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La preziosa ghirlanda degli insegnamenti degli uccelli (Bya chos rin-chen 'phreng-ba)
In Tibet l’arrivo del cuculo, il re degli uccelli, annuncia il risveglio della natura. In questo testo il cuculo, sotto le cui penne si cela per l’occasione il Bodhisattva Avalokitesvara, che personifica la compassione, annuncia al popolo alato la possibilità del risveglio alla reale natura della mente, sepolta sotto il coinvolgimento nell’esistenza fenomenica, contratta nel gelo delle bufere emotive e offuscata dalle brume dell’ignoranza. Meditate le sue istruzioni, a turno gli uccelli riuniti in assemblea dichiarano ciò che hanno compreso e fanno udire i loro versi: versi che, se paiono a un primo ascolto inintelligibili, suonano in tibetano come perentorie esortazioni a ricordare gli insegnamenti del Buddha e come ammonimenti di carattere gnomico. L’anno successivo gli uccelli indiani, cui la dottrina è stata inizialmente esposta, migrano a nord e si ritrovano nel Paese delle Nevi, quasi a simboleggiare la successiva diffusione del buddhismo dall’India in Tibet. Tradotta per la prima volta in Occidente nel 1953, questa operetta anonima e di epoca incerta fu subito percepita come una gemma della sapienza buddhista tibetana. -
L'ombra cinese
Esterno notte: place des Vosges, una sera di novembre. Al numero 61, il direttore dei laboratori che producono i famosi Sieri del Dottor Rivière viene trovato ucciso nel suo ufficio in fondo al cortile: dalla cassaforte, rimasta aperta alle sue spalle, sono scomparsi trecentomila franchi. Al primo piano, la signora di Saint-Marc, moglie di un ex ambasciatore, sta partorendo; al secondo, una vecchia pazza urla nel silenzio della notte ogni volta che la sorella la lascia sola per andare a origliare alle porte dei vicini. Levando lo sguardo, Maigret scorge, dietro le tende di un finestra illuminata, una figura di donna che in controluce gli fa l'effetto inquietante di un'ombra cinese... -
Il cristianesimo così com'è
C.S. Lewis, grande studioso del Medioevo e romanziere fantascientifico, si trovò a un certo punto della sua vita a essere, come egli stesso osservò con affilata ironia, «forse il più depresso, il più riluttante convertito d'Inghilterra». Ma che cosa lo aveva obbligato a passare da una posizione di cauto agnosticismo alla fede? «Il cristianesimo così com'è», cioè quel nucleo irriducibile in cui si intrecciano pensiero, emozione e gesto – e che sta dietro a tutte le disparate divergenze dottrinali, a tutte le dispute ecclesiastiche. È questo il nucleo che rende «naturalmente cristiano» chiunque sia nato in Occidente negli ultimi duemila anni. Come raccontare, come rendere evidente tutto ciò? C.S. Lewis volle usare la massima immediatezza, obbligandosi a parlare nel modo più semplice delle cose ultime. E il risultato fu una riuscita impressionante. Così queste conversazioni radiofoniche, che risalgono agli anni Quaranta, sono rimaste ineguagliate: soprattutto per la perspicuità con cui rendono palpabili i più ardui problemi teologici, mostrandoceli nella loro vera natura di possenti cunei conficcati nella circolazione della nostra mente. Da essi, che lo vogliamo o no, non possiamo prescindere: e allora, insinua Lewis, tanto vale che ce ne lasciamo illuminare. -
L' ultimo scalo del Tramp Steamer
«Molte facce e molte maschere ha l'amore, parola con cui nominiamo innumerevoli sentimenti». Dal Baltico al Sud America, i vagabondaggi di un vascello fantasma e le tappe di un amore impossibile. -
Mumù e altri racconti
La bellezza, la maestria di una lingua di straordinaria trasparenza che si adagia sulle cose aderendovi come una seconda, radiosa pelle, apparentano questi tre racconti che Turgenev scrisse in anni diversi, per occasioni diverse, e che vengono qui pubblicati nella successione che Tommaso Landolfi volle scegliere per l’antologia Narratori russi. Il prato di Bežin entrò a far parte di quelle Memorie di un cacciatore (1851) che diedero a Turgenev fama di maestro del realismo e primo cantore del mondo fino ad allora muto dei contadini, dei servi della gleba; puro oggetto di bellezza, prediletto da Henry James tra gli scritti turgeneviani, è gremito di ombre, presenze demoniache, inquietanti esseri fantastici – spiriti dei boschi e delle acque, russalche, fantasmi di annegati –, e tuttavia emana poesia e non sgomento. In La reliquia vivente (1874), apparso in una più tarda edizione delle Memorie di un cacciatore, restiamo ammirati e straziati di fronte alla semplice, spoglia sacralità di una creatura devastata dalla malattia, ridotta a povero e dolorante oggetto, e tuttavia viva come un fiore, un albero, un profumo della natura russa che tanto deve all’amore e alla sapienza narrativa di Turgenev. L’orrore pervade infine il breve e tremendo capolavoro Mumù (1854), storia di un povero servitore sordomuto costretto dalla padrona a sopprimere il cagnolino divenuto per lui ragione di vita, amore, felicità. E ogni volta, leggendo questi racconti, tornano alla memoria le parole che a Turgenev scrisse un suo vero amico e illuminato lettore, Gustave Flaubert: «Quanto più vi studio, tanto più il vostro talento mi sbalordisce. Ammiro quella vostra maniera al tempo stesso veemente e trattenuta, quella simpatia che scende fino agli esseri più infimi e dà un pensiero ai paesaggi». -
Il cavallante della «Providence»
«“Che diavolo ci faceva quella donna in un posto simile?”. «In una stalla, con gli orecchini di perle, il braccialetto firmato, le scarpe di camoscio bianco! «Doveva essere arrivata ancora viva, visto che il delitto era stato commesso dopo le dieci di sera. «Ma in che modo? E perché? E nessuno aveva sentito nulla! Lei non aveva gridato, e i cavallanti non si erano neppure svegliati... «Se non fosse stato per quella frusta che non si trovava, probabilmente sarebbero passati anche quindici giorni o un mese prima che qualcuno scoprisse il cadavere, per caso, nel rivoltare la paglia! «E altri cavallanti sarebbero venuti a russare accanto a quel corpo di donna!». -
Foglie e pietre
La maestria di Ernst Jünger ha raggiunto le punte più alte in quegli scritti dove lo stile diventa forma della contemplazione: lo dimostra in maniera imperiosa Foglie e pietre, del 1934, in cui Jünger raccolse una serie di brevi testi: taluni, come la mirabile Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, con natura di «foglia», altri, come Fuoco e movimento, più affini alla «pietra». Ma tutti «presentavano un carattere di durata al di là dell’occasione contingente». Parole venate di ironia, perché tali occasioni oscillavano fra il paradiso solitario di alcuni viaggi e l’inferno collettivo della Grande Guerra, colta nella sua scaturigine tecnica e selvaggia in uno scritto (La Mobilitazione Totale) che ha avuto un’immensa influenza sino a oggi. E tuttavia che l’oggetto sia il petalo di un fiore o un incendio cosmico non fa differenza: l’occhio che vi si posa è lo stesso – l’occhio di un naturalista che con equanime attenzione lascia affiorare le nervature segrete delle cose. Di fatto, Jünger stesso definì questi scritti «esercizi dello sguardo». -
Cristalli sognanti
Ci fu un'epoca d'oro, generalmente individuata nel periodo tra la fine della guerra e il 1960, in cui oscuri scrittori ignorati dalla società letteraria ma amati da intere tribù di lettori si rivelarono i cantori epici di nuovi mondi, pieni di orrori e meraviglie, che si andavano delineando nell'immaginazione – per fissarsi poi in un nuovo genere: la fantascienza. Fra questi primi maestri inevitabile è il nome di Theodore Sturgeon, e inevitabile è il suo capolavoro, «Cristalli sognanti», che apparve nel 1950. Incontriamo qui una fantascienza che non ha bisogno di avventure extra-galattiche: basta guardare nelle viscere della terra, dove i cristalli vivono da milioni di anni, e sognano – «sogni fatti di carne e di linfa, di legno, di ossa e di sangue» – finché qualcuno degli umani non riesce a comunicare con loro. Che cosa avverrà allora? -
Enrico di Ofterdingen
Filosofo della natura, rabdomante dei misteri della notte, Friedrich von Hardenberg, alias Novalis (1772-1801), apparve e scomparve come una folgore nel firmamento del romanticismo tedesco, lasciando dietro di sé un bagliore che seguitò a rischiarare l’immaginario poetico fino a oggi. Il fiore azzurro che per tutto l’Ottocento varrà come cifra della poesia sboccia nel suo romanzo Enrico di Ofterdingen (1802), storia di un’iniziazione alla parola poetica in cui il viaggio del protagonista attraverso una Germania dall’aura medioevale è allegoria di un cammino alla conquista della verità del sogno. La discesa fra i segreti del grembo della terra e del libro della natura, l’incontro con il bel volto di Mathilde e la sapienza di Klingsohr segnano le tappe di un progresso dell’anima, di un itinerario poetico dove soltanto la visione disserra gli arcani dell’essere. Alchimia di una prosa che fluisce liquida come le acque azzurre in cui sprofonda il sogno di Enrico e di uno stile perennemente in bilico fra l’incanto della fiaba e la lucidità della speculazione. Enrico di Ofterdingen rappresenta la suprema realizzazione di ciò che Novalis intendeva per poesia: «una follia secondo regola e con piena consapevolezza». -
Il viceré di Ouidah
Più di un secolo dopo la morte di un celebre negriero, Dom Francisco da Silva, i suoi numerosi discendenti si riuniscono a Ouidah, nel Dahomey, «per onorare la sua memoria con una messa di requiem e un pranzo». Le voci del passato si ritrovano a spargere «cibo, sangue, piume e Gordon’s gin sul letto, tomba e altare del Morto». Un romanzo di follia e crudeltà tropicale. -
La kundalini o l'energia del profondo
La kundalinī, che la fisiologia mistica indù rappresenta come un serpente che dorme inanellato nelle sue spire alla base della colonna vertebrale, è, nella sua dimensione macrocosmica, la stessa energia pulsante e luminosa con cui Śiva manifesta e sostiene l’universo. Compito dello yogin è «risvegliare» questo serpente abissale, questa potenza celata nel corpo sottile di ciascuno di noi, facendola risalire verticalmente attraverso vari cakra o «ruote» che costituiscono altrettante tappe di una ascensione culminante, alla sommità del capo, nel ricongiungimento con Śiva. In questo libro una grande indologa, Lilian Silburn, ha riunito i passi volutamente frammentari e oscuri sulla kundalinī dispersi in numerosi testi dello Śivaismo del Kaśhmīr (denominazione collettiva delle raffinate scuole del Tantrismo non-dualista fiorite alla fine del primo millennio in quell’estrema propaggine settentrionale dell’India), e li ha raccordati componendo un vasto mosaico in cui ogni tessera è elucidata sulla base non soltanto delle conoscenze acquisite in quarant’anni di studi, ma anche di preziose esperienze personali. Veniamo così introdotti alle varie forme della kundalinī e ai «canali» che essa può imboccare, alle iniziazioni in cui il maestro agisce direttamente sulla kundalinī del discepolo mettendola in risonanza con la propria e, per finire, al kulayāga, l’arduo rito in cui l’unione sessuale è celebrata come via della conoscenza. -
Pedigree
«Un medico, in base a una radiografia sospetta, mi annunciò che mi rimanevano al massimo due anni di vita e mi condannò a un’inattività quasi totale». Simenon non poteva però cessare di scrivere. Pensò a qualcosa di unico e di ultimo: raccontare la sua infanzia, in forma di lunga lettera al figlio. Poi quella lettera diventò Pedigree, il romanzo più personale e segreto di Simenon, ma anche quello dove ritroviamo la sostanza, in senso chimico, di tutti i suoi libri. -
Le leggende degli ebrei. Vol. 2: Da Abramo a Giacobbe.
Nel suo attraversamento della tradizione ebraica, la grandiosa opera di Louis Ginzberg ha come seconda tappa le vicende dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e delle loro mogli e tribù. Ancora una volta, in margine al testo biblico sempre così scarno ed essenziale, si dipanano innumerevoli leggende, storie, parabole, divagazioni, di cui il mondo ebraico si è nutrito per millenni. E qui si può dire che si entri nel terreno peculiarmente romanzesco della Bibbia: i patriarchi, e le numerose donne che costellano le loro vite, sono in certo modo gli archetipi stessi del personaggio dotato di una psicologia, come dire di quella figura che innerverà la storia del narrare fino a oggi. Non sono certo esseri insediati in una monotona virtù: al contrario, ci appaiono divisi, lacerati, contraddittori, impulsivi – e le loro storie si mescolano continuamente con quelle di re malvagi, fratelli prepotenti, mogli e concubine innamorate, angeli in cammino. Le variazioni su queste vicende sono un materiale ricchissimo, inesauribile. Se nel primo volume delle Leggende il lettore era al centro di un’affascinante e continua oscillazione fra terra e cielo, in questo secondo si troverà in un’atmosfera decisamente più mondana: qui lo scontro è tutto fra uomini e donne, e copre l’intera gamma dell’umano, dall’abietto al sublime. -
Una civiltà ferita: l'India
Il rapporto di Naipaul con la terra, l'India, da cui i suoi antenati partirono un secolo fa per Trinidad è sempre stato molto teso, aspro, oscuro: ""Per me l'India è un paese difficile. Le sono al tempo stesso troppo vicino e troppo lontano"""". Ma proprio questo sentimento di consanguineità e insieme di opposizione sembra avere acuito lo sguardo dello scrittore, conferendogli il dono di una percezione snebbiata di cui molto raramente gli occidentali sono capaci in India. E l'occhio, in questo libro, segue quasi ossessivamente le tracce e i sintomi di una sola realtà: l'antica, non rimarginata ferite che, anche dopo l'indipendenza, sembra condannare l'India a uno stato di cronica inadeguatezza."" -
Il circolo Pickwick
«Il romanzo più trascinante e felicemente irresponsabile di Dickens, abitato da ""caratteri comici"""" che """"trascendono per significato umano i limiti di una bizzarra eccentricità"""".» (Mario Praz)"" -
Storia universale dell'infamia
Simile a un enciclopedista cinese, Borges volle accostare una sequenza di destini tenebrosi come altrettanti «esercizi di prosa narrativa». Il tono è quello, impassibile, di chi intende «raccontare con lo stesso scrupolo le esistenze degli uomini, siano stati divini, mediocri o criminali», e ritrovarle tutte in una pura «superficie di immagini». Ma chi cercasse in questi ritratti dati certi e attendibili si ingannerebbe. Ispiratore occulto è qui Marcel Schwob, che nelle sue Vite immaginarie inventava le biografie di uomini «che erano realmente esistiti ma di cui non si sapeva pressoché nulla». Procedimento che in Borges si inverte: «leggevo la vita di un personaggio conosciuto e la deformavo e falsificavo deliberatamente secondo la mia fantasia». Comune a Schwob e a Borges rimane una certa scansione della frase, che «dà un’impressione di ironia per il naturale contrasto che si crea tra un fatto che ci sembra meraviglioso o abominevole e la brevità sdegnosa di un racconto». Con la sua usuale sprezzatura, Borges definì una volta queste storie «l’irresponsabile gioco di un timido». Di fatto erano il primo gioiello di una nuova specie di letteratura. -
La notte dei girondini
Uno degli aspetti più terrificanti nella macchina infernale dei campi di concentramento nazisti è stato senzaltro lutilizzazione e lo sfruttamento per fini distruttivi di un certo odio di sé ebraico, di cui già nellOttocento dà testimonianza tutta una serie di pubblicazioni antiebree ad opera di ebrei. Questo sentimento ambiguo e autodenigratore era vivo in particolare fra gli ebrei occidentali agiati, che più tenacemente volevano lassimilazione nei paesi dove vivevano. È un tema difficile, intricato e sconcertante e su di esso è centrato il breve, intensissimo romanzo che qui presentiamo, scritto dallo storico olandese Jacob Presser sulla base di esperienze anche dirette della persecuzione nazista in Olanda. Il giovane protagonista, ebreo di origine portoghese, professore di storia in una scuola di Amsterdam, è tormentato dallidea dellassimilazione, da una volontà cocciuta di nascondere il suo ebraismo, che gli fa sentire il fascino di laide corporazioni studentesche e perfino del movimento fascista. Siamo durante lultima guerra: lOlanda è sotto il dominio nazista e gli ebrei di Amsterdam scompaiono a poco a poco. I nazisti li rinchiudono nel campo di concentramento di Westerbork, da cui partono con inesorabile regolarità convogli per Auschwitz. E paradossalmente, proprio per salvarsi dalla persecuzione, il giovane professore decide di farsi internare anche lui a Westerbork, ma in una posizione di comando, che lo obbliga allorrendo compito di amministrare le vittime. Qui gli si farà luce su tutto: non solo sulla mostruosa impresa nazista, ma sulla cecità delle sue vittime, convinte di essere al sicuro, ciascuna su una lista segreta di privilegiati, che non dovranno mai partire per Auschwitz. Queste liste invece «saltano» a una a una: la tortura per mezzo della speranza è infatti il più beffardo e atroce trucco dei nazisti per mantenere lordine nei campi. Passando attraverso episodi che sanno illuminare lorrore con pochi e memorabili tratti, mentre si delinea la straordinaria figura del feroce Cohn, ebreo collaborazionista da cui dipende la vita di tutti nel campo, e a contrasto quella del giovane rabbi Geremia Hirsch, che aspetta lucidamente il destino leggendo la Scrittura, il racconto precipita verso la sua tragica fine: per il protagonista, infatti, penetrare dietro la cortina di fantasmi che hanno avvolto la sua vita e quella di tanti suoi parenti e amici vuol dire riconoscere la propria degradazione e con ciò condannarsi a morte. Non senza, però, aver compiuto un gesto di rivolta che capovolge i termini della sua breve vita di cieco e delicato intellettuale. La notte dei Girondini apparve per la prima volta nel 1975. -
La Sicilia, il suo cuore-Favole della dittatura
Scritte da Leonardo Sciascia con una finezza e una leggerezza di dettato sorprendenti in un’opera d’esordio, le giovanili Favole della dittatura (1950) sono anzitutto quello che sembrano: ovvero trasparentissime, appuntite allegorie che denunciano gli orrori della dittatura fascista, da pochi anni conclusa, e di tutte le dittature e le tirannie, con i loro archetipi comportamentali sinistri e grotteschi. Così, nell’uomo «chiuso e rigido dentro tanto splendore», il lettore scorgerà infallibilmente un Ciano o uno Starace: ma soprattutto non potrà non cogliere nella contrapposizione tra lupo e agnello, gatto e canarino, uomo e topo, padrone e asino (o cane) la divisione tra carnefici e vittime, dominanti e dominati; nei corvi (neri) gli integrati e gli organici e nei passeri e nei colombi i disorganici; e ancora in porci, faine, volpi, lumache e talpe altrettante allusioni ai tipi – e ai loro tic – di ogni regime. Come notò Pasolini, che fu tra i primi lettori di queste «favole», «l’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire». Lo stesso «sapore metafisico» ritroviamo anche nelle poesie pressoché coeve alle Favole, raccolte sotto il sintomatico titolo La Sicilia, il suo cuore (1952). In versi di straordinaria economia espressiva, dove l’autore già rivela la sua innata capacità di contemperare ricchezza di immagini e asciuttezza di scrittura, avvertiamo infatti l’arcana risonanza che si leva dalle descrizioni dei luoghi, come se qui la parola riuscisse a ridurre alla quintessenza l’anima della Sicilia, il suo cuore di ulivi, di mandorli, di roveti, dove risuona «cupo il passo degli zolfatari». -
All'insegna di Terranova
«“Potete sedervi...”. «“No, grazie!” disse la donna che, tra i due, era decisamente la più nervosa: “Sarà una cosa rapida...”. «Maigret poteva vederla in faccia, illuminata dalla luce violenta di una lampada. Non ebbe bisogno di osservarla a lungo per classificarla. Del resto, gli era bastata la foto, benché si vedesse solo il busto... «Una bella ragazza, nell’accezione popolare del termine. Una ragazza dalle forme appetitose, con denti sani, un sorriso allettante e lo sguardo sempre acceso. «Più esattamente una bella troietta, provocante, avida di piaceri, sempre pronta a dare scandalo o a scoppiare a ridere in modo sguaiato». -
L' identità
Vi sono situazioni in cui per un istante non riconosciamo chi ci sta accanto, in cui l'identità dell'altro si cancella, mentre, di riflesso, dubitiamo della nostra. Questo avviene anche all'interno di una coppia – anzi, soprattutto in una coppia, perché chi ama teme sopra ogni altra cosa di «perdere di vista» l'essere amato. Con la sua arte stupefacente della dilatazione e variazione dell'attimo significativo, Kundera ha fatto di questa situazione, con il vago senso di panico che ad essa si accompagna, il tessuto stesso del suo nuovo romanzo. Qui la brevità si congiunge all'intensità e un istante di smarrimento segna l'avvio di una vicenda labirintica nel corso della quale il lettore sarà costretto a varcare più volte la frontiera fra il reale e l'irreale – o fra ciò che accade nel mondo esterno e ciò che una mente elabora in solitudine. Soltanto Kundera, fra gli scrittori di oggi, poteva riuscire a trasformare una percezione così segreta e sconcertante in materia romanzesca e a farne uno dei suoi libri più alti, dolorosi e illuminanti. E infine, a sorpresa, un romanzo d'amore.