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Il canto del pendolo
I saggi di Brodskij sono stati definiti «un’autobiografia intellettuale nel senso più ampio»: talmente ampio che qui troveremo, in naturale e illuminante adiacenza, un discorso sul significato del versetto evangelico sul «porgere l’altra guancia» e un’analisi acuminata di due liriche di W.H. Auden e della Cvetaeva, che si azzarda a risalire «la genealogia di una parola, anzi di una consonante», e ci offre una dimostrazione in atto di che cosa potrebbe significare un’estetica «dal punto di vista dell’artista», secondo la formula di Nietzsche. Nell’un caso come nell’altro, giungeremo in fondo sapendo finalmente che cosa vuol dire «citare un versetto» – o commentare un verso. Ma al tempo stesso tutto questo apparirà come parte di un racconto, di una narrazione erratica e puntuale. «Poeta è qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero» scrive qui Brodskij. Così è accaduto che la prosa inglese sia stata proiettata in una rapinosa fuga di pensieri da questo poeta russo. E su temi disparati, ma tra loro congeniali, siano la tirannia o Dostoevskij, la Achmatova o Platonov, Montale o Kavafis. Ogni volta Brodskij ci aiuta a entrare e a uscire dalla letteratura e dal mondo con una mirabile velocità di passo mentale, lasciando dietro di sé le tracce disperse di un involontario autoritratto. -
Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi
«In una letterina in balbettante francese – siamo a Natale del 1811 – Giacomo, scrivendo “De la Maison”, annuncia al Padre quanto egli abbia profittato dell’insegnamento paterno, del suo esempio. A imitazione del padre, Giacomo ha scritto una tragedia che ha per protagonista un Monarca delle Indie: occidentali nel testo paterno, orientali nel testo di Giacomo; nella seconda tragedia del figlio è protagonista un Principe Reale, come accadeva nella corrispondente tragedia del padre; nella terza tragedia il tema sarà, in entrambi i casi, il Tradimento. Questa letterina natalizia, propiziatoria, prospettica, minatoria, così blesa e dolcemente onirica, mi sembra affascinante; ed anzi mi sembra che tutto quel che seguirà, la meticolosa, ardua contesa di una vita, riceva in quella letterina – è importante che si tratti appunto di una letterina – una dichiarazione di retorica, il programma di un evento scenico e cerimoniale: e s’è visto che i contrassegni sono il Monarca, il Principe Reale, il Tradimento: ce n’è per una vita. «Iniziato con quella lettera natalizia, il rapporto Giacomo-Monaldo assume immediatamente la sua qualità costante, qualcosa che lo distinguerà da tutti gli altri rapporti di cui abbiamo documento nell’epistolario leopardiano; la qualità è cerimoniale e teatrale, il linguaggio è eloquente, con toni medi, talora umile, con discrezione; il comico vi si potrà infiltrare per astuzia, per frode, per malizia, ma non vi trova luogo naturale; soprattutto importa notare che tutto ciò che vi si dice, dall’una e dall’altra parte, fa riferimento alle leggi di un copione, obbedisce ai cenni di un invisibile regista al quale entrambi hanno convenuto di far riferimento. Dunque, non si dica che mentono, che equivocano, che frodano; vorrei vedere che non mentissero: le battute sono nel copione, il regista è intollerante, la loro menzogna è la loro specifica veracità teatrale. Non era forse il Tradimento il gran tema di una Tragedia che includeva un Monarca e un Principe Reale? - Giorgio Manganelli -
La signorina Else
Nell’opera di Schnitzler, La signorina Else è un’aria mirabile, che continua a suonare nell’orecchio di chi l’ha sentita anche una sola volta. Fin dalle prime battute, e poi sempre più trascinati sino alla fine, avvertiamo il battito tumultuante del sangue e delle parole che circolano nella testa di Else, l’adolescente «altera», vivida e appassionata. Incombe su di lei, sulle sue nervose vacanze alpine, una catastrofe familiare. E la madre stessa, con il tono mellifluo e patetico che si conviene alla stregoneria familiare, la invita a vendersi per salvare la famiglia. Tutto il testo di Schnitzler è nella reazione di Else a questa richiesta, vissuta prima come premonizione, quando la lettera della madre non è ancora aperta, e poi come sfida, una sfida mortale. Mai forse un altro narratore moderno era riuscito a fondere il monologo interiore, la fantasticheria, l’azione e il dialogo (e perfino la musica, nella scena culminante) in una simile intimità, dove ogni elemento è il fremente rovescio dell’altro. Non meno di Molly Bloom, Else si offre a noi dall’interno nelle sue minime oscillazioni psichiche, che qui affiorano con quella velocità mentale che la prosa quasi mai riesce a catturare. Ma – e questo è il più azzardato, il più felice artificio di Schnitzler – al tempo stesso la contempliamo dall’esterno e la sua presenza si impone a noi come quella di un’antica eroina. -
Capri
Capri visitata e raccontata da Savinio? Sembrerebbe un desideratum, uno fra i tanti irrealizzabili. E invece ecco emergere dalle carte dello scrittore questo testo, che risale al 1926 e finora è rimasto inedito. Nella sua nuova funzione di guida turistica, Savinio ci infonde subito una irrefrenabile allegria e curiosità, appena puntiamo «occhi avidi sul fantasma di quell’isola che sorge, fumoso e lontano, dal cuore dell’infecondo mare». Seguiamolo – e senza quasi accorgercene ci troveremo a «penetrare di colpo nel carattere più folto, più misterioso, più leggendario» del luogo. Nonché nella commedia «truculenta, tra frivola ed estetizzante, di tutti gli ulissidi che, attratti dal non mai spento canto delle Sirene, convergono qui dai punti più remoti del globo». Questo è Capri: un luogo mitico, e insieme la scena di una «vita oziosa, flirtesca». Nessuno meglio di Savinio poteva disporre della giusta attrezzatura fantastica per illustrarcelo. -
Dall'esilio
La sorte ha voluto che Iosif Brodskij si sia trovato, a distanza di pochi giorni, nell’autunno del 1987, a scrivere i due discorsi qui raccolti, che vengono ad assumere nella sua opera un significato simbolico: il discorso su La condizione che chiamiamo esilio e quello per il Premio Nobel di letteratura. Entrambi discorsi dall’esilio, un odierno Ex Ponto. E qui l’esilio è una categoria metafisica, prima che politica. Ciò permette a Brodskij di schivare, sin dal primo passo, il più allettante rischio dell’esiliato, quello di porsi «sul lato banale della virtù». E al tempo stesso dona un’autorità ulteriore alla sua parola. Quando, dal podio di Stoccolma, si è udito che «l’estetica è la madre dell’etica» – e proprio da uno scrittore di impavida fermezza etica –, tutti hanno avvertito una scossa salutare. La letteratura non serve a salvare il mondo. Ma è il più formidabile «acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo». Da qui la sua capacità di guidarci, con mano invisibile, fra tutti i dilemmi più subdoli. «Il punto non è tanto che la virtù non costituisce una garanzia per la creazione di un capolavoro: è che il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista». -
Enciclopedia dei morti
L’Enciclopedia dei morti di cui si parla nel racconto che dà il titolo a questo libro è un’opera in migliaia di volumi dove sono ammesse soltanto le voci riguardanti persone che non compaiono in alcun’altra enciclopedia. Vale a dire la massa sterminata degli ignoti, che qui si ritrovano raccontati in un «incredibile amalgama di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica». rnrnrn«Un libro entusiasmante che mostra la grandezza tragica e fertile di cosa può fare, alla vita, l'invenzione della letteratura» - Orazio Labbate, la LetturarnOpera fantastica, ma che ha un sinistro corrispettivo nella realtà: vicino a Salt Lake City, in gallerie scavate dentro la roccia, sono conservate dai mormoni le schede di più di diciotto miliardi di persone. Questo rapporto trasversale, e quasi di esaltazione reciproca, tra il fantastico e la cronaca si ritrova anche in altri racconti di questo libro – e può riguardare, all’occasione, la storia dei funerali di una prostituta o quella dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende dello gnostico Simone o quella dei Sette Dormienti di Efeso, o le vicissitudini dell’infelice Kurt Gerstein, infiltrato fra gli sterminatori nazisti, come se Kiš fosse perennemente ispirato da «quel bisogno barocco dell’intelligenza che la spinge a colmare i vuoti» (Cortazar). Secondo le parole dell’autore, «tutti i racconti di questo libro nascono, in misura maggiore o minore, sotto il segno di un tema che chiamerei metafisico; a partire dall’epoca di Gilgamesh, la questione della morte è uno dei temi ossessivi della letteratura. Se la parola divano non richiedesse colori più luminosi e toni più sereni, questa raccolta potrebbe avere il sottotitolo di Divano occidentale-orientale, con un chiaro riferimento ironico e parodistico». -
La terra che sussurra
La vita di Gerald Durrell, come ben sanno i suoi numerosi e affezionati lettori, è un continuo alternarsi di viaggi alla ricerca di animali da catturare e di soggiorni nell’Isola di Jersey, dove con gli anni è riuscito a creare un celebre parco zoologico. In questo libro, apparso per la prima volta nel 1969 e diventato nel frattempo uno dei suoi più popolari, Durrell si trova alle prese con nuove e spesso comiche avventure, fra lui e gli animali, in luoghi remoti dell’America del Sud. Pipistrelli e pinguini, elefanti marini e armadilli, oltre a una notevole fauna umana, osservata con l’occhio ironico del viaggiatore, saranno qui i protagonisti. E fra questi non bisognerà dimenticare una famiglia di volpi che danza graziosamente con un rotolo di carta igienica, nonché il tapiro Claudius che succhia rumorosamente una possente catena e poi, trascinandosela dietro come fosse un fantasma, irrompe fra gli invitati a una cena della buona società di Buenos Aires, come un sereno devastatore. -
A ciascuno il suo
Pubblicato nel 1966, e oggi tradotto in tutto il mondo, questo romanzo delloscura, crudele Sicilia è universalmente considerato una delle maggiori imprese narrative di Sciascia. Sobrio, amaro, sottilmente sarcastico, e insieme netto e preciso nei contorni, racconta la storia di un farmacista che «viveva tranquillo, non aveva mai avuto questioni, non faceva politica», e un giorno riceve una lettera anonima che lo minaccia di morte. Da questo punto in avanti tutta la realtà comincia a traballare, e il sospetto, linsinuazione e il sangue dominano la realtà del paese, nellentroterra siciliano. Tutta larte di Sciascia sta nellaggrovigliare e dipanare, volta a volta, questa matassa. Nulla sfugge al groviglio, e alla fine vi rimarrà soffocata proprio la figura dellinvestigatore disinteressato, dellosservatore lucido, il quale, quanto più indagava, tanto più «nellequivoco, nellambiguità, moralmente e sensualmente si sentiva coinvolto». -
La natura ama nascondersi
Vi è un’impressionante costanza, dal primo all’ultimo passo, nel pensiero di Colli. In La natura ama nascondersi, che è del 1948, vediamo tracciarsi con precisione i confini del terreno, filosofico e filologico, che Colli solcherà poi sino a La sapienza greca. Il presupposto si manifesta subito, con bruschezza: «ben poco di vitale è stato compreso sinora della Grecia, all’infuori di quanto hanno detto Nietzsche e Burckhardt». E, in particolare, per quanto riguarda la forma suprema della grecità, che è il pensiero, occorre innanzitutto sbarazzarsi «di quasi tutta la critica moderna, che interpreta i Presocratici secondo quanto crede di capire da Aristotele». Così la prima parte di questo libro è dedicata a una minuziosa disamina di quanto ci è giunto, attraverso Aristotele e Teofrasto, sui primi sapienti della Grecia. Nella visione di Colli, la filologia e la storia hanno un fine unico e comune: «la riduzione dei dati storici in espressioni dove l’interiorità primitiva traspare evidente». Attraverso un’indagine armata di tutte le sottigliezze analitiche si deve giungere a far risuonare «l’affinità interiore suscitata da un’espressione lontana». Il fine rimane quello «di cogliere i Presocratici attraverso le loro stesse parole». Nella parte centrale di questo libro, dedicata a Parmenide, Eraclito ed Empedocle, come nella parte centrale di tutta l’opera di Colli, questo tentativo si è manifestato in forma memorabile, sostenuto da una forza illuminante e tenace. -
Viaggio in Armenia
Per Mandel’štam, il viaggio in Armenia, che durò per qualche mese del 1930, fu una discesa «negli stadi abissali del linguaggio»; là dove «vedere, udire, capire – tutti questi significati, un tempo, confluivano in un unico fascio semantico». Così, in queste pagine, che si presentano con la sprezzatura di una stenografia diaristica, assistiamo al prodigio della continua geminazione delle immagini, a un ultimo convito dell’analogia, prima che il «nero velluto della notte sovietica» inghiotta il poeta. L’Armenia, «regno di pietre urlanti», divenne per lui il luogo di una primordiale fusione geologica fra il mondo cristiano-giudaico e quello ellenico, come dire fra le due lingue della sua poesia. -
Poichè ero carne
Edward Dahlberg è stato un irriducibile eccentrico della letteratura. Fin dalla sua giovinezza in America, passata fra avventure di vagabondo e il meglio della letteratura di quegli anni (D.H. Lawrence fu il suo padrino letterario), aveva qualcosa di ispido e brado rispetto ai suoi amici e nemici. Poi, col tempo, apparve il suo segreto: Dahlberg è lunico americano del secolo che abbia immerso nella sua prosa lincanto dei grandi classici, greci e latini, riscoperti come da un barbaro. Il risultato è sorprendente: così la Kansas City dove, in questo libro, che è il suo più bello, la madre dellautore tira avanti una vita difficile facendo la barbiera e la callista, questa «città selvaggia, concupiscente, dove quasi nessuno pensa alla morte finché non è vecchio o malato», raggiunge nelle sue parole la dimensione di un epos miserabile e solenne: «Cataloghi pure Harma il bardo di Smirne, le scogliere e anfratti di Itaca, le vergini nutrite di latte dellAcaia, Tisbe coi suoi stormi di colombi o i boschi di Onchesto; io canto le strade intitolate alle Querce, ai Noci, ai Castani, agli Aceri e agli Olmi. Ftia era un silos di frumento, Kansas City una florida fattoria di grano. Forse le puttane dei quartieri bassi di Corinto, Efeso o Tarso sapevano congegnare un gemito o sospirare più svelto di quanto potessero farlo le cosce con fossette delle ragazze di St. Joseph o Topeka?». Centrale, in questo libro, è il personaggio della madre, «figura umile e favolosa, picaresca e antica, toccante e insopportabile, che non ha rivali nella letteratura americana di questi anni» (Paolo Milano). Intorno a lei ronzano come mosche le disavventure, gli amanti malandrini, i pochi denari e i molti desideri. Ma una prorompente, carnale vitalità la trascina, «di qua e di là al capriccio del vento» e si trasmette infine alla prosa del figlio, che di lei ci ha lasciato un ritratto «implacabile, dettagliato, amorevole, come un tardo Rembrandt» (Herbert Read). Poiché ero carne è apparso nel 1964. -
La morte della Pizia
«Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro». Con queste parole spigolose e beffarde ha inizio La morte della Pizia e subito il racconto investe alcuni dei più augusti miti greci, senza risparmiarsi irriverenze e furia grottesca. Ma Dürrenmatt è troppo buono scrittore per appagarsi di una irrisione del mito. Procedendo nella narrazione, vedremo le storie di Delfi addensarsi in un «nodo immane di accadimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio». L’insolenza di Dürrenmatt non mira a cancellare, ma a esaltare la presenza del vero sovrano di Delfi: l’enigma. -
Quaderni. Vol. 3: Sistema-Psicologia-Soma e CEM-Sensibilità-Memorie,.
In questo terzo volume dei Quaderni di Paul Valéry si troveranno alcune sezioni (e innanzitutto la prima: Sistema) che illuminano il meccanismo stesso dell’enorme impresa di Valéry. La parola Sistema non va intesa, per Valéry, nel senso che essa ha in filosofia, ma piuttosto come procedimento mentale, identificazione degli invarianti e delle variabili su cui far giocare le operazioni della coscienza: «Questo “sistema” che chiamo … talvolta l’Assoluto, o Riduzione all’assoluto, consiste semplicemente, in linea di principio, in una specie di proiezione di tutto, o di checchessia – sul piano del momento –, che consenta una riduzione di questo oggetto a dei caratteri, qualità, potenze ecc. che siano sensibilmente miei e che lo siano molto distintamente». Siamo qui vicino al cuore dell’impresa di Valéry – e da qui si proietta la luce che investe le altre sezioni: Psicologia, Soma, Sensibilità, Memoria. Ora potremo renderci conto di come il procedimento di Valéry sia del tutto autosufficiente, tanto da permettergli la costruzione di una intera psicologia che non deve sostanzialmente nulla alle grandi scuole contemporanee (inclusa la psicoanalisi). -
Lettere alla fidanzata
«Risposi a un annuncio del “Diário de Notícias”. Avevo diciannove anni, ero allegra, sveglia, indipendente e, contro la volontà dei miei familiari, decisi di trovare un impiego». Così Ophélia Queiroz si trovò a lavorare nello stesso ufficio di Fernando Pessoa. «Tutto cominciò con sguardi, bigliettini, messaggi che mi lasciava di soppiatto sulla scrivania». Ed era già il namoro, come si chiama in portoghese quel vago periodo che precede il fidanzamento ufficiale. Queste lettere testimonieranno la profonda, irriducibile irrealtà in cui Pessoa sapeva lasciar precipitare ogni evento della sua vita personale, come se già questa locuzione fosse per lui un’incongruità. E tale era. Tanto più preziose, tanto più insostituibili queste sue lettere alla fidanzata, che accettano subito di partecipare, «proprio come i veri grandi amori, del ridicolo e del sublime» (Tabucchi). -
Il giovane Moncada
Il giovane Moncada (1954) ha nell’opera di Lernet-Holenia un ruolo analogo a quello del Felix Krull nell’opera di Thomas Mann: il puro gioco, il picaresco, il divertimento sono qui dominanti. Il tempo è uno spiritato prestissimo viennese, increspato di dialoghi spesso esilaranti, dove sentiamo la presenza tutelare di Nestroy e Hofmannsthal. Quanto alla storia, è una delle trame più perfette di Lernet-Holenia, sorprendente fino alle ultime righe. Qui si raccontano le avventure di un delizioso mistificatore travolto dalla propria inventiva. Il giovane Moncada è un don Giovanni che mette in piedi una macchinazione perversa di soldi, false identità e amore. Il meccanismo finisce per funzionare troppo bene e trascinarlo nei suoi ingranaggi. Ma tutto questo si tramuterà ancora una volta in un lieto fine tra i meglio architettati e trascinanti che conosciamo. -
Il dialogo della salute e altri dialoghi
Il dialogo della salute, scritto nella tradizione di Platone e di Leopardi, è il testo dove Michelstaedter ci ha trasmesso nella forma più limpida la sua visione della vita e della morte. In parallelo e in contrappunto alla Persuasione e la rettorica, ricompaiono qui molti dei suoi grandi temi, e in una forma che sa mantenere, da un capo all’altro, la leggerezza della conversazione e l’icasticità delle formule: «La vita ci toglie: questo che tu dici crudele gioco, questo è la cara la dolce vita. Mancar di tutto sì e tutto desiderare – questa è la vita. Che se non ci volgessimo al futuro ma avessimo tutto nel presente – appunto non vivremmo più. La vita sotto qualunque forma come anche sia, a prezzo di qualunque dolore si vive volentieri». A questo testo, che è del 1910, anno della morte di Michelstaedter, ed essenziale nella geografia della sua opera, si affiancano alcuni altri dialoghi meno conosciuti, come il Dialogo tra Diogene e Napoleone o il Dialogo tra il borghese e il saggio, che sono altrettante schegge preziose del suo pensiero. -
Esercizi di ammirazione
Cioran ha sempre amato i grandi ritrattisti francesi, da Saint-Simon a Tocqueville. E in questo libro ha mostrato come continuare, per vie impreviste e oblique, la loro arte. Qui troveremo ritratti di Beckett e di Borges, di Michaux e di Fitzgerald che subito toccano l’essenziale e ci restituiscono un’immagine di questi scrittori che non riusciremo mai a cancellare. L’ammirazione va talvolta insieme a una lunga schermaglia con l’autore di cui Cioran parla, visibile soprattutto nei saggi su Joseph de Maistre e Paul Valéry. Testi estremi l’uno e l’altro: il primo perché dedicato al «più appassionato e più intollerante fra i pensatori», il secondo perché mosso da una «esasperazione impura» che accende tutti i possibili contrasti. Fuori da questo eccesso di nettezza, anzi dall’interno di una ominosa penombra, ci viene incontro invece il ritratto di una donna incontrata soltanto due volte, vera «creatura della luce lunare». E ovunque avvertiremo, nella vibrazione di questa prosa, la «superba vertigine» dello scrittore. -
Il paese dell'anima. Lettere (1909-1925)
«Abbiate paura delle mie lettere, e cioè bruciatele o custoditele con cura... Io sono più passionale di Voi nella mia vita epistolare: persona di sentimenti, nell’assenza mi trasformo in creatura di passioni, giacché la mia anima è passionale, e l’Assenza è il paese dell’Anima». Queste parole scrisse Marina Cvetaeva una volta a Aleksandr Bachrach – e nulla meglio di esse può valere da epigrafe a quell’indelimitabile onda di parole che furono, per la Cvetaeva, le sue lettere: dominate da una natura «sediziosa, esigente, altera», formano quasi un’opera a sé, parallela alla vita e alla poesia, una stenografia di passioni, così contagiosa da incutere un sacro timore. Attraverso tutto questo, che spesso fu sofferenza non medicabile, un solo impulso costante: «ubbidivo, cercavo faticosamente con l’udito il compito sonoro già assegnatomi». Disperse, nascoste, orribilmente censurate per anni, queste lettere vengono ora presentate in una edizione che comprenderà due volumi e sopravanzerà di molto tutte quelle esistenti fino a oggi al mondo. Basti dire che un quarto circa dei testi che qui appaiono è del tutto inedito, mentre una larga parte delle lettere sfigurate dalla censura sono qui riproposte nella loro integrità. Un vasto commento e l’introduzione della curatrice, Serena Vitale, saranno preziosi per tutti coloro che vogliono inoltrarsi nella terra ignota della vita della Cvetaeva: un vero «paese dell’Anima», straziato dal mondo e inaccessibile al mondo, un paese che si schiude quando si giunge all’estremo, anche se, come scrisse Brodskij della Cvetaeva, «è impossibile definirla un poeta degli estremi, non foss’altro perché l’estremo (deduttivo, emotivo, o linguistico) è soltanto il luogo in cui per lei comincia una poesia». -
Van Gogh. Il suicidato della società
«Come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo albero interno», la società suicidò van Gogh. Non fu dunque il pittore a soccombere a un suo delirio, ma un delirio ben più vasto e maligno, l’affatturamento capillare che è la prima opera della società stessa, a farlo soccombere. Non si creda, però, che qui Artaud anticipi le innumerevoli accuse alla società cattiva e oppressiva che hanno ammorbato i nostri anni. Artaud, come sempre, è ben più radicale. Non gli basta il predominio di una classe sull’altra, o la malvagità del denaro, per inchiodare la società. Ma è la magia nera della società stessa, l’universale fattura che essa fa agire su tutti a essere chiamata qui da Artaud con il suo nome. È questa la prima e insuperata forma di «crimine organizzato» che ci governa. Van Gogh, e come lui Gérard de Nerval, o Artaud stesso, stavano per sottrarsi alle maglie di quella fattura, ma ne furono alla fine catturati di nuovo, come vittime preziose, di cui spartirsi le spoglie. Un anno prima di morire, nel 1947, Artaud affrontò van Gogh, raccontando la sua «funebre e rivoltante storia di garrottato da uno spirito malvagio», e illuminando con la luce barbagliante delle sue frasi spezzate ciò che significa la maledizione dell’artista, il nemico occulto del suo opus: «In fondo ai suoi occhi come depilati, da beccaio, van Gogh si abbandonava senza tregua a una di quelle operazioni di oscura alchimia che hanno preso la natura per oggetto e il corpo umano per marmitta o crogiolo». -
La poesia di Hölderlin
Questi scritti su Hölderlin, da molti considerati uno dei vertici dell’opera di Heidegger, nascono da «una necessità del pensiero». Non si tratta, per Heidegger, di dare «un contributo alla ricerca storico-letteraria o all’estetica», ma di testimoniare ciò che qui viene definito «colloquio pensante». Attraverso Hölderlin si pone la questione della essenza della poesia e di come il pensiero stesso, nel suo gesto ultimo, si apra appunto su quell’essenza. L’intera opera di Hölderlin conduce verso quel misterioso passaggio. E in questo senso si può dire che «la poesia di Hölderlin è per noi un destino». Qualcosa si dice, in quella parola, che in nessun altro luogo è apparso con tale evidenza, spoglia e definitiva: «Che cosa dice la poesia di Hölderlin? La sua parola è: il sacro. Questa parola dice della fuga degli dèi. Dice che gli dèi fuggiti ci risparmiano. Fino a quando siamo convinti, e capaci di abitare nella loro vicinanza».