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Mezzogiorno virtuoso
Se l’Abruzzo rappresenta un caso «virtuoso» di sviluppo regionale – nel Sud Italia certamente il più riuscito – lo si deve in larghissima misura alle scelte compiute nella Val di Sangro. È qui che in buona sostanza se ne sono decise le sorti, dando corpo a un modello di crescita difficilmente incasellabile entro le consuete letture che si danno della recente storia meridionale e nazionale. È difficile trovare una regione – non solo in Italia – che nel secondo Novecento registri una metamorfosi altrettanto radicale. Da «profondo Sud», oggi l’Abruzzo è la regione meno «meridionale» della penisola: una regione che ormai s’inserisce a pieno titolo tra le aree maggiormente progredite dell’Italia centro-settentrionale. Non a caso è stata la prima a superare, in base ai dati Eurostat, i propri «ritardi strutturali», con la conseguente fuoriuscita dal regime massimo degli aiuti comunitari (Obiettivo 1). È in Val di Sangro che questa «grande trasformazione» ha trovato il suo epicentro. In termini di opzioni industriali qui si sono giocate partite che travalicavano di molto l’ambito locale. Ne sono state investite la politica nazionale e persino quella internazionale. Di contro all’industrializzazione calata «dall’alto», secondo il classico schema dell’intervento straordinario da cui sono scaturite perlopiù «cattedrali nel deserto», in quest’area ha potuto affermarsi, grazie a un potente e consapevole protagonismo di massa, un tipo di sviluppo sostanzialmente rispettoso – per tipologia di fabbriche e modalità d’insediamento – dei valori ambientali, economici e culturali storicamente sedimentatisi nel territorio. Senza un tale spartiacque il destino della regione, e in una certa misura dell’intero Mezzogiorno, sarebbe stato ben diverso da come ci appare oggi. Abbiamo dunque un laboratorio storiografico di straordinario interesse sul piano nazionale e internazionale. -
Sciame di pietra
Poi fu una strana retedi oscure vie intrecciatesu case abbandonatedentro una scacchiera di fortune -
La questione locale
Dalla legge 142 del 1990 a oggi l’ordinamento dei livelli di governo ha conosciuto un vero e proprio rovesciamento che ancora non si è assestato. La Repubblica delle autonomie è in mezzo al guado. Il prolungarsi di questa situazione di disordine istituzionale è tra le ragioni della debolezza della sovranità nazionale perché si ripercuote sulla salvaguardia degli interessi del paese nelle sedi europee e internazionali. Il riordino del governo territoriale della Repubblica è ormai una necessità determinata da diversi fattori, soprattutto quello delle relazioni sopranazionali e internazionali. È urgente, in particolare, che l’Italia risponda adeguatamente alle condizioni imposte dal processo di internazionalizzazione dell’economia e dall’ulteriore evoluzione dell’integrazione europea, che richiedono una diversa articolazione dei compiti pubblici. Il luogo comune secondo cui le riforme istituzionali non interessano le persone, afflitte da ben altri problemi, è quanto di peggio possa essere stato pensato e detto da una certa parte della nostra classe politica. Infatti, chi dovrebbe affrontare i problemi delle persone se non le istituzioni? E come possono istituzioni così inefficienti svolgere questo ruolo? La questione va posta esattamente al contrario: la messa a punto delle istituzioni è il problema reale dell’Italia e, in tale ambito, il caso dei poteri locali ha assunto i caratteri di una vera e propria «questione costituzionale». I diversi contributi di Stelio Mangiameli al tema delle autonomie locali forniscono un’originale interpretazione delle recenti disposizioni costituzionali e della loro attuazione a oltre sette anni da una riforma che è, praticamente, ancora da realizzare, mentre le problematiche delle autonomie locali nell’ordinamento della Repubblica si aggravano sempre più. -
Tra il dire e il fare. I genitori tra rappresentazioni educative e pratiche di cura
L’esperienza di genitore si declina oggi attraverso i concetti del desiderio, della scelta, dell’amore e del rispetto per la natura del bambino. La centralità attribuita all’individualità infantile è figlia del riconoscimento di cui gode l’individualità nelle società odierne – in misura crescente in quelle occidentali ma non solo in esse –, la quale si riverbera anche nei modi in cui si costruiscono i legami familiari e genitoriali. Non si tratta più di «plasmare e modellare» il minore secondo le competenze e le conoscenze adulte, quanto piuttosto di rispettarne la natura, di promuoverne l’autonomia e di assecondarne le potenzialità attraverso un dialogo costante. All’interno di questo scenario, in cui il bambino ha la titolarità di soggetto e il diritto alla propria autonomia, si apre l’interrogativo su quale forma e quale contenuto debba avere la responsabilità adulta chiamata a orientare il percorso di crescita di un soggetto che da essa dipende. Obiettivo del volume, che illustra i risultati di una ricerca condotta in Veneto su un gruppo di genitori italiani e marocchini con figli collocati nella prima infanzia, è ricostruire i significati, i saperi e le pratiche che madri e padri nella quotidianità attribuiscono ai propri compiti educativi, di cura e alle proprie responsabilità di genitori. Le narrazioni ci conducono nel «fare» di tutti i giorni con i propri figli e, attraverso le pratiche collegate all’alimentazione, all’igiene e all’addormentamento, si sono confrontati i modi differenti per genere e cultura dell’essere e del fare i genitori. Ne è emerso un quadro ricco e complesso, segnato da trasformazioni, tensioni e rinegoziazione dei ruoli materni e paterni, senza che mai vengano meno la centralità e la tenuta del legame e della responsabilità familiare. In particolare, grazie al confronto tra rappresentazioni educative e pratiche di cura, emerge come sia la differenza di genere, molto più di quella culturale, a spiegare le trasformazioni oggi in atto nelle relazioni genitoriali e nei diversi modi di fare famiglia. -
Consumi ai margini
Questo volume affronta in maniera insolita, almeno per il panorama italiano, un argomento di grande impatto sociale: i consumi dei poveri. La popolazione a basso reddito, infatti, è per lo più studiata in una prospettiva quantitativa (chi e quanti sono i poveri, di quanto denaro dispongono, quanto ne spendono e per comperare cosa) che poco ci dice, ad esempio, sulle strategie di consumo e di risparmio o sulle reti di scambio e di reciprocità. Nelle ricerche qui riportate, invece, si è privilegiata un’ottica di tipo qualitativo, allo scopo di oltrepassare il diffuso stereotipo secondo il quale i poveri sarebbero esclusi dalla possibilità di scegliere beni e pratiche della loro esistenza. Volti inediti della povertà sono così emersi dall’analisi delle routines della vita quotidiana e dell’uso concreto degli oggetti e dei contesti domestici, dallo studio dei comportamenti legati ai media, dall’osservazione dei luoghi deputati a fornire risposte ai bisogni necessari, come le mense, le comunità alloggio, i centri di aiuto religiosi, gli sportelli di distribuzione di cibo e abbigliamento. Applicando metodologie di ricerca innovative – la sociologia visuale e le interviste con foto stimolo, le prolungate osservazioni etnografiche, i racconti di vita – gli autori hanno mostrato come, pur in presenza di forti vincoli materiali, culturali e relazionali, le persone non rinuncino mai del tutto a costruire creativamente relazioni e identità. Anche chi vive una condizione di consumo difettoso o mancante, sempre più spesso percepita come una condanna sociale, riesce ad attuare strategie alternative al mercato attraverso il risparmio, il dono e lo scambio, gli impieghi innovativi di oggetti e spazi a basso costo. In tal modo si riconferma il potenziale identificativo delle pratiche di consumo non solo per chi occupa posizioni già garantite, ma anche per chi, pur disponendo di risorse limitate, cerca di usarle per legittimare insieme la propria cultura e la propria esistenza. -
Politiche, città, innovazione
A cavallo dello scorso decennio, le politiche pubbliche territoriali delle regioni hanno affrontato una sfida in parte proveniente dall’esterno, in parte dovuta alla maturazione di sperimentazioni precedenti. In questi anni sono cambiati sia le tendenze globali che i riferimenti macroeconomici, e di conseguenza i presupposti dei programmi elaborati all’inizio del secolo sono rapidamente invecchiati. Più in generale, sono venuti meno le premesse «cognitive», i convincimenti, le descrizioni pertinenti sui quali riposavano obiettivi e programmi. Le trasformazioni sono state così profonde che perfino le rappresentazioni organizzative e geografiche dei territori regionali hanno perso l’antica spinta propulsiva: le pur radicate metafore del distretto, della città fabbrica, della campagna urbanizzata risultano oggi inoperose. Al tempo stesso, la scorsa stagione di programmazione ha avviato sperimentazioni promettenti: sono stati attuati dispositivi di integrazione tra settori diversi; la territorializzazione delle politiche è stata messa quasi dappertutto in agenda; le misure adottate hanno parzialmente corretto le indicazioni di programma. Come hanno reagito le regioni, come si sono evoluti i programmi territoriali in questo nuovo decennio? Sebbene sia ancora presto per valutare gli esiti materiali, si possono misurare almeno gli «slittamenti» nelle rappresentazioni programmatiche. Questo volume esamina come il territorio sia stato tematizzato nel discorso delle politiche, in particolare nei programmi per le città e l’innovazionetecnologica, e ne verifica la consistenza e stabilità nei discorsi programmatici, nonché la coerenza con l’obiettivo della competitività. Un approccio che può disegnare solo in parte scenari alternativi, ma che consente di individuare problemi e priorità del ciclo di programmazione in corso. La prima parte del volume argomenta l’esaurimento delle tradizionali visioni dello sviluppo e dei modi di territorializzarlo, e una serie di spunti critici. Uno di questi riguarda le città e le aree metropolitane, esaminate in una specie di «atlante» tematico elaborato sui dati censuari comunali. Forma, struttura e peculiarità dell’armatura metropolitana influenzano le decisioni di politica urbana e di innovazione. Da questi due punti di vista vengono offerti approfondimenti critici e una serrata revisione delle premesse concettuali e degli esiti operativi. La seconda parte contiene i quattro casi studio relativi a regioni del Centro-nord (Piemonte, Veneto, Toscana e Lazio). A valle di un medesimo quadro ispirativo e di regole operative uniformi, gli elementi cruciali della programmazione (perimetri, priorità, concentrazione, integrazione, innovazione) si sono evoluti in modo molto diverso. Oggi, la transizione insediativa e produttiva delle regioni sembrerebbe richiedere un’ulteriore revisione delle immagini guida. Il tema del Piemonte non è più la difesa o il superamento della Fiat, come non è più la difesa o il superamento del distretto il tema del Veneto o della Toscana. La ricerca segnala che non sono ancora disponibili scenari territoriali adeguati alle nuove condizioni di programmazione. Sono però più chiari i requisiti. Servono rappresentazioni territoriali pertinenti per fornire punti di ancoraggio alle scelte; e, al tempo stesso, selettive quanto basta per non disperdere gli investimenti. Ancora molto resta da fare. Le esperienze di territorializzazione sono state limitate, come pure l’integrazione degli interventi, ma per altri versi si sono rivelate positive. Il riconoscimento delle differenze e la... -
Centovini. I Trimani
Ogni vino degno di questo nome racconta una storia. Rinvia a qualcosa di più forte e profondo, che è incorporato nelle sue stesse caratteristiche organolettiche, che è sotteso al linguaggio dei suoi stessi odori e sapori. Dietro al successo di ogni etichetta c’è una casa, una famiglia, una o più generazioni di uomini e donne che nel corso della loro vita hanno lavorato a un progetto. C’è chi ha cominciato per caso, chi per vocazione, chi per tradizione familiare. C’è chi ha preso le mosse da un terreno, chi da una vigna, chi da una passione. A ben vedere, sono queste storie a motivare la scelta di un vino, a farlo «diverso» dai suoi consimili, marcatore irripetibile di un gusto, di una «qualità». Se si preferisce, la questione si può porre in questi termini. Tra i mille e mille vini italiani di qualità, quali sono i cento che «parlano» all’ospite con la loro stessa presenza in tavola? Di quali il padrone di casa potrà compiacersi nel raccontarne la storia? Ma chi può scegliere cento vini a questo modo? Chi ha incorporato l’esperienza, il gusto e la competenza che servono allo scopo? Chi è disposto a correre il rischio e accettare di uscire allo scoperto? Chi, se non coloro che il vino, per mestiere, lo comprano, lo vendono, lo negoziano? I Trimani sono la famiglia di vinai più antica di Roma; da quasi duecento anni vivono immersi – è il caso di dirlo – entro storie di vini. La selezione che qui ci propongono è insolita, giacché l’obiettivo non è stilare una classifica o una tabella di qualità; i Trimani hanno solo scelto di raccontare ai lettori curiosi e, certo, amanti del vino, le storie che rendono particolare una bottiglia piuttosto che un’altra, che spingono a promuovere un’etichetta secondo parametri non esclusivamente enologici. Bando dunque alle pagelle, e occhio alle storie più curiose che, una volta conosciute, finiranno per gratificare il nostro orizzonte di bevitori, dai più esperti ai neofiti. -
Odisseas Elitis
Odisseas Elitis (1911-1996), insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1979, è una delle figure più significative della poesia contemporanea greca. La sua produzione, ancora poco conosciuta in quell’anno, è ormai entrata di diritto nel bagaglio e nell’immaginario letterario italiano ed europeo. Questo volume, frutto del convegno tenutosi a Roma nel 2006, a dieci anni dalla sua scomparsa, e prova evidente della fortuna della sua voce poetica, restituisce un ritratto fedele e completo dell’opera di Elitis. Poeta greco ed europeo insieme, «europeo per metà» appunto, come si è autodefinito lui stesso: un poeta che si muove fra tradizione e innovazione. Sempre fedele a se stesso eppure sempre nuovo, alla continua ricerca di sé e della sua «parola» che si confronta con i grandi di tutta la tradizione greca, dai lirici agli innografi bizantini, dalla letteratura neogreca dell’Ottocento ai propri contemporanei – Seferis, Embirikos, Sarandaris,Gatsos –, ma capace anche di stabilire un dialogo diacronico con i grandi della letteratura e dell’arte europee. Poesia sensuale, la sua, ma sostenuta da una geometrica concezione del mondo. Luminosa e ottimistica anche se non priva di ombre e sempre tesa allo scavo interiore, capace di fondere sentimento e pensiero, lirismo e prosa. La natura e la lingua greche, colonne portanti del suo universo poetico, sono la via per una conoscenza «altra» della realtà, e ci fanno entrare nel suo «secondo» mondo che fa da specchio al primo, dove la natura ha un valore analogico e il paesaggio è una sorta di metafora. -
La precarietà degli oggetti
L’insolita relazione fra estetica e povertà è al centro della ricerca presentata in questo volume. In tale inconsueta prospettiva, usando interviste, osservazioni etnografiche, foto, le autrici hanno esplorato il ruolo svolto da certi oggetti «belli» nella vita quotidiana di un gruppo di persone che vivono in condizioni di indigenza. La coppia «estetica e povertà», apparentemente provocatoria, è in realtà meno eccentrica di quanto appaia a prima vista, a condizione però di ridefinire i due termini della questione. La prima ridefinizione riguarda il termine estetica, da non considerare come una proprietà rara di alcune cose ma come una modalità relazionale, capace di raccontare come certi oggetti ritenuti belli «agiscano», in senso sociale e cognitivo, nella vita delle persone anche in contesti di povertà. L’altro presupposto è di considerare la povertà non come un ambiente uniforme ma come una condizione mobile, costituita di continue negoziazioni fra uno stato di necessità e una – seppur limitata – possibilità di scelta. Intercettando volti e storie negli spazi domestici, il concetto di bello è stato indagato in maniera concreta e immediata, chiedendo alle persone intervistate di mostrare gli oggetti più belli presenti nelle loro case e nei loro armadi. I tanti oggetti mostrati e fotografati e le molte storie ascoltate raccontano di un’estetica pratica che è capace di dare ordine e creatività al mondo quotidiano anche in contesti difficili. Insomma, un’idea di estetica come ambito esistenziale, come spazio fisico e metaforico in cui chiunque – anche chi vive in uno stato di necessità – può comunque esercitare una libertà di scelta. -
Spasimo
In principio c’è De Roberto. Nel 1897, più di un secolo prima dell’esplosione del genere poliziesco nella letteratura italiana, uno dei grandi maestri del nostro Ottocento dà alle stampe un romanzo tutto imperniato sull’indagine indiziaria attorno a un caso scabroso ambientato in una signorile dimora sul lago di Ginevra. La facoltosa contessa d’Arda, legata al rivoluzionario russo Alessio Zakunine da una lunga, e ormai contrastata convivenza, muore con un colpo di rivoltella alla tempia nella sua stanza da letto, in una mattina d’autunno del 1894. Ad accorrere sulla scena, oltre al principe nichilista, la giovanissima slava Alessandra Natzichev, sua compagna di fede politica, e Roberto Vérod, scrittore inquieto, legato alla vittima da qualcosa di più che una calda amicizia. Si apre così un romanzo che sin dalle prime righe avvince il lettore in una morsa e lo trascina nel continuo oscillare tra due ipotesi contrapposte: delitto passionale o suicidio? A sciogliere l’enigma è chiamato un magistrato di lungo corso, Francesco Ferpierre, subito preda di un’ansia investigativa che, in assenza d’indizi inoppugnabili, lo porta ad aggrapparsi al suo collaudato intuito e alla capacità di intravedere i moti dell’animo umano. Saranno il suo sguardo inquisitore, i suoi dubbi e i suoi espedienti al limite delle regole, ad accompagnare il lettore nella ricostruzione di una vicenda nella quale magistralmente s’incarnano le contraddizioni e i dilemmi di quel fine secolo: le positivistiche certezze della ragione e il richiamo della fede in un Dio pietoso; l’inestinguibile lotta tra il bene e il male, tra l’ardore delle passioni e le convenzioni sociali, tra la tentazione intimista e l’afflato rivoluzionario. Sostenuto da una lingua capace di assecondare ogni sfumatura e ogni contorno dei gesti e dei pensieri dei protagonisti, l’intreccio inaugura uno stratagemma narrativo destinato a diventare un canone per tanta letteratura e tanto cinema successivi: quello dell’investigatore capace di immedesimarsi nei panni dei diversi personaggi, via via che la ricostruzione pare identificare nell’uno o nell’altro il colpevole del delitto o viceversa propendere per la pista del suicidio. Lo «spasimo» che accomuna tutti i personaggi finisce in tal modo per annidarsi anche nell’animo del lettore, fino all’ultimo imprevedibile colpo di scena. Pubblicato tre anni dopo I Viceré, Spasimo fu accolto con le curiosità e le polemiche riservate alle opere veramente innovative, per essere poi consacrato, nel corso del secondo Novecento, come il primo e più significativo esempio di romanzo investigativo italiano. «Stupisce la modernità di Spasimo, la sua originalità poliziesca – osserva Massimo Onofri nell’Introduzione – ed è proprio nella costruzione e nel formidabile intreccio del dramma giudiziario che sta la qualità prima del romanzo». -
Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano
Da sempre nel calcio italiano convivono due culture: quella sportiva, secondo cui a vincere dev’essere il migliore, e quella dello scontro che fa di ogni partita l’occasione di un conflitto. Il recente «caso Balotelli» ha esasperato questa contraddizione: da una parte, mostra come il calcio sia un ambito in cui il talento è sufficiente per affermarsi, al di là del colore della pelle e delle origini; dall’altra, evidenzia la forte presenza del razzismo negli stadi, con in più il paradosso che a esserne vittima è un ragazzo italiano. A partire da questa contraddizione, Valeri passa in rassegna gli ultimi dieci campionati di serie A, B, Prima e Seconda Divisione, e Coppa Italia; attraverso le sentenze del giudice sportivo e le denunce della stampa, analizza oltre cinquecento episodi di razzismo di diversa gravità, a opera delle tifoserie non meno che dei calciatori. Ne viene fuori un quadro sorprendente, tanto per l’ampiezza e il radicamento del fenomeno (nelle tifoserie, nelle società e tra i calciatori), quanto per la difficoltà di contrastarlo (per la giustizia sportiva e penale, e le forze dell’ordine). Difficoltà che alcune volte lasciano intravedere una sottovalutazione del fenomeno e altre un’acquiescenza che sembra mettere in discussione sia la punibilità di alcune ideologie razziste, sia il concetto stesso di razzismo. Ma ancora una volta è la «generazione Balotelli» a segnare un punto di svolta: per niente disposta a essere considerata di serie B, obbliga le istituzioni e le società calcistiche a rivedere le proprie posizioni. -
Riformisti e comunisti. Il «migliorismo» nella politica italiana
Riformisti e comunisti? A cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un gruppo agguerrito di dirigenti e militanti del Pci provò a declinare, in Italia, l’ultima stagione di quello che oggi appare un ossimoro. Nei decenni precedenti, la «destra comunista», prima con Giorgio Amendola e poi con Giorgio Napolitano, era sembrata più volte al limite dello strappo. Ma il crollo precipitoso del colosso sovietico, con gli esiti nostrani della «Bolognina», apriva ora nuove opportunità e non lasciava più tempo agli indugi. Fu tra il 1989 e il 1994 che si consumò, in effetti, la parabola della corrente «migliorista». Il suo intento dichiarato era di superare l’anomalia della sinistra italiana, promuovendo la costruzione di un grande partito socialista a vocazione maggioritaria. Ma tre fattori ne limitarono le potenzialità: la concezione del partito e della lotta politica interna; un’eccessiva ricerca dell’equilibrio tra istanze di continuità ed esigenze di rottura; e infine la difficoltà a considerare come compiutamente propria la cultura liberalsocialista.La tesi di questo libro, scritto da uno tra i principali protagonisti di quell’esperienza, è netta: se i riformisti del Pds avessero operato più tempestivamente per la sintesi tra socialismo e liberalismo e si fossero candidati alla guida del processo d’innovazione capace di incarnarla, l’Italia si sarebbe dotata già a metà degli anni novanta di un vero partito di «centrosinistra». E oggi sarebbe un’altra Italia… -
L' ora felice
Una parola secca, minima, che lavora per sottrazione, ma che proprio per questo si presenta come doppiamente intensa, la poesia di Francesco Scarabicchi rappresenta ed è riconosciuta una delle esperienze più interessanti della poesia italiana degli ultimi anni. Alla quinta raccolta in poco meno di trent’anni, la fisionomia dell’autore marchigiano è ormai nettamente definita: lirico nel senso pieno ed anzi esclusivo del termine, i suoi versi sono scanditi tanto dalla severità formale quanto dalla fedeltà al vivere comune di cui sono piena testimonianza tutti i suoi precedenti lavori. L’ora felice rappresenta oggi una prosecuzione e un approfondimento della sua ricerca. Immutata la matrice esistenziale così come la chiarezza linguistica e stilistica della parola, in questa nuova folgorante raccolta Scarabicchi manifesta tuttavia una più esplicita adesione alla propria materia, come si trattasse di un bilancio nell’età di mezzo o del lascito di un romanzo di formazione in cui si richiamino i soli dati certi, la trama degli affetti e le occasioni primordiali. Passato e futuro si fondono in questi versi che catturano per la loro semplicità quasi aforismatica, c’è una memoria che si traduce in musica ed impone, pertanto, di proseguire il viaggio. -
La costa obliqua
I paesaggi costieri come territori «speciali». I loro rapporti con i retroterra. La loro storia e il loro presente. Le opportunità, i rischi, il futuro. Un’analisi a tutto campo tra terra e mare, in una regione che mette continuamente in scena la sua vocazione mediterranea ed europea. -
Vasto
Come s’inserisce Vasto nella storia del Mezzogiorno e dell’Italia? Semplice rispecchiamento o specifico protagonismo? Con quali modalità – in questo caso – la microstoria si rapporta alla «grande» storia? Partendo da questi interrogativi, grazie a un impianto multidisciplinare ancorato alle più aggiornate acquisizioni dell’odierna storiografia (in particolare sul versante economico e sociale, ma anche amministrativo e politico), il libro ricostruisce la plurisecolare vicenda di un centro costiero dai tratti comunque molto marcati. Già protagonista di eventi significativi in età preromana e romana, fino al rango di municipium histoniensium, con il tempo Vasto consolida una centralità storica che va ben oltre l’ambito locale: condizioni geografiche particolarmente favorevoli e flussi mercantili di rara intensità, nonostante il giogo delle signorie feudali, ne fanno un polo urbano di forte attrazione sull’intero medio Adriatico. Dal tardo medioevo vi si afferma una protoborghesia, soprattutto in campo agrario e commerciale, le cui intraprese si proiettano fruttuosamente nelle dinamiche dell’«economia-mondo». Nelle grandi trasformazioni della contemporaneità, Vasto continua a segnalarsi per alcune sue peculiarità. Nel secondo Novecento, sfruttando abilmente le opportunità dell’intervento straordinario, specie nella prospettiva industriale e turistica, vi si innescano meccanismi virtuosi di sviluppo che ne fanno un «localismo» di successo. Per molti aspetti abbiamo uno spaccato emblematico della storia meridionale. Ma nella ricostruzione che ne fornisce l’autore si notano anche tratti di originalità e differenziazione che contribuiscono – se non proprio a revisionare – quanto meno ad approfondire schemi di lettura che una lunga tradizione di studi, dal meridionalismo classico alla «nuova storia», vorrebbe definitivamente acquisiti. -
Come si diventa Michelangelo. Le peripezie di un presunto capolavoro
«In tutta questa faccenda del crocifisso ci sono parecchie cose che non mi piacciono: il giro dei soldi, la retorica idiota da sindrome di Stendhal, le benedizioni dei vescovi, i panegirici degli assessori, gli immigrati musulmani accompagnati davanti alla Croce… Ma la cosa che mi piace di meno è che l’infantilismo, nelle opinioni e nelle parole, non sembra motivato dalla volontà di adeguarsi a un pubblico infantile: sembra del tutto spontaneo. E insomma è come se la distinzione veramente significativa non fosse più tanto quella tra destra e sinistra quanto quella tra bambini e adulti. Ed è come se oggi il potere fosse saldamente nelle mani dei bambini». Nel dicembre del 2008 lo Stato italiano acquista da un antiquario torinese un crocifisso di legno, 40 centimetri per 40, attribuito a Michelangelo. Prezzo: tremilioni e duecentocinquantamila euro. Il ministro Bondi va al Tg1 ad annunciare l’acquisto e lo presenta come la prova di un’oculata, lungimirante politica di gestione dei «beni culturali» mirata a investire sui capolavori. Nel corso del 2009 il crocifisso parte per una lunga tournée nei musei e nelle chiese italiane, salutato dagli assessori e benedetto dai vescovi: Roma, Palermo, Trapani, Napoli, Milano.Ma nello stesso anno qualcuno comincia ad avere dei dubbi: secondo molti esperti il crocifisso non è di Michelangelo; e in ogni caso il prezzo non è un prezzo ragionevole: è troppo poco per un Michelangelo autentico, è troppo per un prodotto di bottega. I dubbi fanno presa. Una deputata presenta un’interrogazione parlamentare; la Corte dei conti apre un’inchiesta per danno all’erario; infine (dicembre 2009), i carabinieri entrano al ministero dei Beni culturali e sequestrano gli atti relativi all’acquisto del crocifisso, e la Procura della Repubblica di Roma apre un’indagine per truffa ai danni dello Stato. In questo libro,Claudio Giunta racconta pazientemente (e comicamente) i fatti, ma mostra anche che i fatti sono una metafora. Perché nella vicenda del «crocifisso ritrovato» s’incrociano e si sommano molti dei difetti e delle insufficienze italiane: una politica culturale degradata a propaganda; un giornalismo sciatto e superficiale; l’onnipresenza della Chiesa; il linguaggio assurdo degli storici dell’arte e, più di tutto, la malattia nazionale per eccellenza, la retorica: quel continuo maquillage della realtà che ci sta trasformando – secondo una formula celebre e ineccepibile – in bambini di nove anni, neanche tanto intelligenti. -
Globalizzazione
Il complesso fenomeno della globalizzazione, così come lo conosce il mondo attuale, è caratterizzato, nell’analisi di Joseph Stiglitz, da un clamoroso paradosso: il processo sempre più forte di interdipendenza e di integrazione delle economie del nostro tempo pone agli Stati-nazione domande nuove e ineludibili, ma al tempo stesso riduce drasticamente la loro capacità di dare una risposta compiuta a tali domande. Già un secolo e mezzo fa, quando si formarono gli Stati-nazione, i processi di riduzione dei costi di comunicazione e di trasporto diedero origine a un primo significativo antecedente dell’attuale processo di globalizzazione, ma all’epoca i governi mostrarono una più alta capacità di regolare simili processi. Oggi, la globalizzazione è priva di istituzioni in grado di affrontare le sue conseguenze. Abbiamo un sistema di governance globale, ma ci manca un governo globale. Anzi, ne abbiamo uno, implicito e improprio, quello che, con forte ironia, Stiglitz chiama il «G1»: il potere, assoluto e incontrastato, degli Stati Uniti. E proprio nel momento in cui più forte che mai sarebbe la necessità di solide istituzioni internazionali, la fiducia in quelle che esistono, come il Fondo monetario e la Banca mondiale, raggiunge i livelli più bassi. Il risultato di tutto ciò è un mondo che, per essere ormai privo di rivali esterni, non è per questo meno imperfetto. Oggi abbiamo tutti ben presenti i benefici che derivano dal mercato, ma siamo anche assai consapevoli dei suoi fallimenti. Sappiamo bene che, quando l’informazione è imperfetta, i mercati non funzionano. Così come sappiamo che i meccanismi della crisi – che oggi più che mai colpisce gli equilibri economici mondiali – sono scatenati dai più forti, e finiscono per ricadere necessariamente sui più deboli. Non ci vuole molto a riconoscere che i nostri processi democratici sono ancora largamente incompiuti, e che a farne le spese sono quelle vaste parti del mondo che si affacciano oggi come nuove protagoniste, e che reclamano anch’esse un posto e un ruolo nella scena mondiale. L’obiettivo verso il quale bisogna tendere è dunque il raggiungimento di regole migliori, veramente più democratiche. In ciò la nozione di «trasparenza» è davvero fondamentale. E la democrazia in fin dei conti si rivela, agli occhi di Stiglitz, come la vera scommessa, come il tema ineludibile nell’era della globalizzazione. -
A che serve la storia?
L’insieme dei saggi che compongono il volume sorge da un’esplicita volontà di rivolta culturale: una critica radicale alle strutture ufficiali delle discipline scientifiche della nostra epoca, diventate ormai istituzioni, pratiche di dominio, soffocante senso comune. I saperi umanistici subiscono oggi un’emarginazione sempre più deliberata e vengono apertamente privati di valore e di significato sociale, a favore delle conoscenze tecnico- scientifiche, portatrici di un’ovvia e immediata utilità economica. L’umana conoscenza, la riflessione intellettuale, ogni forma di attività culturale deve disporsi in funzione del supremo fine di rendere competitive le varie economie nazionali nel grande agone globale. In questa visione ormai quasi bellica dello sviluppo economico – ma che in realtà esprime un passaggio epocale del capitalismo, impegnato a piegare ogni elemento della realtà, dalla natura alla mente umana –, i saperi umanistici e quelli popolari e tramandati, la letteratura, la filosofia, l’arte, la storia, il vasto ambito di ricerca spirituale è stato chiamato a compiti marginali e ancillari. Ma oggi questo scenario specialistico e utilitario è in scacco. Esso esprime una conoscenza sempre più approfondita ed esatta, che si esercita su ambiti delimitati, distaccati dai loro contesti più generali, perdendo così di vista il sistema delle connessioni che tiene unita la realtà in reti complesse. Uno dei compiti fondamentali delle culture umanistiche è quello di risvegliare l’umanità dal sonno dogmatico dell’economicismo in cui essa è sprofondata. I saperi liberi del nostro tempo devono farsi portatori di una cultura cosmopolita, che torni a guardare alla stella polare della giustizia sociale, della solidarietà fra i popoli e fra gli uomini, del dialogo tra le culture, di un rapporto nuovo di cura e di rispetto per tutto il mondo vivente di cui costituiamo una parte, diventata ormai distruttivamente dominante. -
Alleanze nell'ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno
Sulle mafie si consumano fiumi d’inchiostro. E tuttavia sono ancora poco conosciuti, sebbene di cruciale importanza, i meccanismi attraverso cui le organizzazioni criminali si inseriscono nei mercati leciti. In che modo accumulano capitali? Quanti di questi capitali derivano dalle tradizionali attività illegali? Quanto invece è rilevante il coinvolgimento in attività economiche legali? Quali soggetti entrano in affari con i mafiosi, che tipo di accordi si stabiliscono, e chi ne ricava i maggiori vantaggi? In questo volume sono presentati i risultati della prima indagine che affronta, empiricamente e in modo sistematico, i processi di compenetrazione fra le economie locali e le diverse organizzazioni criminali: Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra. Viene così ricostruito un quadro delle tendenze in atto, che sono poi approfondite attraverso lo studio di specifici casi e contesti in Sicilia, Calabria e Campania. L’analisi copre un’ampia gamma di settori di attività: l’edilizia, gli appalti, le energie rinnovabili, la grande distribuzione commerciale, i trasporti, la sanità, le opere pubbliche, i rifiuti e il mercato del falso. Ovunque è emersa l’essenziale intermediazione di un’«area grigia» vasta e assai eterogenea, composta da professionisti, politici, imprenditori, tecnici e burocrati. La ricerca documenta come sia in crescita la schiera di soggetti che fanno affari all’ombra delle mafie. I rapporti di collusione nonsono vantaggiosi soltanto per i mafiosi; anzi, spesso a trarne maggiore profitto sono proprio i loro complici, soci e alleati. Un’indagine a tutto campo che offre importanti materiali inediti per restituire linfa al dibattito e suggerire la messa a punto di più efficaci strumenti di contrasto. -
L' estetica del pop
Settembre 1963. Blue Velvet di Bobby Vinton domina la top ten americana. Al cinema sta per scoppiare il ciclone 007, Dalla Russia con amore, mentre dall’altra parte dell’oceano esplode come una tempesta She Loves You dei Beatles. Un giovane di nome Andy Warhol, insieme a una banda di amici, si prepara ad attraversare in auto l’America, alla scoperta del West. Si respira un vento di cambiamento, e quello di Andy e dei suoi amici sarà un viaggio mitico… «Più ci dirigevamo a ovest – scrive Warhol – più sull’autostrada ogni cosa appariva pop. Improvvisamente sentivamo di far parte di qualcosa, perché anche se il pop era ovunque, per noi era la nuova arte. Una volta che diventavi pop non potevi più guardare un’insegna allo stesso modo. Una volta che pensavi pop non vedevi più l’America come prima». La parola pop è una delle più inflazionate del vocabolario comune. La si usa per indicare qualsiasi cosa: un gusto, uno stile, una moda, un atteggiamento. In realtà il pop definisce una particolare sensibilità estetica, nata e affermatasi in un preciso contesto storico e geografico,ma capace poi di attraversare le generazioni e i continenti. È un fenomeno culturale che non si è limitato alla sua espressione più nota, la Pop Art, ma che ha investito ogni aspetto della vita del secondo Novecento, dal gusto estetico individuale all’immaginario collettivo, dagli oggetti quotidiani agli ambienti urbani. Ponendosi come premessa del postmoderno, sostiene Andrea Mecacci, il pop ha dato espressione all’estetica più emblematica della tarda modernità, elaborando una vera e propria mitologia capace di penetrare la vita di ognuno di noi. Così, se Warhol in quel lontano ’63 scriveva che «il pop è amare le cose», qualche anno più tardi gli faceva eco Madonna sostenendo che «il pop è il riflesso assoluto della società in cui viviamo». Possibile darle torto?