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Anatol
Anatol, la voce che parla in questo libro, è una mente che si racconta. Non accumula episodi. Disegna i tratti sghembi di un personaggio che ormai «un numero incredibilmente piccolo di individui» conosce: il filosofo. Come apparirà? «Pacifico, con l’aria di un conciapelli in vacanza ... eppure i segreti del mondo passano per le sue mani». Subito l’aria trema di un sarcasmo violento. Questo filosofo è quanto di meno conciliante possiamo immaginare. Con lui torniamo a sentire «quel che di cupo e fatale c’è in fondo a ogni idea». Quale funzione si attribuisce? Riscrivere Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, «senza cambiarne una riga», con un solo corollario: che il mondo è rappresentazione di una rappresentazione. «Riteneva che era più esaltante ridire che inventare». Però, se vogliamo sentire qualcosa che ci fa sussultare per la sua novità, a proposito di parole abusate o impossibili come tecnica o bello o bene, apriamo le pagine di questo libro... E ricordiamo: «La filosofia genera mostri e non toilettes de circonstance». -
Reazioni alla Rivoluzione francese
Richard Cobb appartiene alla specie rara e preziosa degli storici-scrittori, come Michelet o Burckhardt. Così è stato definito una volta «il Goya del nostro mestiere». Impaziente e beffardo verso ogni gabbia ideologica, instancabile scavatore di archivi, Cobb ha mirato in tutta la sua opera e mai così chiaramente come in questo libro a scrivere una storia pullulante di storie, una storia che mostri come i Grandi Eventi irrompano nella vita dei singoli o da questi vengano elusi o respinti. Il suo orecchio pretende ancora di percepire le discordanti pulsazioni dei calendari privati sotto lopprimente «grande ala della storia». Unendo sarcasmo e senso pratico, Cobb spiega già nelle prime righe di questo libro perché si è sentito attratto dalle vicende del Controterrore: «Gli storici dellindividualità, oltre che quelli della bizzarria e delleccentricità estrema, si troveranno molto meglio a trattare il Controterrore che non il Terrore burocratico dellestate 1794. Qui almeno non cè un grigio concetto di unanimità, non cè un modello fisso, non cè laspirazione a unindivisibilità destinata a sommergere tutti i traits personali nellaffettazione irreggimentata della Repubblica delle Virtù o nel totalitarismo militare dellodiosa Sparta di cartapesta auspicata da Saint-Just. Si potrebbe dire che ci furono tanti controterrori quanti controterroristi, e per motivi quasi altrettanto numerosi: motivi personali, regionali, viscerali, rispettabili, criminali o tribali». In filigrana, fra queste righe, il lettore di Cobb ricorderà allora altre righe, memorabili, dove questo selvatico nemico del metodo ha raccontato una volta come nacque la sua vocazione di storico. Questa si formò, secondo Cobb, quando da bambino accompagnava un suo zio medico che per mestiere era tenuto a metter piede in tante case, quindi in tanti mondi paralleli: «Per tutta la mia vita ho sentito una spinta quasi ossessiva a mettere il mio piede nella porta, ad andar dietro la facciata, a entrar dentro. Dopo tutto, il fatto di essere, o diventare, uno storico ruota soprattutto intorno a questo a questo desiderio di leggere le lettere degli altri, di irrompere nella loro vita privata, di penetrare nella stanza segreta». Come si vede, più che la fiacca definizione di «storico delle mentalità» a Cobb si potrebbe applicare quella, da lui stesso usata, di «storico dellindividualità». Dopo linsana proliferazione di chiacchiere e trinciamenti di giudizi sulla Rivoluzione francese in occasione del bicentenario, tanto più salutare apparirà tuffarsi nelle pagine di questo libro per capire come respirarono, come approfittarono, come patirono tanti testimoni e attori di quegli anni fatali. Come ha scritto Robert Darnton a proposito di tutta lopera di Cobb: «Insistendo continuamente sulla complessità del passato, la sua opera spicca come un monito contro i tentativi di piegare la storia per adattarla entro strutture sociali prefabbricate». Reazioni alla Rivoluzione francese è stato pubblicato, per la prima volta, nel 1972. -
Quaderni. Vol. 4: Tempo-Sogno-Coscienza-Attenzione-L'Io e la personalità.
Per decenni, Valéry elaborò una teoria del sogno inconciliabile con quella di Freud e priva di precedenti in altri teorici. Questa teoria si connetteva alla questione ricorrente in tutti i Quaderni: che cosa significa essere coscienti? Prima ancora che un racconto di eventi, a cui tende a ricondurlo la psicoanalisi, il sogno è un regime della coscienza, il luogo dove si applicano regole peculiari della mente. Ma quali sono queste regole? L’indagine di Valéry, soprattutto nelle sezioni Sogno e Coscienza, incluse in questo volume, si avvicina al «centro dell’anello» (come egli definiva un’altra figura essenziale di cui qui si tratta: l’«Io puro»). -
Breviario di estetica-Aesthetica in nuce
Il Breviario di estetica, per una singolare sorte, veniva dato da leggere, per alcuni decenni, alla gran parte degli studenti di liceo. Così molti dei lettori di oggi sono stati costretti da questo libro a rendersi chiare, per la prima volta, le idee su qualcosa che è l’ospite prezioso e difficile da riconoscere di ogni letteratura: la poesia. Che cosa sia poesia e che cosa non lo sia è stato detto in modo impareggiabilmente lucido e nuovo in queste pagine, fra le più perfette di tutto Croce. Per chi le ha lette, rimangono nella mente come un possesso per sempre. E naturalmente potranno e dovranno essere messe in discussione, su ogni punto. Ma il fatto di conoscerle dà un grande vantaggio – e tanto più grande oggi che questo testo non è più una lettura obbligata, ma qualcosa che si sceglie e si scopre. -
Encomio del tiranno. Scritto all'unico scopo di fare dei soldi
Più volte, nell’opera di Manganelli, era affiorata la figura del Buffone, come del personaggio che è il luogo naturale della letteratura e di ogni invenzione di storie. Ma solo in questo libro il Buffone si presenta direttamente sulla scena e parla da capo a fondo, in un romanzo che contiene in sé tanti romanzi (fra cui un irresistibile romanzo di spionaggio), come se la voce narrante, che pretende di essere quella di uno «sciantoso delle lettere», fosse anche quella di un mercante che esibisce stoffe sontuose per incantare (o beffare?) il suo cliente. E il cliente del Buffone non può essere che uno, sua eterna controparte: il Tiranno, del quale il lettore – ogni lettore – non è che una delle molte controfigure. -
Casi
Fra i grandi russi del Novecento, Daniil Charms è forse sinora il meno conosciuto. Un po per il carattere frammentario di questi testi, un po per le infelicissime sorti editoriali che essi hanno subìto, solo in questi ultimi anni ci si è potuti rendere pienamente conto della loro rilevanza e unicità. Dotato di un debordante talento comico, unito a un perverso rigore metafisico, Charms è maestro nel vanificare qualsiasi realtà gli accada di nominare. Racconti di pochi istanti, trame incongrue e persecutorie, irrisioni sistematiche: questo è il terreno della sua prosa. Verrebbe da pensare al dada, come alla «poetica dellestremismo» più affine a Charms. Ma la sua singolarità è tale da non tollerare inquadramenti. Charms rimane soprattutto come uno stupefacente narratore di «casi», tanto gratuiti quanto ineluttabili. Rispetto alla gelida purezza dei suoi esperimenti di parodia sistematica di tutto, le versioni occidentali dellassurdo da Camus a Ionesco appaiono timide. Charms stesso accennò una volta alla peculiarità del suo modo di essere con parole quanto mai semplici, dirette e precise: «A me interessano solo le sciocchezze, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo. Eroismo, pathos, ardimento, moralità, commozione e azzardo sono parole e sentimenti che mi sono odiosi. Ma comprendo perfettamente e ammiro: entusiasmo ed esaltazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, gioia e riso». Questa raccolta di testi di Charms è la prima che esce in Italia e la più completa sinora in un paese occidentale. -
I tempi di Anika
«In ogni donna c’è un diavolo che bisogna ammazzare o con il lavoro o con i parti o con tutte e due le cose» insegna un vecchio detto serbo. Ma Anika è un diavolo potentissimo che non si lascia domare e porta la rovina intorno a sé esercitando una sorta di magia erotica. Questo racconto, dove Andric ha dispiegato tutta la sua potenza di narratore, è la cronaca degli eventi tenebrosi che si svolsero ai «tempi di Anika». «Da quando era stata fondata quella città, da quando la gente nasceva e si sposava, non c’era mai stato un corpo simile, mai una simile andatura e un simile sguardo. Tutto ciò non era nato e non s’era sviluppato in rapporto con quanto lo circondava. Era capitato lì da chissà dove». Questo pensò Alibeg, governatore di uno sperduto paese della Serbia dove si era insediata la magia di Anika, colei che meditava «male e sventura come altri pensano alla casa, ai figli e al pane». Assistita da due cortigiane, nella sua casa discosta dal paese, Anika riceveva gli uomini, tutti gli uomini, e li incantava. Quel suo corpo mirabile era diventato un magnete che attirava a sé i sogni, gli odi e i desideri di un intero paese. -
Memorie di una maîtresse americana
«Libro di storia e di poesia, candido e sfrontato manuale di etica, stupenda galleria di ritratti, le Memorie di Nell ci fanno avvertire come le settecentesche avventure della Moll Flanders e Lady Roxana di De Foe appartengano a una letteratura romanzesca da museo... La voce intensa e insolente di Nell, dal timbro un po’ roco, velato di dolcezza e brutalità, viene dal ventre dell’America, da una specie di estasi antipuritana che ai tempi narrati nel libro, e anche molto dopo, nessuno poteva manifestare se non in privato». - Alfredo Giuliani -
Lacrime e santi
Esordiente a ventitré anni con Al culmine della disperazione, Cioran pubblicò Lacrime e santi nel 1937, l’anno in cui arrivò a Parigi. Nella sua opera, questo primo periodo rumeno è una sorta di Sturm und Drang. Vi si trovano già molti dei suoi temi principali, ma come immersi in un’atmosfera temporalesca, accesi da una furia che si volge contro tutto. E al tempo stesso si avverte già una frequentazione appassionata dei mistici. Sono loro – ben più dei filosofi – ad accompagnare «il destarsi delle lacrime che dormono nel più profondo di noi», perché solo da quella via ci si può avviare a una conoscenza non illusoria, se è vero – come qui si dice – che «al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime». -
La scheggia. Racconto su lei e ancora su lei
Questo lungo racconto è una «scheggia» sanguinosa del terrore rosso in Siberia, ai tempi di Lenin. Scritto nel 1923, è apparso in Russia solo nel 1989, sulla stessa rivista («Luci della Siberia») che più di sessant’anni fa lo aveva rifiutato. E si capisce perché: con impressionante vigore narrativo Zazubrin «accumula una quantità di orrori assolutamente inconcepibile su una così piccola tela», come riconobbe subito Pravduchin nella sua prefazione-fantasma a La scheggia, che rimase anch’essa inedita. Ma il punto decisivo è che l’orrore viene qui raccontato dalla parte di chi lo commette, un cekista che da taglialegna teme di poter diventare egli stesso una delle schegge che inevitabilmente «saltano quando si abbatte il bosco», come dice un sinistro proverbio russo. La narrazione è una sequenza di atrocità in nome di «Lei» («Lei» è la rivoluzione), che poi si trasforma in una ridda di incubi, deliri, ebbre riflessioni nella mente del protagonista, ormai incapace di sostenere il suo ruolo di carnefice. La potenza del racconto, che ricorda Babel’, e l’unicità della testimonianza fanno di questo breve libro una delle più memorabili scoperte fra i molti testi disseppelliti in questi anni in Russia. -
Trattato del ribelle
Nei primi anni del dopoguerra, mentre si andava delineando quella integrazione planetaria nel nome della tecnica che oggi è sotto gli occhi di tutti, Ernst Jünger elaborò questo testo, apparso nel 1951, oggi più affilato che mai. La figura del Ribelle jüngeriano corrisponde a quella dell’anarca, del singolo braccato da un ordine che esige innanzitutto un controllo capillare e al quale egli sfugge scegliendo di «passare al bosco» – dissociandosi, una volta per sempre, dalla società. Il Ribelle jüngeriano sente di non appartenere più a niente e «varca con le proprie forze il meridiano zero». Tutta l’eredità del nichilismo, del radicalismo romantico e della furia anti-moderna si concentra in questa figura, qui osservata come facendo ruotare un cristallo. Letto oggi, questo testo appare di una impressionante preveggenza, quasi un guanto di sfida gettato in nome di una libertà preziosa: «la libertà di dire no». -
Clessidra
Clessidra è il più sconcertante, il più audace e il più complesso fra i romanzi di Danilo Kiš. Quella realtà che in Giardino, cenere appariva ancora velata nei colori favolosi dell’infanzia qui si stravolge in una sorta di tranquillo delirio, divagante e lacerante. Lo stesso personaggio (il padre del narratore) che in Giardino, cenere si dedicava alla patetica e incongrua impresa di preparare un orario ferroviario universale qui appare subito su uno sfondo nero e desolato, quello della persecuzione degli ebrei – e di tanti altri massacri, semisommersi nell’oblio e coperti dalla neve della colpa (la neve compare più volte in queste pagine, con la stessa connotazione sinistra) – negli anni della seconda guerra mondiale. Tutto procede come in un verbale di polizia, che lascia emergere la verità scheggia per scheggia, finché tutte le schegge si ricompongono in una immagine unica, che però ha acquisito la profondità del tempo e delle sue ferite. Rare volte, in questi ultimi decenni, la letteratura ha trovato un timbro così penetrante e così puro. «Forse resteranno – se anche tutto ciò dovesse essere sommerso in un diluvio universale –, sì, resteranno la mia follia e il mio sogno, come un’aurora boreale e un’eco lontana. Forse, qualcuno scorgerà il chiarore di questa aurora, forse sentirà questa eco lontana, ombra del suono di un tempo, e comprenderà il senso di quel chiarore, di quello scintillio». -
Il giunco mormorante
Due amanti si separano a Parigi, all’inizio dell’ultima guerra. Anni dopo si ritrovano a Stoccolma. La loro storia è cominciata in quella «terra di nessuno, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero». Poi quella vita segreta era stata a poco a poco messa in ombra dalla «seconda vita», la vita comune. E viene il momento di chiedersi: che cosa sussiste di quella storia? Giocando magistralmente sulla tastiera dei sentimenti, la Berberova ha scritto un amaro, sottile apologo sull’amore e la libertà – e soprattutto su quella parte della nostra vita «di cui nessuno sa nulla» e sul come difenderla. -
Che ci faccio qui?
In questo libro Bruce Chatwin raccolse, negli ultimi mesi prima della morte, quei pezzi dispersi della sua opera che avevano segnato altrettante tappe di una sola avventura, di tutta una vita intensa come «un viaggio da fare a piedi». Qui lo vedremo spuntare nei luoghi più disparati e fra le persone più opposte: al seguito di Indira Gandhi mentre annota un diario esilarante o in visita da Ernst Jünger, alla ricerca dello yeti o in quartieri malfamati di Marsiglia, o in Africa mentre si scatena un colpo di Stato, a cena con Diana Vreeland o con Werner Herzog nel Ghana o con un geomante cinese a Hong Kong. I numerosi lettori di Chatwin sanno che egli fu, prima ancora che un romanziere e un saggista, qualcuno che è sempre in viaggio e osserva ogni esperienza con lo sguardo penetrante di chi, a partire da qualsiasi cosa, vuole andare il più lontano possibile. Con lui riscopriamo che il tono di fondo del narratore in genere è quello del viaggiatore che si ferma a ricordare ciò che ha visto. Il timbro, lasciuttezza, licasticità della prosa di Chatwin sono stati uno dei grandi e preziosi doni letterari degli ultimi decenni. E proprio alla fine di queste pagine Chatwin ci svela, con un guizzo finale di mirabile teatralità, che dietro larte della sua prosa ha sempre operato un consiglio che una volta gli diede Noel Coward, «il Maestro»: «Non si lasci mai intralciare da preoccupazioni artistiche». Che ci faccio qui? è apparso per la prima volta nel 1989. -
Occhio di capra
«Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande» scriveva Sciascia a proposito di questo libro. Pubblicato nel 1984 e qui riproposto con l’aggiunta di altre voci, che Sciascia aveva accumulato negli ultimi anni, Occhio di capra è forse la più agile e acuta introduzione alla civiltà siciliana che possiamo leggere. Il fondo è il più ricco e misterioso: la lingua. E Sciascia la indaga amorosamente, riconoscendo nei più bizzarri modi di dire la concrezione di interi racconti, di oscure intuizioni metafisiche, di temi favolistici. Così è nato questo libro, che Sciascia intendeva anche come omaggio, derivante quasi da un eccesso di conoscenza («Ho detto che mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi»), a Racalmuto, a quell’«isola nell’isola» dove «si ama più tacere che parlare» e perciò «quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti». -
Brainstorms. Saggi filosofici sulla mente e la psicologia
Credo che quest’opera di filosofia della mente sia di grandissima importanza» ha scritto Hilary Putnam a proposito di Brainstorms. E Noam Chomsky: «Con tocco sicuro e una grande capacità di comprensione Dennett ha sottoposto ad analisi questioni che si pongono sulla frontiera dello studio scientifico della mente e del cervello – o forse già un po’ al di là di essa». Da parti ben distinte, dunque, questo libro è stato accolto come un passo decisivo in un’area dove oggi si svolge la ricerca più palpitante – la stessa che viene attraversata da Hofstadter nel suo Gödel, Escher, Bach. Ma a tutto questo va aggiunto che, pur nel rigore della sua indagine, Dennett è riuscito a dare al suo libro una forma estremamente invitante, che «obbliga il lettore a pensare», come ha scritto Ned Block. -
Opere complete. Vol. 52: Idilli di Messina-La gaia scienza-Frammenti postumi (1881-82).
Nell’estate che segue la pubblicazione di Aurora (1881) si verifica l’evento forse più profondo, certo più misterioso della vita interiore di Nietzsche: a Sils-Maria egli è come fulminato dall’intuizione dell’«eterno ritorno delle stesse cose». «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo... l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!»: se si prescinde dai frammenti postumi, questa è la formulazione più chiara tra le poche che Nietzsche stesso ha dedicato all’idea dell’«eterno ritorno», e si trova nel quarto libro della Gaia scienza. Nell’inverno 1881-82, durante il suo secondo soggiorno genovese, Nietzsche credette in un primo momento di dover continuare l’opera pubblicata l’anno avanti, e – sotto il titolo di Continuazione di Aurora – trascrisse una gran parte dei pensieri che si erano ormai venuti accumulando nei suoi taccuini e quaderni, a eccezione di quelli dedicati all’«eterno ritorno». Tra l’aprile e l’ottobre di questo anno si svolge il breve incontro con Lou von Salomé, appena ventenne. Forse trascinato da una specie di fede nella «provvidenza personale», – che egli del resto, nella Gaia scienza, definisce come un grave pericolo per gli individui di eccezione – Nietzsche crede di avere trovato, non solo una compagna per la vita, ma addirittura una discepola e una continuatrice in questa giovane donna eccezionale (che sarà una ventina d’anni dopo l’amica di Rilke, e poi l’allieva di Freud). In questo periodo di grandi speranze, egli dà forma definitiva alla nuova opera, che ormai non è più la Continuazione di Aurora, ma assume un proprio, lieto titolo: La gaia scienza. L’incontro con Lou si chiuderà nel disinganno e nell’amarezza: l’anno cominciato nella gaiezza luminosa del Sanctus Januarius genovese muore in un grigio autunno di solitudine e di inquieto errare tra Santa Margherita, Rapallo e Genova; ma proprio in mezzo a questo eccesso di delusione e desolazione Nietzsche comporrà la prima parte del suo Zarathustra. E qui il ciclo interiore di questo periodo della vita di Nietzsche si conclude: la figura di Zarathustra, infatti, era già sorta – insieme con il pensiero dell’«eterno ritorno» di cui il saggio persiano doveva diventare l’araldo –, nell’estate engadinese del 1881. Numerosi aforismi della Gaia scienza – come risulta dal nostro apparato critico – erano centrati, nella loro fase preparatoria, su Zarathustra. La gaia scienza è perciò anche un interludio, una specie di pausa gioiosa prima della tragedia: Incipit tragoedia è appunto il titolo dell’aforisma che alla fine del quarto libro annuncia esplicitamente il «tramonto» di Zarathustra, la sua discesa tra gli uomini. La gaia scienza comprende nella redazione... -
La vita è sogno. Il dramma e l'«Auto sacramental»
Il risveglio al libero arbitrio, il passaggio sconvolgente della grazia, la necessità della caduta originaria, infine la violenza imposta per natura dal cielo all’uomo, paradossalmente equilibrata dalla violenza compiuta dall’uomo contro il cielo, nel breve intervallo di sogno fra le analoghe oscurità della nascita e della morte, questi sono i segni centrali della Vita è sogno. Segni soverchianti e intrattabili, che sembrerebbero impedire quella plasticità e individuazione nel particolare che sarebbero più tardi diventate il metro della invenzione teatrale. Eppure il dramma si articola con rapidità, irrimediabile, fra barbagli di immagini, nella cornice incantata di rupi e corti remote. Abbandonando ogni rigido schematismo allegorico, Calderón si serve della teologia come della suprema macchina teatrale, l’unica che gli può permettere di congiungere nella concettosità labirintica una vicenda irripetibile e irriducibile con un modello universale e atemporale legando cioè il puro teatro a una sorta di liturgia cosmica. Egli arriva a creare questo portentoso ibrido attraverso un uso «talismanico» della parola, che in lui ci appare sempre, secondo la definizione di Walter Benjamin, come un continuo «potenziamento romantico del discorso». Così un’apparenza poetica inscalfibile, preziosa, suggella La vita è sogno, lo espone intatto da secoli a nuove letture e scoperte, forse come l’unico dramma che accetti e vinca la sfida di rappresentare in una sola immagine comprensiva l’intera estensione dell’esistenza. Pur nella puntigliosa fedeltà al testo e alla sua musicalità, la versione di Luisa Orioli riesce, come raramente accade, a essere di per sé opera di poesia. -
Il ritorno di Casanova
L'ultima avventura di Casanova, un feroce scontro tra Amore e Morte. «Nel Ritorno di Casanova il filo dell'avventura non si allenta mai, si indugia o si precipita negli eventi e la tensione è sempre alta, l'attesa non va mai perduta, e la calma delle pagine è sovrana» (Alfredo Giuliani) -
I cavoli a merenda
I cavoli a merenda, «novelle scritte e illustrate da Sergio Tofano», universalmente noto sotto lo pseudonimo Sto e quale creatore del signor Bonaventura, è per molti lettori il più incantevole libro per bambini scritto in Italia nel nostro secolo. Sono tutte storie surreali, incongrue, che prendono le mosse da un qualche evento di irrisoria gravità: linvincibile guerriero Uguccion della Stagnola che rimane prigioniero della sua armatura; la ragazza Pepita, terribilmente golosa, che si arrotola su se stessa e provoca una moda che conquista le ragazze di Montesaponetta; il re che voleva le ciliege senza nocciolo, ma fu messo a posto da un saggio famoso; langosciosa infanzia del piccolo Aniceto, a cui ciascuno dei parenti vuole imporre una istitutrice di diversa nazionalità; Mamaluch Pascià, Sultano di Muizzaiseifeim che, pur non essendo un «tiranno tiranno», impone a tutti i suoi sudditi di non dormire perché lui soffre di insonnia... Da ciascuna di queste situazioni nasce una favola e, come per ogni favola, Sto ci provvede ogni volta di un adeguato lieto fine: «Le nozze furono sontuose e da tutte le parti del regno piovvero nella reggia i regali di nozze. Perfino il boia di Stato mandò al sovrano un chilo di sapone da lui inventato per lubrificare la fune della forca». I cavoli a merenda fu pubblicato per la prima volta nel 1920.