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Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell'India antica
Da tempo ormai la nostra civiltà si è abituata a indagare quello che viene definito come ""pensiero mitico"""", a precisarne le modalità. Ma altrettanto non si può dire sia avvenuto per quanto riguarda il """"pensiero rituale"""". Anzi, per alcuni """"rito e pensiero sono di per sé termini antinomici"""". Ora, si dà il caso che tutto questo venga radicalmente messo in dubbio dalla testimonianza di una grande civiltà: l'India. Nell'India antica, quella dei Veda e dei Brahmana (i trattati sui riti, quindi essenzialmente sui sacrifici), apparvero alcuni pensatori, i quali (in epoca anteriore ai primi sapienti greci) si interrogarono su """"ciò che è"""" con stupefacente capacità speculativa. E la forma che scelsero fu appunto quella del """"pensare attraverso il rito"""": erano grandi metafisici."" -
Il cane giallo
«C’era in lei un’umiltà esagerata. I suoi occhi cerchiati, il suo modo di muoversi senza far rumore, senza sfiorare le cose, quel suo fremere d’inquietudine alla minima parola, corrispondevano abbastanza all’idea che ci si fa della serva abituata a ogni durezza. Sotto quelle apparenze si sentivano però come dei sussulti di orgoglio, che lei si sforzava di non lasciar trasparire. Era anemica. Il suo seno piatto non era fatto per risvegliare i sensi. Eppure c’era qualcosa di attraente in lei, qualcosa di torbido, di avvilito, di vagamente morboso». -
Jung parla, interviste e incontri
C.G. Jung amava definirsi un «introverso», il che non significa che non sapesse trattare con il mondo e in particolare con quella insidiosa manifestazione del mondo che è lintervista. Lungo tutto larco della sua vita, accettò di parlare di se stesso e del suo pensiero con i più svariati interlocutori, alcuni dei quali oscuri, altri illustri come Victoria Ocampo, Alberto Moravia, Mircea Eliade, Charles Baudouin, Miguel Serrano. Ed è sorprendente il fatto che ogni volta, fra le maglie di una forma così aleatoria e sfuggente, Jung abbia voluto e saputo lasciar filtrare delle verità che nei suoi libri rimangono talora celate come in uno scrigno. Queste interviste rappresentano dunque un prezioso controcanto a tutta lopera di Jung, indispensabile sia per chi si accosti ad essa per la prima volta, sia per chi la conosca in profondità. Le novità appariranno insomma equamente divise, anche perché in Jung allo sforzo per chiarire le proprie idee ed esporle in modo piano si accompagna sempre la formulazione imprevista, quasi il guizzo di un ironico sciamano. La presente raccolta fu pubblicata per la prima volta nel 1977. -
La città del Sole
Il titolo completo dell'opera è: ""La città del Sole, cioè Dialogo di Repubblica nel quale si dimostra l'idea di riforma della Repubblica cristiana conforme alla promessa da Dio fatta alle Sante Caterina et Brigida"""". L'opera fu scritta in italiano in due redazioni (1602 e 1611) e in latino in almeno due redazioni (1613-1631) e pubblicata in latino a Francoforte nel 1632 come """"Appendix politica"""" alla """"Realis philosophia epilogistica"""", col titolo """"Civitas Solis idea reipublicae philosophica"""". In questo dialogo il Campanella presenta la sua teoria circa la miglior forma di governo, prospettando una società in cui si realizzino felicità individuale e bene collettivo."" -
Todo modo
Fra le querce e i castagni di un luogo imprecisato e delizioso si apre, come un’oltraggiosa ferita, uno spiazzo asfaltato chiuso da un edificio di cemento, «orridamente bucato da finestre strette e oblunghe». Un albergo? Un eremo? Testimone casuale – ma che sempre meno crede nel caso –, un pittore di fama si troverà a osservare, per pochi, terribili giorni, ciò che avviene in quel luogo. «Esercizi spirituali», gli viene detto. Quegli esercizi che Ignazio di Loyola prescriveva di praticare todo modo, «al fine di cercare e trovare la volontà divina». Qui, attirati dal richiamo e dall’imperio di don Gaetano, uomo di cui nessuno sa scorgere il fondo e che Sciascia delinea magistralmente, convergono personaggi in diverso grado potenti, i quali presto si dispongono a recitare il rosario in compatto quadrato, producendo lo schianto di un coro «atterrito e isterico». Ciò che perseguono non è la volontà divina, ma il delitto, un’altra via dove «non ci si può fermare». Se dovessimo indicare una forma romanzesca capace di rivelare come si compone e come si manifesta quell’impasto vischioso del potere che la politica italiana ha avuto per lunghi anni il funesto privilegio di produrre, basterebbe rimandare alle asciutte pagine di Todo modo, alla scansione crudele dei suoi episodi, che solcano come una traccia fosforescente una materia informe, torbida e sinistra, quale nessun altro romanziere italiano aveva saputo affrontare. Non meraviglia dunque che questo libro, pubblicato nel 1974, possa essere letto come una guida alla storia italiana dei venti anni successivi. -
Lo spazio e il tempo nell'arte
Il trattato sull'analisi della spazialità e del tempo nelle opere di arte figurativa, che presentiamo qui nella sua prima traduzione in una lingua occidentale, è un testo-cardine nell'opera di Florenskij, e il suo più importante scritto sull'arte. La novità dell'impostazione apparirà subito evidente: Florenskij colloca le forme visive a un crocevia di discipline - tra cui la matematica, la fisica e la biologia - che integrano sinteticamente l'oggetto artistico tenendo conto delle grandi scoperte e speculazioni della scienza moderna, dalla geometria degli spazi curvi di Gauss e Riemann alla teoria dei quanti. Composto fra il 1924 e il 1925 - nel clima di acceso fervore innovativo che caratterizzò i primi anni della Russia sovietica anche in campo artistico -, e rimasto inedito per quasi settant'anni (in Russia è stato solo di recente pubblicato), esso permette finalmente di chiarire la posizione di Florenskij nel dibattito sull'arte di avanguardia. Il volume propone anche il testo delle lezioni che Florenskij tenne fra il 1923 e il 1924 al VChUTEMAS, la scuola d'arte sperimentale sorta a Mosca nel 1920 con un'impostazione simile al Bauhaus. Qui Florenskij affronta i temi che verranno poi ripresi nel trattato, e nel rivolgersi a un pubblico di studenti li arricchisce di illuminanti spiegazioni ed esempi, sviluppando fra l'altro l'essenziale questione del rapporto fra arte e scienza e in particolare fra arte e topologia. -
Lila. Indagine sulla morale
Il romanzo di una navigazione a vela alla ricerca del significato della qualità, fra una bionda Lila che porta guai e la līlā di Siva, che è «il gioco del mondo». «C’è Lila, questa persona concreta, unica, addormentata accanto a lui, che un giorno era nata e adesso era viva e si agitava nel sonno e tra non molto, come tutti, sarebbe morta; e c’è quest’altra, chiamiamola lila, che è immortale, che temporaneamente abita Lila e poi passerà oltre. La Lila che dorme l’aveva incontrata solo da poche ore. Ma la Lila sempre desta, che non dorme mai, era da tanto che lo seguiva. E lui lei». -
La persuasione e la rettorica. Appendici critiche
Morto suicida a ventitré anni, nel 1910, Michelstaedter aveva concentrato il suo genio precoce su unopera, La persuasione e la rettorica, che, nata come tesi di laurea su questi concetti in Platone e Aristotele, si era poi trasformata in un testo formalmente inclassificabile, dove i due termini del titolo assumono significati del tutto peculiari. «Persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di se stessi, «rettorica» lapparato di parole, di gesti, di istituzioni, con cui viene occultata limpossibilità di giungere alla «persuasione». Opera sconveniente e abbagliante, destinata a una commissione di professori e in realtà protesa a scavalcare il muro della propria epoca, la Persuasione è certo uno dei testi decisivi del pensiero italiano del Novecento. E si può dire che linteresse nei suoi confronti non abbia fatto che crescere, con unimpennata negli ultimi anni, in cui si è assistito alla scoperta di Michelstaedter in molti Paesi che finora lo ignoravano. Mancava tuttavia unedizione filologicamente fondata che riunisse la Persuasione e le sue importantissime e ardue Appendici critiche edizione che ora dobbiamo alle cure di Sergio Campailla. -
La lentezza
Per questo suo primo romanzo in lingua francese Kundera sembra aver sfidato se stesso a raggiungere simultaneamente un estremo di brevità, densità e leggerezza. Sconcertati e incantati, lo seguiamo in una notte di mezza estate dove si intersecano, come in una féerie, due storie di seduzione, separate da più di duecento anni e oscillanti vertiginosamente fra il sublime e lesilarante. Ma questa è solo lintelaiatura di una vicenda che non si lascia raccontare, perché Kundera sembra avervi miniaturizzato una quantità imponente di «temi esistenziali». Primo fra tutti quello della lentezza: una parola di cui scopriremo un senso nuovo, come se non lavessimo mai conosciuta prima. Così, di colpo, ci apparirà evidente che parlare della lentezza significa parlare della memoria e parlare della memoria significa parlare di tutto. La lentezza (1994) è apparso in Francia nel gennaio del 1995. -
Ultimi racconti
«Le storie si raccontano da quando esiste la parola, e priva di storie la razza umana sarebbe perita, come sarebbe perita priva dacqua» - Karen Blixen. Il libro dove la Blixen più si è avvicinata a svelare il suo grande progetto: un romanzo composto di innumerevoli racconti intrecciati. La prima edizione di questi Ultimi racconti è del 1957. -
Dagherrotipi
Karen Blixen, che diceva di se stessa «io sono una cantastorie e nient’altro che una cantastorie», era anche una trascinante conversatrice: ne sono prova questi saggi – o piuttosto divagazioni – spesso scritti per essere letti davanti a una platea, visibile o invisibile, nel corso di conferenze e trasmissioni radiofoniche. Passiamo dall’Africa alla Berlino nazista, descritta in un memorabile reportage (prima e unica esperienza giornalistica della Blixen, interrotta dall’invasione tedesca della Danimarca), o dall’ornitologia ai motti, tema, quest’ultimo, ricchissimo per un essere così naturalmente fedele a una visione aristocratica del mondo. E ogni volta è come se la Blixen estraesse da un cassetto, adagio e con delicatezza, un dagherrotipo e, prendendo spunto da quell’immagine che pochi saprebbero far parlare, ci trasmettesse qualcosa di prezioso appreso un giorno – qualcosa che ora, come un vecchio marinaio, vuole far giungere a noi. I dieci saggi che qui presentiamo coprono un arco cronologico che va dal 1938 al 1959. -
La democrazia diretta
Costretto a rifugiarsi in Svizzera all’indomani della feroce repressione dei moti di Milano del maggio 1898 (i cannoni di Bava Beccaris...), il giovane militante socialista Giuseppe Rensi vi pubblicava nel 1902 la prima edizione di questo libro, che regge benissimo il tempo e sembra riemergere nei momenti più tesi della storia italiana (altre edizioni apparvero nel 1926 e nel 1945). Osservando i caratteri di tre forme di governo (l’antico assolutismo, la monarchia costituzionale e le forme «repubblicane-democratiche moderne»), Rensi si poneva un interrogativo che è rimasto centrale: come impedire che una minoranza organizzata domini sempre una maggioranza disorganizzata? È lo stesso tema che ritroviamo in Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto – e già si delineava in Tocqueville. Come sempre, Rensi è magnifico nell’analisi, nell’enucleare le contraddizioni, nel trarre conseguenze da episodi. E la sua critica, spietata e impassibile nei confronti dell’assolutismo e della monarchia costituzionale, non è meno corrosiva quando si appunta sulla democrazia rappresentativa: proprio per salvarla dai suoi mali cronici Rensi introdusse – con un occhio alla confederazione svizzera – il tema, provocatorio allora come oggi, della democrazia diretta. La democrazia diretta apparve per la prima volta nel 1902 col titolo Gli anciens régimes e la democrazia diretta. Lo riproponiamo qui sulla base dell’edizione del 1926, l’ultima licenziata dall’autore. -
La consolazione
Da molto tempo la filosofia tace – quasi ne fosse imbarazzata – sull’argomento della consolazione, così come trascura ostinatamente la figura del consolatore. Questi temi, tuttavia, benché spinti per comodità nei recessi più appartati, lontani dalla speculazione corrente, hanno continuato a informare occultamente il pensiero, tanto che forse non sarebbe illegittimo «riscrivere la storia della filosofia moderna dal punto di vista della consolazione». Se la vetta più alta della morale è la compassione, in virtù della quale un individuo riconosce se stesso nell’altro e agisce di conseguenza, il consolatore non prova che assoluta indifferenza nei riguardi dell’afflitto. Ma è proprio questa indifferenza a permettere il passaggio dalla compassione alla consolazione: «A me non importa nulla di te, ma solo così ti posso consolare». Al pari del cinico seduttore che, freddo come un rettile, finge l’amore dicendo ed eseguendo esattamente tutto ciò che schiude il cuore, così il consolatore mima la bontà con gesti artefatti. Le parole, le carezze di entrambi sono posticce, di cartapesta, nondimeno assolvono il loro compito, perché «c’è un inganno di cui, primo fra tutti, si rallegra mestamente l’ingannato». In questo libro piccolo e denso, che ha la struttura di un trattatello, il pensiero viene indagato come dai grandi seicenteschi venivano indagate le passioni: nei suoi moti segreti, nella sua miseria e nella sua grandezza. Alla fine del percorso, che attirerà chiunque preferisca i sentieri aspri ai confortevoli itinerari accademici, il consolatore apparirà dunque «un truffatore, ma in senso superiore», e la consolazione si rivelerà come il contrassegno di quell’«età del gesto» preconizzata da Kant in cui, esaurite le risorse dell’agire, non rimarranno che le virtù taumaturgiche della parola. -
Critica della ragione pura
Nella rigorosa traduzione di Giorgio Colli, l’opera fondatrice del pensiero moderno. Questa edizione è l’unica a offrire sinotticamente la prima e la seconda versione della Critica della ragione pura. -
La liberazione in vita (Jivanmuktiviveka)
Lo stato di chi si sottrae alla schiavitù degli opposti fu la mira, da sempre, di molti mistici. In India, di una intera civiltà. Fin dalle origini, attraverso una sequenza di testi che risalgono alle Upanisad, lIndia si è chiesta come si raggiunge la «liberazione in vita», quello stato paradossale in cui ancora si calcano le vie del mondo ma «dentro si è del tutto trasparenti, come il cielo», poiché in realtà si è scomparsi, si è uno spazio vuoto. Con tranquilla audacia e sconcertante ragionevolezza, Vidyaranya lo spiega in questopera per molti versi preziosa, dove viene minuziosamente descritto il cammino spirituale che dallabbandono del mondo la «rinuncia per amore della conoscenza» conduce allintuizione della propria identità con lAssoluto, il brahman, e quindi a uno stato nel quale le passioni, private del loro fascinoso potere coercitivo, divengono innocue «come un serpente a cui siano stati cavati i denti». Ma è possibile spingersi oltre, intraprendere la «rinuncia del sapiente» e, per mezzo di quello yoga già codificato nella sua forma classica da Patañjali, conquistare un potere definitivo sullesperienza, così da eludere anche lapparenza già riconosciuta come tale, e attingere infine la condizione di chi «ha occhi ed è come se non avesse occhi, ha orecchie ed è come se non avesse orecchie, ha una mente ed è come se non avesse una mente, ha la vita ed è come se non avesse vita». Finisce allora per delinearsi una figura sorprendente e irriducibile a ogni presupposto occidentale: quella del «liberato in vita (jivanmukta), colui che si chiama così «perché dal punto di vista della gente comune è vivo e dal suo punto di vista è liberato». Come il suo nome è un ossimoro, così la sua esistenza è una palese contraddizione: da un lato egli risiede nel brahman, nella coscienza non duale e senza limiti, priva dellopacità degli oggetti creata dallignoranza, senza un io né un corpo, dallaltra sembra vivere e comportarsi non dissimilmente dagli altri uomini. -
La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo
E' un viaggio all'interno di un universo che Fumaroli rifiuta di ricondurre alla comoda ma generica etichetta di barocco: le tappe principali sono rappresentate da alcuni grandi, da Guido Reni a Caravaggio a Poussin, ma interessanti appaiono anche le soste di fronte alle incisioni delle scuole di Anversa e di Parigi, agli arazzi dei Gobelins. La loro lettura permette di ricostruire l'intero tessuto culturale del secolo, chiamando in causa tutte le arti e tutti i generi di discorso, dalla poesia frivola di Marino a quella dotta di Urbano VIII, dalle favole di La Fontaine alle ricerche in ambito musicale dettate dalle restrizioni del Concilio di Trento, dai trattati di eloquenza alle raccolte di prediche dei grandi artefici della riscossa cattolica. -
La morte del sole
Il libro con cui si rivelò Sgalambro, filosofo solitario e saturnino. Un'indagine speculativa dove sembra risorgere lo spirito di Schopenhauer, in un paesaggio di cosmiche rovine. -
Lettera a un religioso
«Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia, o più precisamente lo sarebbe senza la distanza che la mia imperfezione pone tra essa e me». Giunta agli ultimi anni della sua vita, Simone Weil volle esporre in una lunga lettera al padre Marie-Alain Couturier i propri convincimenti, per verificarne la compatibilità «con l’appartenenza alla Chiesa». La risposta non arrivò mai, e la Weil rimase fino all’ultimo fedele alla sua «vocazione di essere cristiana al di fuori della Chiesa». Ciò non deve meravigliare: le tesi qui proposte, nella loro cristallina, categorica chiarezza, sono in realtà una sfida alla Chiesa – forse la più alta fra le molte che ha conosciuto in questo secolo. E innanzitutto una sfida alla pretesa ecclesiale di offrire la verità ultima, rispetto alla quale ogni altra è una rudimentale prefigurazione. Non così per la Weil, che trovava in Platone, nella Bhagavad Gita o nel Tao tê ching le stesse verità, compiutamente espresse, che incontrava nei Vangeli. «Ogniqualvolta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Krsna, Buddha, il Tao, ecc., il figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli la luce – e nel migliore dei casi la pienezza della luce – all’interno di tale tradizione». -
L' antidoto della malinconia
Siamo alla fine del Seicento, secolo avventuroso e abbagliante, nonché intriso di umor nero quella «malinconia» che nutre sia i geni sia i suicidi. Gioseffo, erudito eccentrico, persegue il fantasma di unopera intitolata Lantidoto della malinconia e stila lunghe lettere a un cardinale (immagine di ogni potente) che dovrebbe benevolmente proteggerlo. La sua figlioccia, laristocratica Matilde, si incapriccia di un giovane sgradito alla sua famiglia e precipita nel mal damore. I destini di questi due malinconici sono intrecciati e accomunati dallindifferenza con cui il mondo li guarda, al pari dei potenti che «non vedono e non sentono». Intorno, una realtà fosca, intessuta di presagi. A Carnevale, in un tetro palazzo, ha luogo una compunta e grottesca seduta dellAccademia dei Pennuti. Un mostro bicefalo viene esibito nella bottega di un barbiere. Un immane sciame di farfalle compare sulla facciata della cattedrale, lasciando dietro di sé una pozza di sangue. Con il suo tocco sicuro e preciso, Meldini è riuscito a fare della malinconia sostanza di romanzo. Ed è una specifica malinconia da «fine secolo». Che si tratti del Seicento o del nostro non fa grande differenza. -
Alonso e i visionari
Alonso è un piccolo puma dell'Arizona. I ""visionari"""" sono gli esseri che, via via, hanno la ventura di incontrarlo: un illustre professore italiano, ispiratore di terroristi e di altri """"uomini del lutto""""; i suoi figli, uno dei quali votato a una leggendaria clandestinità; un professore americano, che ha la terribile debolezza di voler capire e compatire. Tutti accomunati, nella loro funesta lucidità, da una sorta di pazzia che è come un """"buco nell'azzurro, dal quale entrano il freddo e la cecità degli spazi stellari"""".""