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Un altro tempo. Testo inglese a fronte
Tra le raccolte di poesie di Auden un posto molto particolare spetta senza dubbio a Un altro tempo: e per più ragioni, a cominciare dalla sua collocazione cronologica, che ne fa in un certo senso un libro di storia. Il periodo della composizione abbraccia la vigilia e gli inizi della seconda guerra mondiale, e comprende i giorni di una svolta drammatica nella vita del poeta: la decisione di lasciare l’Inghilterra e di stabilirsi negli Stati Uniti. Abituato a vivere intensamente e da vicino gli eventi pubblici, dalla guerra di Spagna alla crisi europea, Auden interpreta da poeta non solo l’invasione tedesca della Polonia, ma anche la scomparsa di figure come Yeats e Freud. Intanto entra in un «altro tempo» con un esilio che lo accomuna a schiere innumerevoli di profughi (ai quali dedica Refugee Blues e altri versi) e lo avvia alla cittadinanza americana, senza mai attenuare i ricordi dell’Inghilterra e dell’Europa (Oxford, il Vallo Romano, il Musée des Beaux-Arts di Bruxelles). Un altro tempo è tipicamente audeniano anche perché alterna liriche metafisiche ad altre cosiddette light (come Funeral Blues e Calypso), che sono tra le sue più famose o addirittura popolari; e perché l’omaggio ai grandi del passato (Melville, Rimbaud, Voltaire) non esclude un’attenzione commossa o sarcastica per piccole creature del presente (la povera Miss Gee o il chimico che con la sua passione per gli esplosivi contribuirà a distruggere la propria casa). Mai pubblicato in Italia nella sua integrità, Un altro tempo è infine una testimonianza delle esperienze americane di Auden già dalla poesia d’apertura, con la dedica a Chester Kallman – dedica che è quasi l’annuncio pubblico di un sodalizio destinato a durare una vita. -
Romanza parigina. Carte di un disperso
Per le strade di Parigi, ""la città più carnale che ci sia"""", passeggiano instancabilmente un mite """"flaneur"""" (ma la sua mitezza è un'insidiosa forma di seduzione) e una bionda diciannovenne tedesca, che dovrebbe migliorare il suo francese. Lotte vuole scoprire la """"vera vita"""" della città, e il suo accompagnatore non chiede di meglio che iniziarla. Parigi sta vivendo un ultimo momento di inconsapevole felicità, poco prima che scoppi la Grande Guerra. E il """"flaneur"""" la osserva come se già stesse per inabissarsi. Così comincia una storia su cui paradossalmente sappiamo oggi più di quanto sapesse il suo autore nel 1920. Il """"flaneur"""" è Franz Hessel, che sarà Jules in """"Jules et Jim"""" di Roché e Lotte sarà Kate."" -
La preziosa ghirlanda degli insegnamenti degli uccelli (Bya chos rin-chen 'phreng-ba)
In Tibet l’arrivo del cuculo, il re degli uccelli, annuncia il risveglio della natura. In questo testo il cuculo, sotto le cui penne si cela per l’occasione il Bodhisattva Avalokitesvara, che personifica la compassione, annuncia al popolo alato la possibilità del risveglio alla reale natura della mente, sepolta sotto il coinvolgimento nell’esistenza fenomenica, contratta nel gelo delle bufere emotive e offuscata dalle brume dell’ignoranza. Meditate le sue istruzioni, a turno gli uccelli riuniti in assemblea dichiarano ciò che hanno compreso e fanno udire i loro versi: versi che, se paiono a un primo ascolto inintelligibili, suonano in tibetano come perentorie esortazioni a ricordare gli insegnamenti del Buddha e come ammonimenti di carattere gnomico. L’anno successivo gli uccelli indiani, cui la dottrina è stata inizialmente esposta, migrano a nord e si ritrovano nel Paese delle Nevi, quasi a simboleggiare la successiva diffusione del buddhismo dall’India in Tibet. Tradotta per la prima volta in Occidente nel 1953, questa operetta anonima e di epoca incerta fu subito percepita come una gemma della sapienza buddhista tibetana. -
Mumù e altri racconti
La bellezza, la maestria di una lingua di straordinaria trasparenza che si adagia sulle cose aderendovi come una seconda, radiosa pelle, apparentano questi tre racconti che Turgenev scrisse in anni diversi, per occasioni diverse, e che vengono qui pubblicati nella successione che Tommaso Landolfi volle scegliere per l’antologia Narratori russi. Il prato di Bežin entrò a far parte di quelle Memorie di un cacciatore (1851) che diedero a Turgenev fama di maestro del realismo e primo cantore del mondo fino ad allora muto dei contadini, dei servi della gleba; puro oggetto di bellezza, prediletto da Henry James tra gli scritti turgeneviani, è gremito di ombre, presenze demoniache, inquietanti esseri fantastici – spiriti dei boschi e delle acque, russalche, fantasmi di annegati –, e tuttavia emana poesia e non sgomento. In La reliquia vivente (1874), apparso in una più tarda edizione delle Memorie di un cacciatore, restiamo ammirati e straziati di fronte alla semplice, spoglia sacralità di una creatura devastata dalla malattia, ridotta a povero e dolorante oggetto, e tuttavia viva come un fiore, un albero, un profumo della natura russa che tanto deve all’amore e alla sapienza narrativa di Turgenev. L’orrore pervade infine il breve e tremendo capolavoro Mumù (1854), storia di un povero servitore sordomuto costretto dalla padrona a sopprimere il cagnolino divenuto per lui ragione di vita, amore, felicità. E ogni volta, leggendo questi racconti, tornano alla memoria le parole che a Turgenev scrisse un suo vero amico e illuminato lettore, Gustave Flaubert: «Quanto più vi studio, tanto più il vostro talento mi sbalordisce. Ammiro quella vostra maniera al tempo stesso veemente e trattenuta, quella simpatia che scende fino agli esseri più infimi e dà un pensiero ai paesaggi». -
Il cavallante della «Providence»
«“Che diavolo ci faceva quella donna in un posto simile?”. «In una stalla, con gli orecchini di perle, il braccialetto firmato, le scarpe di camoscio bianco! «Doveva essere arrivata ancora viva, visto che il delitto era stato commesso dopo le dieci di sera. «Ma in che modo? E perché? E nessuno aveva sentito nulla! Lei non aveva gridato, e i cavallanti non si erano neppure svegliati... «Se non fosse stato per quella frusta che non si trovava, probabilmente sarebbero passati anche quindici giorni o un mese prima che qualcuno scoprisse il cadavere, per caso, nel rivoltare la paglia! «E altri cavallanti sarebbero venuti a russare accanto a quel corpo di donna!». -
Foglie e pietre
La maestria di Ernst Jünger ha raggiunto le punte più alte in quegli scritti dove lo stile diventa forma della contemplazione: lo dimostra in maniera imperiosa Foglie e pietre, del 1934, in cui Jünger raccolse una serie di brevi testi: taluni, come la mirabile Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, con natura di «foglia», altri, come Fuoco e movimento, più affini alla «pietra». Ma tutti «presentavano un carattere di durata al di là dell’occasione contingente». Parole venate di ironia, perché tali occasioni oscillavano fra il paradiso solitario di alcuni viaggi e l’inferno collettivo della Grande Guerra, colta nella sua scaturigine tecnica e selvaggia in uno scritto (La Mobilitazione Totale) che ha avuto un’immensa influenza sino a oggi. E tuttavia che l’oggetto sia il petalo di un fiore o un incendio cosmico non fa differenza: l’occhio che vi si posa è lo stesso – l’occhio di un naturalista che con equanime attenzione lascia affiorare le nervature segrete delle cose. Di fatto, Jünger stesso definì questi scritti «esercizi dello sguardo». -
Enrico di Ofterdingen
Filosofo della natura, rabdomante dei misteri della notte, Friedrich von Hardenberg, alias Novalis (1772-1801), apparve e scomparve come una folgore nel firmamento del romanticismo tedesco, lasciando dietro di sé un bagliore che seguitò a rischiarare l’immaginario poetico fino a oggi. Il fiore azzurro che per tutto l’Ottocento varrà come cifra della poesia sboccia nel suo romanzo Enrico di Ofterdingen (1802), storia di un’iniziazione alla parola poetica in cui il viaggio del protagonista attraverso una Germania dall’aura medioevale è allegoria di un cammino alla conquista della verità del sogno. La discesa fra i segreti del grembo della terra e del libro della natura, l’incontro con il bel volto di Mathilde e la sapienza di Klingsohr segnano le tappe di un progresso dell’anima, di un itinerario poetico dove soltanto la visione disserra gli arcani dell’essere. Alchimia di una prosa che fluisce liquida come le acque azzurre in cui sprofonda il sogno di Enrico e di uno stile perennemente in bilico fra l’incanto della fiaba e la lucidità della speculazione. Enrico di Ofterdingen rappresenta la suprema realizzazione di ciò che Novalis intendeva per poesia: «una follia secondo regola e con piena consapevolezza». -
Il viceré di Ouidah
Più di un secolo dopo la morte di un celebre negriero, Dom Francisco da Silva, i suoi numerosi discendenti si riuniscono a Ouidah, nel Dahomey, «per onorare la sua memoria con una messa di requiem e un pranzo». Le voci del passato si ritrovano a spargere «cibo, sangue, piume e Gordon’s gin sul letto, tomba e altare del Morto». Un romanzo di follia e crudeltà tropicale. -
La kundalini o l'energia del profondo
La kundalinī, che la fisiologia mistica indù rappresenta come un serpente che dorme inanellato nelle sue spire alla base della colonna vertebrale, è, nella sua dimensione macrocosmica, la stessa energia pulsante e luminosa con cui Śiva manifesta e sostiene l’universo. Compito dello yogin è «risvegliare» questo serpente abissale, questa potenza celata nel corpo sottile di ciascuno di noi, facendola risalire verticalmente attraverso vari cakra o «ruote» che costituiscono altrettante tappe di una ascensione culminante, alla sommità del capo, nel ricongiungimento con Śiva. In questo libro una grande indologa, Lilian Silburn, ha riunito i passi volutamente frammentari e oscuri sulla kundalinī dispersi in numerosi testi dello Śivaismo del Kaśhmīr (denominazione collettiva delle raffinate scuole del Tantrismo non-dualista fiorite alla fine del primo millennio in quell’estrema propaggine settentrionale dell’India), e li ha raccordati componendo un vasto mosaico in cui ogni tessera è elucidata sulla base non soltanto delle conoscenze acquisite in quarant’anni di studi, ma anche di preziose esperienze personali. Veniamo così introdotti alle varie forme della kundalinī e ai «canali» che essa può imboccare, alle iniziazioni in cui il maestro agisce direttamente sulla kundalinī del discepolo mettendola in risonanza con la propria e, per finire, al kulayāga, l’arduo rito in cui l’unione sessuale è celebrata come via della conoscenza. -
Pedigree
«Un medico, in base a una radiografia sospetta, mi annunciò che mi rimanevano al massimo due anni di vita e mi condannò a un’inattività quasi totale». Simenon non poteva però cessare di scrivere. Pensò a qualcosa di unico e di ultimo: raccontare la sua infanzia, in forma di lunga lettera al figlio. Poi quella lettera diventò Pedigree, il romanzo più personale e segreto di Simenon, ma anche quello dove ritroviamo la sostanza, in senso chimico, di tutti i suoi libri. -
Le leggende degli ebrei. Vol. 2: Da Abramo a Giacobbe.
Nel suo attraversamento della tradizione ebraica, la grandiosa opera di Louis Ginzberg ha come seconda tappa le vicende dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e delle loro mogli e tribù. Ancora una volta, in margine al testo biblico sempre così scarno ed essenziale, si dipanano innumerevoli leggende, storie, parabole, divagazioni, di cui il mondo ebraico si è nutrito per millenni. E qui si può dire che si entri nel terreno peculiarmente romanzesco della Bibbia: i patriarchi, e le numerose donne che costellano le loro vite, sono in certo modo gli archetipi stessi del personaggio dotato di una psicologia, come dire di quella figura che innerverà la storia del narrare fino a oggi. Non sono certo esseri insediati in una monotona virtù: al contrario, ci appaiono divisi, lacerati, contraddittori, impulsivi – e le loro storie si mescolano continuamente con quelle di re malvagi, fratelli prepotenti, mogli e concubine innamorate, angeli in cammino. Le variazioni su queste vicende sono un materiale ricchissimo, inesauribile. Se nel primo volume delle Leggende il lettore era al centro di un’affascinante e continua oscillazione fra terra e cielo, in questo secondo si troverà in un’atmosfera decisamente più mondana: qui lo scontro è tutto fra uomini e donne, e copre l’intera gamma dell’umano, dall’abietto al sublime. -
Storia universale dell'infamia
Simile a un enciclopedista cinese, Borges volle accostare una sequenza di destini tenebrosi come altrettanti «esercizi di prosa narrativa». Il tono è quello, impassibile, di chi intende «raccontare con lo stesso scrupolo le esistenze degli uomini, siano stati divini, mediocri o criminali», e ritrovarle tutte in una pura «superficie di immagini». Ma chi cercasse in questi ritratti dati certi e attendibili si ingannerebbe. Ispiratore occulto è qui Marcel Schwob, che nelle sue Vite immaginarie inventava le biografie di uomini «che erano realmente esistiti ma di cui non si sapeva pressoché nulla». Procedimento che in Borges si inverte: «leggevo la vita di un personaggio conosciuto e la deformavo e falsificavo deliberatamente secondo la mia fantasia». Comune a Schwob e a Borges rimane una certa scansione della frase, che «dà un’impressione di ironia per il naturale contrasto che si crea tra un fatto che ci sembra meraviglioso o abominevole e la brevità sdegnosa di un racconto». Con la sua usuale sprezzatura, Borges definì una volta queste storie «l’irresponsabile gioco di un timido». Di fatto erano il primo gioiello di una nuova specie di letteratura. -
La notte dei girondini
Uno degli aspetti più terrificanti nella macchina infernale dei campi di concentramento nazisti è stato senzaltro lutilizzazione e lo sfruttamento per fini distruttivi di un certo odio di sé ebraico, di cui già nellOttocento dà testimonianza tutta una serie di pubblicazioni antiebree ad opera di ebrei. Questo sentimento ambiguo e autodenigratore era vivo in particolare fra gli ebrei occidentali agiati, che più tenacemente volevano lassimilazione nei paesi dove vivevano. È un tema difficile, intricato e sconcertante e su di esso è centrato il breve, intensissimo romanzo che qui presentiamo, scritto dallo storico olandese Jacob Presser sulla base di esperienze anche dirette della persecuzione nazista in Olanda. Il giovane protagonista, ebreo di origine portoghese, professore di storia in una scuola di Amsterdam, è tormentato dallidea dellassimilazione, da una volontà cocciuta di nascondere il suo ebraismo, che gli fa sentire il fascino di laide corporazioni studentesche e perfino del movimento fascista. Siamo durante lultima guerra: lOlanda è sotto il dominio nazista e gli ebrei di Amsterdam scompaiono a poco a poco. I nazisti li rinchiudono nel campo di concentramento di Westerbork, da cui partono con inesorabile regolarità convogli per Auschwitz. E paradossalmente, proprio per salvarsi dalla persecuzione, il giovane professore decide di farsi internare anche lui a Westerbork, ma in una posizione di comando, che lo obbliga allorrendo compito di amministrare le vittime. Qui gli si farà luce su tutto: non solo sulla mostruosa impresa nazista, ma sulla cecità delle sue vittime, convinte di essere al sicuro, ciascuna su una lista segreta di privilegiati, che non dovranno mai partire per Auschwitz. Queste liste invece «saltano» a una a una: la tortura per mezzo della speranza è infatti il più beffardo e atroce trucco dei nazisti per mantenere lordine nei campi. Passando attraverso episodi che sanno illuminare lorrore con pochi e memorabili tratti, mentre si delinea la straordinaria figura del feroce Cohn, ebreo collaborazionista da cui dipende la vita di tutti nel campo, e a contrasto quella del giovane rabbi Geremia Hirsch, che aspetta lucidamente il destino leggendo la Scrittura, il racconto precipita verso la sua tragica fine: per il protagonista, infatti, penetrare dietro la cortina di fantasmi che hanno avvolto la sua vita e quella di tanti suoi parenti e amici vuol dire riconoscere la propria degradazione e con ciò condannarsi a morte. Non senza, però, aver compiuto un gesto di rivolta che capovolge i termini della sua breve vita di cieco e delicato intellettuale. La notte dei Girondini apparve per la prima volta nel 1975. -
La Sicilia, il suo cuore-Favole della dittatura
Scritte da Leonardo Sciascia con una finezza e una leggerezza di dettato sorprendenti in un’opera d’esordio, le giovanili Favole della dittatura (1950) sono anzitutto quello che sembrano: ovvero trasparentissime, appuntite allegorie che denunciano gli orrori della dittatura fascista, da pochi anni conclusa, e di tutte le dittature e le tirannie, con i loro archetipi comportamentali sinistri e grotteschi. Così, nell’uomo «chiuso e rigido dentro tanto splendore», il lettore scorgerà infallibilmente un Ciano o uno Starace: ma soprattutto non potrà non cogliere nella contrapposizione tra lupo e agnello, gatto e canarino, uomo e topo, padrone e asino (o cane) la divisione tra carnefici e vittime, dominanti e dominati; nei corvi (neri) gli integrati e gli organici e nei passeri e nei colombi i disorganici; e ancora in porci, faine, volpi, lumache e talpe altrettante allusioni ai tipi – e ai loro tic – di ogni regime. Come notò Pasolini, che fu tra i primi lettori di queste «favole», «l’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire». Lo stesso «sapore metafisico» ritroviamo anche nelle poesie pressoché coeve alle Favole, raccolte sotto il sintomatico titolo La Sicilia, il suo cuore (1952). In versi di straordinaria economia espressiva, dove l’autore già rivela la sua innata capacità di contemperare ricchezza di immagini e asciuttezza di scrittura, avvertiamo infatti l’arcana risonanza che si leva dalle descrizioni dei luoghi, come se qui la parola riuscisse a ridurre alla quintessenza l’anima della Sicilia, il suo cuore di ulivi, di mandorli, di roveti, dove risuona «cupo il passo degli zolfatari». -
All'insegna di Terranova
«“Potete sedervi...”. «“No, grazie!” disse la donna che, tra i due, era decisamente la più nervosa: “Sarà una cosa rapida...”. «Maigret poteva vederla in faccia, illuminata dalla luce violenta di una lampada. Non ebbe bisogno di osservarla a lungo per classificarla. Del resto, gli era bastata la foto, benché si vedesse solo il busto... «Una bella ragazza, nell’accezione popolare del termine. Una ragazza dalle forme appetitose, con denti sani, un sorriso allettante e lo sguardo sempre acceso. «Più esattamente una bella troietta, provocante, avida di piaceri, sempre pronta a dare scandalo o a scoppiare a ridere in modo sguaiato». -
La chiusa n. 1
Ducrau sembrava non aver fretta di rispondere. Non staccava gli occhi da Maigret e, fra una lunga boccata di sigaro e l’altra, soppesava ogni domanda che gli veniva posta e ogni parola che pronunciava. «“Stia a sentire, commissario. Le dirò una cosa importante e le consiglio di tenerla bene a mente, se vuole che andiamo d’accordo. Nessuno ha mai fatto il furbo con Mimile! Mimile sono io. Mi chiamavano così quando avevo soltanto il mio primo rimorchiatore, e ci sono dei guardiani di chiuse, nella Haute-Marne, che ancora oggi mi conoscono solo con questo nome. Capisce cosa voglio dire? Io non sono più stupido di lei. In questa storia, sono io che pago! Sono io a essere stato aggredito! Sono io che l’ho fatta venire qui!”. «Maigret non batté ciglio, ma per la prima volta dopo tanto tempo si rallegrò di trovarsi davanti un personaggio che valeva davvero la pena di conoscere. -
Il lavoro su di sé. Lettere a Geneviève e Louis Lief
Negli ultimi tre anni della sua vita René Daumal intrecciò un intenso rapporto epistolare con una giovane coppia di amici nell’intento di condurla fattualmente, precisamente, sulla via della «conoscenza di sé». Una conoscenza che esige un lavoro, un’opera di trasformazione incessante secondo modalità che solo un vero maestro spirituale può trasmettere. E tale, indubitabilmente, Daumal era. Ispirato dall’insegnamento di Gurdjieff e della sua scuola, dotato di una straordinaria perizia nella comprensione della spiritualità indiana, Daumal sa offrire a tutti i lettori – con un’abilità e una determinazione che è possibile ritrovare solo nelle lettere di Pascal a Mademoiselle de Roannez – una bussola capace di guidarli sulla strada, lunga e difficile, che porta all’«acquisizione della coscienza». Queste lettere sono dunque un invito al viaggio – al viaggio in se stessi per non scoprirsi automi. -
Una signora perduta
La «signora perduta» che sta al centro di questo romanzo vive nel vecchio West. È bellissima, nobile, affascina tutti. La vediamo attraverso gli occhi adoranti di un ragazzo che nulla ama al mondo quanto farle visita. Ma la «signora perduta» cela in sé un’attrazione per qualcosa che sta tra il losco e il sordido, una sorta di perverso desiderio di degradazione. -
Cruciverba
Utilizzando la Storia come un gigantesco cruciverba in cui orizzontali e verticali sortiscano contatti e cortocircuiti tra eventi e personaggi distantissimi, Sciascia ci ha consegnato con questa raccolta di saggi uno dei suoi libri insieme più articolati e conversativi. Ogni saggio è connotato da una figura, un tema o un tempo dominanti: ma, attraverso una rete disposta con un’erudizione pari solo alla naturalezza che la dissimula, ecco che decine di altre figure, altri temi, altri tempi vengono a materializzarsi sulla scena. Così, muovendo dalle idee di Luciano sulla religione cristiana Sciascia riesce a parlare di Leopardi, Voltaire, Monti e Settembrini; riesumando la Storia del Vespro associa il nome del suo autore, il grande storico siciliano Michele Amari, a quelli di Verdi e De Sanctis, in una triade che è la più rappresentativa di tutto il secondo Ottocento italiano; rievocando la drammatica avventura dell’Invincibile Armata si appoggia a un formidabile libro del misconosciuto Franz Zeise; e così via, in una fantasmagoria dove, ora sullo sfondo ora in primo piano, possiamo scoprire i segreti psicologici e iconologici del Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, i pensieri incestuosi di un Casanova che danza una furlana a un ballo in maschera, le analogie tra il Principe di Palagonia e il Benito Cereno di Melville. E altro ancora... Scritto con la dottrina di un enciclopedista e in una prosa duttile e trasparente, Cruciverba conferma l’affinità di Sciascia con la forma mentis di un Bayle; ma conferma anche la sua innata vocazione alla fabula, giacché questi saggi sono sotterraneamente mossi da un ritmo, da un montaggio, da una sapienza architetturale che soli appartengono all’arte del raccontare. -
Uomini e amori
Nella Milano dei primi anni Quaranta, straordinariamente presente nelle atmosfere e in piccoli tocchi di somma precisione, si disegnano le storie sentimentali ed erotiche del medico Saverio Maggio e di sua moglie Nene, del giovane pittore Vito Cambria, di Lucia Weiss, sua compagna, e di Marina Danzi, sensuale musa di Vito. Tra sedute di posa, rappresentazioni teatrali e serate mondane, le vicende dei protagonisti si intrecciano con il dilemma arte-vita e gli enigmi del desiderio. La guerra, combattuta in una dissimulata località calabrese, allontanerà infine i due personaggi maschili dallambiente lombardo e dai loro tormenti amorosi, costringendoli a scoprire bruscamente unaltra realtà. Uomini e amori è la prima e inedita prova di romanzo lasciataci da Guido Morselli. Ancora intrisa di un forte autobiografismo, testimonia dellambizione di affrontare un intreccio narrativo di ampio respiro. Preceduta da un minuzioso lavoro preparatorio e passata attraverso intricate e sofferte vicissitudini redazionali, essa mostra già quella complessità di tessitura che ritroveremo in tutta lopera successiva.