittore dellOttocento suscitò la curiosità appassionata dei suoi contemporanei e continua a suscitarla oggi. Maestro del mimetismo e della mistificazione, come ben sanno i lettori di Voci e di Gli asiatici, Frederic Prokosch naviga con perfetta naturalezza fra gli scogli di questa «falsa autobiografia». Prima ancora che dai più celebri episodi della sua vita amorosi, politici, letterari , riconosciamo qui Byron dal suo polso, dallandamento bizzoso, sfrontato delle sue associazioni, dal suo passo spedito, che lo spinge ad attraversare senza esitazione tutti i territori fra il grottesco e il sublime. Il manoscritto di Missolungi è stato pubblicato per la prima volta nel 1968. -
Città italiane
«Ovunque entriamo, poniamo il piede in qualche storia» scrisse Cicerone. E queste parole, che Borchardt scelse come epigrafe per il suo saggio sulla villa toscana, valgono da introduzione a tutto ciò che egli ha scritto sull’Italia come «terra non scoperta» che sta davanti agli occhi di tutti. Borchardt sa far parlare il paesaggio, e la storia dentro di esso, come se l’uno fosse la concrezione dell’altro. Forse nessuno scrittore straniero del nostro secolo ha avuto una conoscenza altrettanto intima dell’Italia, dove visse per più di trent’anni. Dalla «villa» toscana come immagine di una civiltà, a cui qui è dedicato un mirabile saggio, ai ritratti di città cariche di passato, come Pisa, Volterra, Venezia, troveremo temi che obbligano a interrogarsi sull’essenza italiana, ben difficile da cogliere, e innanzitutto per noi. Amico di Hofmannsthal, traduttore di Dante, avverso alla «conclusione paurosamente errata della tecnica», Rudolf Borchardt creò un’opera altera e solitaria, che oggi spicca più che mai per la tensione formale e il rigore della sfida che ha gettato all’intera cultura moderna, per lui informe e asfittica. L’Italia fu per lungo tempo la sua specola, dove esercitò l’arte che gli era più congeniale: quella di «sopportare la distanza», come ben illustra il saggio di Marianello Marianelli che accompagna questa edizione. -
Il principio della piramide
Il protagonista di questo romanzo è un giovane ebreo, Lionel Vainberg, che continuamente tenta di sfuggire al peso della sua famiglia e continuamente rischia di farsi schiacciare dal peso della società al di fuori della famiglia. Questa situazione angosciosa e comica si ripropone per lui con tale regolarità da provocarlo a una riflessione-ricordo che diventerà questo romanzo, prendendo il posto della sua attività preferita: quella di ricopiare con bella calligrafia i romanzi di Hermann Broch. E la prima riflessione di Lionel è dedicata al «principio della piramide»: secondo lui, infatti, dopo aver costruito le piramidi per i faraoni, gli ebrei avrebbero continuato a costruirle con «altri materiali», ormai invisibili e psicologici. Sotto il peso di quelle pietre che non possono più essere messe su una bilancia, pensa Lionel, nasce ogni ebreo. E con esse deve fare i conti, spostandole con delicatezza. -
Il giogo
Presupposto di Severino, in questa che si può ritenere come la sua opera maggiore dopo Destino della necessità (1980), è che Eschilo sia «uno dei più grandi pensatori dellOccidente». Non sarà dunque il caso, nellindagare sulle origini del pensiero occidentale, di prendere in considerazione soltanto i cosiddetti Presocratici. Rispetto a essi, il pensiero di Eschilo è altrettanto centrale. Ma la sua forma non è filosofica. Occorrerà dunque percorrere tutta la «circonferenza», che è «il linguaggio di Eschilo», per muoversi poi verso il centro, la «struttura di fondo» a cui il libro è dedicato. Questa difficile e nuova impresa obbliga a unanalisi serrata, parola per parola, e talvolta sillaba per sillaba, di alcune delle sentenze di Eschilo. Dalle quali, per la loro straordinaria pregnanza, si dirama poi unindagine che finisce per investire tutto il pensiero greco, da Parmenide ad Aristotele, e certe sue interpretazioni, come quella di Nietzsche, oltre che attraversare, seguendo una via intentata, i grandi temi della tragedia greca.