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Lettera al mio giudice
«Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei». Così si rivolge il narratore, all’inizio di questo romanzo, al suo giudice – e insieme a ogni lettore. La storia che segue è una storia di amore e di morte, carica d’intensità, esaltazione e angoscia. È la storia di un uomo che si sente trascinato a uccidere una donna perché la ama troppo. Lo sfondo: stazioni gocciolanti di pioggia, bar, piccoli alberghi della provincia. Agente provocatore: il caso, che fa apparire una ragazza minuta, pallida, arrampicata su alti tacchi, nella vita di un medico, uomo «senza ombra», la cui esistenza, così normale, si avvicina sempre più al confine con l’inesistenza. E quella donna è l’ombra stessa, qualcosa di oscuro e lancinante al di là di ogni ragione, che conduce tranquillamente alla morte. Queste le ultime parole della confessione: «Siamo arrivati fin dove abbiamo potuto. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo voluto l’amore nella sua totalità. Addio, signor giudice». -
Una signora perduta
La «signora perduta» che sta al centro di questo romanzo vive nel vecchio West. È bellissima, nobile, affascina tutti. La vediamo attraverso gli occhi adoranti di un ragazzo che nulla ama al mondo quanto farle visita nella casa dove vive con il marito, il solido capitano Forrester, che ha costruito «centinaia di chilometri di strada ferrata nella terra dellartemisia e del bestiame, su su fin nel cuore delle Black Hills». Ai suoi occhi, come «agli occhi di tutti gli estasiati signori di mezza età che frequentavano la sua casa, qualunque cosa facesse Mrs Forrester era da gran signora, perché la faceva lei. Non riuscivano a immaginarla in una tenuta o in una situazione che la privasse del suo fascino». Tutto sembra tranquillo e armonioso, allinizio. Ma la «signora perduta» cela in sé unattrazione per qualcosa che sta tra il losco e il sordido, una sorta di perverso desiderio di degradazione. Pubblicato nel 1923, questo romanzo «prezioso, articolato con straordinaria abilità» (Edmund Wilson) è considerato da molti lopera più perfetta di questa scrittrice in cui oggi riconosciamo uno degli autori più importanti e durevoli del Novecento americano. -
Lo snobismo liberale
Questo libro dichiara di non voler «essere altro che un album di ricordi femminili e mondani, ristretti a quella esigua classe privilegiata che anche in Italia si fregiava di una coscienza di élite». Ma è ben di più: vista con gli occhi di oggi, quella élite, di cui facevano parte Hofmannsthal come Benedetto Croce, Thomas Mann come Berenson, fu l’ultimo esempio di una esile comunità culturale europea, dove le persone erano accomunate innanzitutto da certe maniere, certi gusti, certe insofferenze. Elena Croce visse la sua giovinezza all’interno di quella élite – e qui la rievoca puntando ogni volta lo sguardo sul dettaglio significativo, su quegli importantissimi sottintesi che davano il tono e oggi talvolta possono sembrare remoti. Con lucidità di memorialista, tocca tutti i punti sensibili di quel mondo e ne illumina l’interna fragilità, ma anche certi tratti di stile che invano cercheremmo intorno a noi. Lo snobismo liberale è apparso per la prima volta nel 1964. -
Incontri con Anna Achmatova (1938-1941)
Lidija Cukovskaja, figlia di un celebre storico della letteratura, conobbe la Achmatova nel 1938. A quel tempo il marito della Cukovskaja era già stato ucciso, ma lei non lo sapeva e lottava per salvarlo. Quanto al figlio della Achmatova, era stato arrestato per la seconda volta. Cominciò allora un periodo, intensissimo e desolato, in cui la Cukovskaja andò a vedere la Achmatova quasi ogni giorno. Registrava tutto nella memoria, unico rifugio: i gesti, i giudizi, le poesie, che erano materia altamente pericolosa. In quel periodo avvenne «la tremenda metamorfosi della raffinata poetessa acmeista “da camera” in altissima voce tragica attraverso cui parlavano milioni di russi resi muti dall’orrore» (Serena Vitale). Tutto questo – a partire dai dettagli quotidiani fino ai lucidissimi giudizi letterari e alle sublimi civetterie della Achmatova – si può vivere momento per momento negli Incontri, che rimarranno un’opera capitale sugli anni più neri di quell’«unico paese al mondo dove si uccide per una poesia» (Nadezda Mandel’štam). Incontri con Anna Achmatova 1938-1941 fu pubblicato in lingua russa, in Francia, nel 1976 ed è apparso in Unione Sovietica nel 1989. -
Le sorti del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli indoeuropei
Fin dal 1938, Dumézil aveva riconosciuto la celebre tripartizione delle funzioni all’interno della civiltà indoeuropea: la seconda fra queste è appunto la funzione del guerriero. Da allora, per trent’anni (il libro qui presentato è del 1969) proseguì nell’indagine sul significato di questa funzione, seguendo come sempre le piste più diverse, dall’Iran all’India, dalla Roma antica ai Germani. Ne risultò alla fine questo libro, uno fra i più ricchi e densi nell’opera di Dumézil. «Un paese che abbia perduto le sue leggende, dice il poeta, è condannato a morire di freddo. È più che possibile. Ma un popolo che non avesse miti sarebbe già morto». Con queste parole si avvia l’indagine. E presto, attraverso i miti che hanno al loro centro figure come Indra, Eracle o Thôrr, siamo obbligati a capire la complessità e l’ambiguità della figura del guerriero: essere iniziatico e mostruoso, capace di metamorfosi animali (da qui la furia del guerriero), continuamente immerso nella gloria e nella colpa. A seconda dei tratti che ogni singola mitologia esalta e illumina nella figura del guerriero, cambia l’immagine globale di una civiltà: rare volte ne abbiamo incontrato una dimostrazione eloquente come in questo libro. -
Radici ebraiche del moderno
In questi ultimi anni Quinzio è intervenuto più volte su temi urgenti del mondo moderno. E ogni volta ha voluto ritrovare in quei grovigli il filo del pensiero e dellinfluenza ebraica, nelle visioni politiche come nelle arti, nella letteratura come nelletica. Se il mondo moderno ha assunto nel tempo una certa fisionomia e forse è sul punto di perderla , questo si deve anche alla potenza di uneredità ebraica che, mischiandosi e spesso opponendosi alleredità greca, ha dato origine a forme e pensieri di ogni specie, che ne risentono in modo evidente o occulto, anche quando in apparenza la disconoscono. Ogni pensiero utopico, per esempio, prende luce dalla visione messianica. Ma anche la pretesa di leggere i sogni nasce su presupposti ebraici. E, prima di ogni altra, è la nozione stessa di «storia» che, nel senso occidentale, è segnata dallebraismo come «tempo a senso unico e senza ritorni». Mentre questa visione della storia, a sua volta, rimanda a una specifica concezione del sacro: «Non gli oggetti dello spazio, statici anche nel tempo, ma ciò che accade nella continua innovazione e imprevedibilità del tempo e non permane fisso nello spazio levento è per eccellenza sacro nellebraismo. Il sacro ebraico è pochissimo legato alle cose: le tavole della Torah, scritte dal dito di Dio, hanno potuto essere subito infrante da Mosè appena disceso dal Sinai. Il sacro ebraico è, per così dire, mobile e fluido come il tempo, non ha la struttura compatta e rigida del sacro comune alle altre grandi tradizioni religiose dellumanità. Il sacro ebraico non è atemporale, ma sinserisce in una storia, ha una storia». -
La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi (1983-87)
Ancora una volta, e come fosse per la prima volta, seguiamo Ceronetti nella sua perenne irrequietezza. Ma ormai i vagabondaggi nello spazio e nella mente si sono amalgamati. E anche «Il mondo si va unificando... Sì, ma nel male e in vista del male». Viaggiare è ormai unattività da «collezionista di ripugnanze». Oggi i roghi di invisibili inquisitori «ci arrostiscono con tacita, misteriosa lentezza». E non rimane allora che esercitare la pazienza, rivaleggiando vanamente con la «pazienza del tempo», che sa offrirci, in una piccola chiesa sperduta, «fiori di plastica in tuniche di polvere». Mentre è sempre un segnale di vitalità il guizzo del comico: basta allora che Ceronetti elenchi i regali ricevuti nel corso degli anni, o anche gli animali che si vedono sempre meno (anche le zanzare sono in diminuzione...). Così appare una nuova forma: una sorta di monologo interiore-esteriore, dove si prende nota delle scritte sui muri, dei nomi sulle lapidi e dei prezzi ai ristoranti, mentre continuano a ripresentarsi altri fantasmi: Giorgione, un versetto dei profeti, Goya, un libro appena letto, la guerra civile spagnola, Velázquez. Questa forma, in cui Ceronetti ci invita a leggerlo, la forma di questo libro, che forse è il suo più intimo, e perciò anche il più esposto, corrisponde a quella in cui egli stesso ne legge ogni altro: «Il frammento che si accende allimprovviso come un Intero accessibile e concentrato, e che sommandosi con altri, prossimi e lontani, del medesimo testo, crea limmagine di una nuova, screpolata Totalità testuale: non ho, coi più importanti autori a me noti, altra relazione che questa. La storia del pensiero, come laltra, è storia di amputazioni e di amputati: lIntero e il Tutto si adunano e brillano nel moncone, come tutta quanta la Legione si riconosce nella mano di legno del capitano Danjou». -
Vita di Milarepa. I suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione
«Milarepa fu mago, poeta ed eremita. Lo fu successivamente e in modo così completo che i Tibetani fanno fatica a non separare questi tre personaggi e, a seconda del loro punto di vista di maghi, di laici o di religiosi, Milarepa è il loro più grande mago, poeta o santo. Questo essere singolare visse nell’undicesimo secolo della nostra èra e la sua memoria è ancora viva nel Tibet come fosse di una personalità da poco scomparsa». - JACQUES BACOT«Uno di quei testi preziosi sui quali, a ogni nuova rilettura, si misura ciò che si è capito nel frattempo». - RENÉ DAUMAL -
Lunario dell'orfano sannita
Fu un incontro micidiale e memorabile, quello fra la scrittura di Giorgio Manganelli e la realtà di tutti i giorni. Il fiammeggiante teorico della letteratura come essere autosufficiente e barricato in se stesso contro ogni pretesa della realtà investiva ora con temerarie incursioni ogni sorta di plaghe del mondo circostante – oltre tutto scegliendole dispettosamente fra quelle meno frequentate dalla letteratura. Il calcio, la scuola, l’astrologia, la Chiesa, il conformismo, gli intellettuali progressisti, la caccia, la televisione, la nevrosi da traffico, il turismo di massa, il cinema, l’università, il divorzio, lo spionaggio telefonico… Ma anche: il Duomo di Milano, un congresso di appassionati della cremazione, il Corano, un trasloco, i rapporti fra sesso e politica… Si direbbe che quasi ogni luogo deputato del cicaleccio serioso venga scompigliato e scompaginato in modo irrimediabile da questi futili corsivi. Come quando lo sguardo di Manganelli, fedele erede dell’«orfano sannita», questo essere espunto dalla storia, che continua a osservarla con il puntiglio del fantasma, comincia a vagare per il Louvre – e la penna annota: «Il Louvre vuole essere tutto, e forse è veramente tutto. Lo si percorre non senza orrore, come un ospedale di mendicità, un cronicario di capolavori incurabili». -
Nero su nero
Molto si parlò di questo libro, quando apparve nel 1979. Ma allora notando soprattutto ciò che Sciascia vi dice della realtà pubblica che lo circondava: l’Italia come paese «senza verità», dal caso del bandito Giuliano all’affare Moro, la cui ombra si stende sulle ultime pagine di Nero su nero. Leggendolo oggi, affiora però con altrettanta evidenza la sua altra faccia, più segreta: quella del libro dove Sciascia ha consegnato, con scrupolosa precisione, pagine essenziali sul suo modo di intendere lo scrivere e la letteratura, che proprio qui viene mirabilmente definita quale «sistema di “oggetti eterni” ... che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità». (Parole che vanno lette accostandole ad altre, significativamente fra parentesi, dove si dice che la letteratura «è la più assoluta forma che la verità possa assumere»). Si direbbe dunque che, in questo momento, ciò che per Sciascia era più personale e nascosto venisse naturalmente a mescolarsi con i fatti della cronaca. Così nacque Nero su nero, accumulandosi per dieci anni torbidi, fra il 1969 e 1979, ma obbedendo sempre a un imperativo di chiarezza e nettezza – libro indispensabile per capire Sciascia in genere e soprattutto il suo ultimo periodo. E, di fatto, già il titolo risponde parodisticamente alla banale accusa di pessimismo che tanto spesso gli fu rivolta in quel decennio e anche dopo, offrendoci «la nera scrittura sulla nera pagina della realtà». -
Fondamenta degli incurabili
«Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo». Parlare di Venezia significa parlare di tutto – e in particolare della letteratura, del tempo, della forma, dell’occhio che la guarda. Così è per Brodskij in senso pienamente letterale. Questa divagazione su una città si spinge nelle profondità della memoria del pianeta, sino alla nascita della vita dalle acque, da una parte, e, dall’altra, nei meandri della memoria dello scrittore, intrecciando alla riflessione le apparizioni nel ricordo di certi momenti, di certi fatti che per lui avvennero a Venezia. C’è qui, come sempre in Brodskij, l’immediatezza della percezione e il gioco fulmineo che la traspone su un piano metafisico. E, per il lettore, quella percezione, quel contrappunto di immagini e pensieri intriderà d’ora in poi il nome stesso di Venezia. -
Il patto. La mia amicizia con Karen Blixen
Un giorno del 1948 il giovane poeta danese Thorkild Bjornvig venne invitato a cena da Karen Blixen, che allora aveva già da tempo pubblicato alcuni dei suoi libri più celebri. Fu l’inizio di un’intensa amicizia, estrema come tutte le storie essenziali nella vita della Blixen. C’era un patto fra i due, una sorta di lealtà feudale – e questo patto era così forte da investire, paralizzandola, tutta la vita di Bjornvig. Dopo cinque anni di violenta tensione, Bjornvig decise di allontanarsi dalla Blixen, che ne rimase duramente amareggiata. Passarono poi anni di silenzio e, quando la Blixen era già morta da tempo, finalmente Bjornvig si decise a raccontare la storia del loro rapporto in questo libro, che rimarrà una testimonianza impressionante e preziosa. Mai come in queste pagine è apparsa con evidenza la natura stregonesca, magica della scrittrice, la sua capacità di porre esigenze altissime ai sentimenti e la piena lucidità del suo magistero letterario. Il patto apparve in Danimarca nel 1974. -
La vana fuga degli dei
«Gli Dei sono diventati malattie» scrisse una volta C.G. Jung. Elaborando questa frase, Hillman si pone la questione più immediata per ogni psicologia: che cos’è la normalità psichica? A partire da quale soglia entriamo nel regno incontrollabile dell’anormalità? Nei due saggi qui per la prima volta raccolti in volume troveremo al centro, da una parte, la figura di Atena, giudice supremo della norma ateniese, modello di ogni concezione della normalità; dall’altra, la figura del paranoico, esemplificata soprattutto nella storia di Perceval e in quella del presidente Schreber, quale teologo del delirio. E, in tutti e due i casi, con un’analisi stringente e acutissima, Hillman ci mostrerà come la partita si giochi fra potenze che un tempo furono chiamate divine, prima di perdere ogni nome, e una struttura mentale, la nostra, che con esse è costretta ad avere a che fare, in ogni atto della vita, anche quando persegue, come l’intera civiltà occidentale, una «vana fuga dagli Dei». -
Note di un anatomopatologo
Per mestiere, un anatomopatologo è costretto a vedere, della vita e della morte, molti aspetti che generalmente spaventano o si ignorano - o comunque si respingono nell'aberrante e nel paradossale. González-Crussí, discendente moderno di Sir Thomas Browne o di Francesco Redi, cioè di quei medici che sapevano divagare su tutto in ottima prosa e con gesto amabile, ci guida in questi saggi fra molti temi di cui poco sappiamo e che molto ci incuriosiscono. Per esempio l'imbalsamazione; o lo strano caso di due gemelle ungheresi attaccate per il bacino che si presentano a un ospedale vittoriano perché una di loro è incinta, anche se entrambe si proclamano vergini; o l'autopsia di un gigantesco boscaiolo, empiamente tatuato e crivellato da mezzo chilo di piombo, al quale aveva ben resistito, mentre a ucciderlo era stato un minuscolo verme lungo meno di tre millimetri; o i mostri. Raccontando questi strani casi o divagando su temi clinici ben poco usuali, González-Crussí mostra sempre la dote principe dello scienziato scrittore che abbia il dono dell'ironia e della prosa: suscitare stupore e invitare alla riflessione. -
Messalina
Messalina, occorre dirlo subito, è una cavalla, che porta in lunghi giri per la Liguria il suo padrone, un maturo gentiluomo che si abbandona a pensieri sconsolati su un suo amore non contraccambiato. Ma un giorno quel gentiluomo comincerà a rendersi conto che forse la sua partner ideale è Messalina stessa. Anzi, la vera soluzione che balena in lui sarebbe ancora più perversa: un triangolo erotico dove due vertici sono occupati uno dallamata sfuggente e laltro dalla cavalla presente. E così forse il gentiluomo Adalberto sfiorerebbe la felicità, se non fosse che un complicato intrigo da vaudeville intorno a lui gli renderà sempre più difficile mantenere lequilibrio di questi delicati rapporti. Reverendi mondani, donne imprenditrici, intellettuali oziosi: tutti sembrano presi da una smania irrefrenabile di interferire in questa storia amorosa che invece aspirerebbe soltanto alla maestà del silenzio. Di Messalina si potrà dire, alla fine, senza tema di smentite, che si tratta di un romanzo damore di un tipo nuovo. Come già in Egnocus, Dentice sa narrare con mano leggera, coinvolgendo nel suo gioco sapiente, stendendo su tutto ciò che accade un velo di ironia, mentre il fondo del romanzo è la penetrante melanconia di un amore autunnale. -
Il grano in erba
Colette pubblicò questo romanzo a puntate su «Le Matin». Ma, quando il direttore si accorse che i due protagonisti, la quindicenne Vinca «dagli occhi color pioggia di primavera» e Phil, il sedicenne suo compagno di infanzia, procedevano impavidamente, attraverso gelosie e dispetti, verso la scoperta del sesso sul corpo dell’altro, sospese le pubblicazioni. Così un’aura di scandalo circondò fin dall’inizio questo libro, forse il più popolare di Colette. Ed era proprio la stupefacente precisione di Colette a scandalizzare, la sua capacità di concatenare le sensazioni, ricostruendo momento per momento, con un’ariosità febbrile, la trasformazione di due bambini che per anni hanno giocato insieme in due giovani amanti che evocano il «miracolo laborioso» del possesso. Il grano in erba è stato pubblicato per la prima volta nel 1923. -
La confessione
Clemente è un adolescente sensibile, un po’ torbido, un po’ troppo «conscio di se stesso» rispetto ai suoi compagni. Lo educano i Gesuiti – e Clemente stesso vuole pensare che un giorno diventerà un Gesuita. Ma i suoi pensieri non hanno nulla di religioso. È attratto dal peccato per eccellenza, la Donna, nella persona di un’avvenente amica di sua madre o di un’ignota signora, dalla sublime volgarità e dalle unghie laccate e acuminate, che un giorno incontra in ascensore. Non avrà però il coraggio del suo peccato. Mentre troverà una soluzione ai suoi turbamenti erotici che paradossalmente viene incoraggiata dai suoi tutori morali, dalla famiglia e infine da lui stesso: l’omosessualità. Come ha scritto Cesare Garboli, questo è un racconto libertino, leggero, dolce, europeo, volterriano, pochissimo indulgente, senza nessun compiacimento e nessun senso di colpa. Quando apparve, nel 1955, pochi lo capirono. Oggi lo leggiamo ritrovandoci Soldati in stato di felicità narrativa, con quel brio, quella acutezza pungente e quel senso dell’ambiguità dei sentimenti che gli appartengono come a pochi altri. -
Vita avventure e morte di Don Giovanni
«Questa storia di Don Giovanni, dove il critico letterario si unisce al musicologo, raggiunge nel suo genere la perfezione» scrisse una volta Guido Piovene. E, sul versante musicologico, Massimo Mila giudicò «geniale e definitivo» questo libro che, pubblicato per la prima volta nel 1966, da allora non ha cessato di arricchirsi, suscitando sempre un vasto interesse. Nella prima parte, Macchia ricostruisce la storia di Don Giovanni nelle sue oscure origini e nel suo svilupparsi attraverso i secoli, soffermandosi naturalmente soprattutto su Mozart e Da Ponte e puntando l’attenzione su certi «momenti di sviluppo e di crisi» nonché sulle «miracolose riprese» di questo personaggio che è fra i rari moderni assimilabili alle grandi figure mitiche e tutt’oggi «è vivo, nell’immortalità della sua giovinezza». Nella seconda parte sono invece raccolti testi rari e poco conosciuti che vanno da uno scenario della Commedia dell’Arte al libretto della prima opera in musica su Don Giovanni e illuminano l’evoluzione del personaggio libertino. Questo libro è, per Macchia, un’occasione esemplare per seguire le modulazioni, rifrazioni, metamorfosi di una inesauribile immagine, che nasce dalla protesta contro il «culto della morte instaurato vittoriosamente tra il Cinquecento e il Seicento» e trapassa, attraverso la pratica di un «machiavellismo portato sull’amore», nell’affermazione insolente, comica, drammatica ed empia del «puro gusto della vita». -
Ritorno in Patagonia
Melville usò l’aggettivo «patagonia» per indicare qualcosa di totalmente esotico, mostruoso e pericolosamente attraente. Un’attrazione che agì anche sul giovane Bruce Chatwin. Fin dall’età di tre anni la Patagonia gli apparve come la Terra delle meraviglie. Poi dall’esperienza nacque In Patagonia, il più bel libro di viaggi dei nostri anni. Qualche tempo dopo, un altro illustre scrittore di viaggi, Paul Theroux, pubblicava un affascinante libro su quella terra, The Old Patagonian Express. Infine, nel 1985, Chatwin e Theroux composero, in una storia di contrappunto a due voci, questo delizioso libretto, dove entrambi tornano sulle tracce della loro passione nonché delle voci e delle storie disparate che sono connesse a quella terra. Sia Chatwin sia Theroux appartengono a quella stirpe di viaggiatori che «un’associazione o un riferimento letterario possono entusiasmare quanto una pianta o un animale raro». Perciò il loro dialogo non può che essere personalissimo ed erudito, esposto all’esperienza bruta del viaggio ma anche pronto a captare ogni segnale che giunga dal passato per ricomporre ancora più screziata, l’immagine di quella terra dai tanti misteri, veri e fantasticati. -
Su una gamba sola
Un incidente di montagna in Norvegia: Oliver Sacks si ritrova su un letto con una gamba che, nella sua percezione, non gli appartiene più. All’inizio, pensa che il suo caso sia semplice e banale. Poi, si trova sprofondato in un «abisso di effetti bizzarri e anche terrificanti». Quella gamba alienata dal suo corpo lo induce a indagare «l’orrore e la meraviglia che occhieggiano dietro la vita e che sono celati, per così dire, dietro la superficie usuale della salute». Perdere la percezione di un arto lede l’immagine di se stessi, obbliga a chiedersi che cosa sia questo Sé che agisce in noi. Anche questa volta, Sacks indaga, e ci fa partecipi della sua indagine, attraverso il racconto: che sarà il racconto di uno strano viaggio «in avanti e all’indietro – perché questa sembra essere la natura del pensiero: ricondurci al suo punto di partenza, alla casa atemporale della mente».