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Lettere e scartafacci (1912-1957)
Nel 1912 uno studente di storia dell’arte appena laureato decide di scrivere una lettera a Bernard Berenson. Lo studente si chiama Roberto Longhi. Nessuno lo conosce. Berenson ha già pubblicato tutto ciò che lo ha reso famoso. È un uomo sulla cinquantina, al colmo dell’attività e della gloria. La lettera è un capolavoro di passione, umiltà, sincerità, improntitudine. Un capolavoro di seduzione. Il giovane spiega a Berenson chi è Berenson, e si offre come suo traduttore. Nasce così un carteggio che durerà cinque anni: un carteggio dallo sviluppo drammatico, non uno scambio di lettere ma un duello, fatto di reciproche incomprensioni ma anche di fulminea capacità di capirsi e di riconoscersi. «Eva contro Eva»: un carteggio tra due primedonne permalose e suscettibili, dove ogni parola educata e civile è un’occhiata di fuoco. Per colmo di complicazione, scoppia la guerra. Il carteggio si tinge di grigioverde e fa nascere una scintilla di affetto come tra padre e figlio. Ma è solo un istante. La storia finisce male. La traduzione non verrà mai fatta, i due non si vedranno e non si scriveranno più. Si ritroveranno nel 1956, in occasione dei novant’anni di Berenson. Longhi ha raggiunto la sessantina. «Non l’avrei riconosciuta» mormora Berenson. L’incontro di due tra i più grandi storici dell’arte di tutti i tempi è durato il tempo di queste lettere. Gli interlocutori si sono annusati quel tanto che è bastato per accorgersi che due orsi non possono vivere nella stessa tana. A ognuno il suo regno. -
Sulla materia della mente
«Siamo all’inizio della rivoluzione delle neuroscienze; alla fine, sapremo come funziona la mente, che cosa governa la nostra natura e in quale modo conosciamo il mondo»: sono le parole ambiziose e ferme che si leggono sulla soglia di questo volume. Di esse tutto si può dire, eccetto che siano infondate: con un’impressionante progressione, a partire dalle ricerche sul sistema immunitario, che gli valsero il Premio Nobel all’età di quarantatré anni, sino alla recente elaborazione degli artefatti Darwin I-IV, e in particolare dell’ultimo, denominato anche NOMAD, Edelman è riuscito a sviluppare una riflessione di vasta portata, forse l’unica che oggi possa pretendere di offrirci una prima sintesi della mente appoggiandosi alle indagini di una dozzina di discipline. E Sulla materia della mente è appunto il libro che finalmente espone e illumina, tentando di conquistare ogni lettore intelligente, lo stato ultimo e più complesso della sua teoria. Come ha scritto Oliver Sacks, «è un libro stupefacente per varietà e ampiezza tematica, che passa dalla filosofia alla biologia alla psicologia alla modellistica neurale e tenta di sintetizzare queste visioni in un tutto unificato». Molta strada rimane ancora da fare – e uno dei pregi di quest’opera è proprio quello di permetterci di misurarla –, ma è indubbio che con la ricerca di Edelman un passo decisivo è stato compiuto nell’impresa, che sembrerebbe ovvia se non fosse la più elusiva, di «reintegrare la mente nella natura». -
La sapienza greca. Eraclito. Vol. 3
«Per Colli il vecchio Eraclito è, se possibile, ancora più enigmatico di quanto abbiano mai creduto i filosofi e dossografi venuti dopo di lui. Eraclito è colui che manifesta il “pathos del nascosto”. Il discorso umano, accettabile come simbolo, è inadeguato a cogliere la realtà. Di qui l’antitetismo delle frasi eraclitee. Ma il nascosto, che non vediamo né tocchiamo, lo portiamo dentro di noi». - Alfredo Giuliani -
In cerca di guai
Come sempre candido e scaltro Twain irride ogni cosa, dal governo centrale ai coyote e ci offre una sequenza di 79 capitoli che sono ciascuno un piccolo romanzo, con la prodigalità di un giocatore di roulette che per una volta è uscito dalla bisca per farsi ripulire. Ogni capitolo è una chiacchierata intorno al fuoco e la somma di queste chiacchiere è un'epopea. Twain ride per sopravvivere, e far sopravvivere, in mezzo agli orrori e allo splendore del West. -
Il riconoscimento di Sakuntala
La storia di Sakuntala è una grande storia d'amore, una vicenda archetipica, che può essere messa accanto a quelle di Tristano e Isotta o di Morgana e Artù. La bellissima Sakuntala è figlia di un asceta e di una ninfa celeste. Di lei s'innamora perdutamente il re Dusyanta che la incontra nella foresta durante una battuta di caccia. Ma alla magia amorosa se ne oppone un'altra, nefasta, legata alla potente maledizione di un asceta. E questa provocherà l'oblio dell'amore in Dusyanta, una separazione dolorosa e insanabile. Eppure alla fine si giungerà al riconoscimento di Sakuntala e la forza del grande amore tornerà ad agire. -
Nuovo commento. Con una lettera inedita di Italo Calvino
Se volessimo dividere in fasi l’opera di Manganelli, il Nuovo commento (1969) apparterrebbe sicuramente a quella che potremmo definire «eroica», in cui lo scrittore, impugnata una lancia istoriata di segni, tentò di raggiungere il luogo da cui sgorgano i segni stessi, vero «pozzo natale e mortale», nonché «sole nero» di ogni scrittura. Presupposto vertiginoso e altamente astratto, da cui però l’arte di Manganelli è riuscita a far scaturire una tensione romanzesca e persino – quale audacia in un tale contesto! – dei personaggi. Sicché alla fine si scoprirà che ciò che leggiamo è un fosco, metafisico dramma, la cronaca di «una qualche continuata, notturna catastrofe». Questo libro rimarrà fra gli esempi più evidenti di ciò che può la letteratura quando si abbandona totalmente al proprio gioco. Appena lesse il manoscritto del Nuovo commento, Italo Calvino indirizzò a Manganelli una lunga lettera, finora inedita, che rimane a tutt’oggi la più densa e illuminante lettura del libro. Manganelli la conservava nella sua copia del Nuovo commento, quasi quel commento al commento appartenesse ormai al testo. La pubblichiamo qui in appendice insieme al risvolto – come sempre prezioso – scritto dall’autore per la prima edizione. -
Pietr il Lettone
Questo libro segna l’atto ufficiale (1931) del commissario Maigret. «La presenza di Maigret al Majestic aveva inevitabilmente qualcosa di ostile. Era come un blocco di granito che l’ambiente rifiutava di assimilare. Non che somigliasse ai poliziotti resi popolari dalle caricature. Non aveva né baffi né scarpe a doppia suola. Portava abiti di lana fine e di buon taglio. Inoltre si radeva ogni mattina e aveva mani curate. Ma la struttura era plebea. Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi. Aveva in particolare un modo tutto suo di piazzarsi in un posto che era talora risultato sgradevole persino a molti colleghi». -
Dalle parti degli infedeli
Era convinzione profonda e ben fondata di Sciascia che fra i caratteri peculiari della sua terra vi fosse una certa «refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana», paradossalmente confermata dalla profusione delle forme di culto religioso. Tesi non popolare perché duramente vera. E capitò a Sciascia di imbattersi, per quella «casualità» in cui alla fine riconosciamo «il solo ordine possibile», in una vicenda – realmente accaduta a un vescovo – che sembrava riproporre in una sequenza di eventi qualcosa di molto affine al giro di pensieri che l’autore era andato a lungo maturando. Si trattava della storia di monsignor Ficarra, vescovo di Patti, che finì in contrasto col Vaticano per la sua scarsa malleabilità politica e anche per l’audacia di certe sue tesi sulla religiosità (e irreligiosità) siciliana. Come sempre in Sciascia, una storia realmente accaduta viene attraversata da una luce che permette di riconoscere con nettezza il dettaglio significativo e trasforma il tutto in un apologo, per dirci sulla Sicilia – e sulle sue oscurità – qualcosa che invano cercheremmo altrove. -
Sul mestiere dello scrittore e sullo stile
Schopenhauer si sentì sempre scrittore non meno che pensatore. Fu uno degli ultimi filosofi che sapessero scrivere in latino, e la sua educazione letteraria era avvenuta sotto l’invisibile tutela dei grandi romantici (nonché di Goethe), che frequentavano il salotto della madre. Soprattutto Schopenhauer ebbe sempre una formidabile vena polemica, che gli faceva scegliere i suoi bersagli non solo nella metafisica ma nella vita corrente. Che la pratica della lingua o il modo di dar forma ai libri si corrompessero e degradassero era per lui un segnale che coinvolgeva il tutto (e così sarà, più tardi, in Karl Kraus). Quei vizi da allora non hanno fatto che dilatarsi, fino ad apparire a molti come la normalità stessa. Salutare controveleno rimane dunque, oggi più che mai, la lettura dei tre trattatelli qui raccolti, che si presentano come una sequenza, insieme garbata e tagliente, di raccomandazioni e suggerimenti per curare le malattie croniche di scrittori, letterati, giornalisti – sovrana applicazione di un solo e irrefragabile principio: «per colui per il quale nulla è cattivo, nulla parimenti è buono». I tre scritti che figurano in questo volume (Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Del leggere e dei libri, Della lingua e delle parole) sono apparsi per la prima volta nell’ambito dei Parerga e paralipomena nel 1851 e vengono qui riproposti autonomamente in virtù della loro forte unità e coerenza tematica. -
La mia filosofia
Nel 1945 un editore inglese propose a Benedetto Croce di comporre un’antologia della sua opera, includendovi testi per lui essenziali che potessero servire a introdurlo in una cultura che fino allora lo conosceva soprattutto per via indiretta. Fu questa, per Croce, una preziosa occasione per ripensarsi – e quasi osservarsi dall’esterno. Giunto «a quell’età in cui la vita trascorsa appare un passato che si abbraccia intero con lo sguardo» – con la malinconia che ciò porta con sé ma anche, aggiungeva, con l’«atroce tristezza» di un «tramonto contornato da stragi e distruzioni» –, Croce seppe mostrare in atto che cosa può essere una franca «critica di se stesso». L’antologia venne consegnata all’editore ma ebbe poi una storia travagliata e non apparve mai nella forma che l’autore aveva auspicato, sicché questa è la sua prima edizione. Volendo innanzitutto tracciare un profilo della «filosofia della libertà», Croce diede all’antologia un’impostazione etico-politica. Così, accanto a un testo celeberrimo e di grande altezza come Perché non possiamo non dirci «cristiani», troveremo qui parecchie note su temi generali, precedentemente apparse sulla «Critica», che oggi per molti lettori suoneranno nuove. -
L' impiccato di Saint-Pholien
«Un primo disegno a penna rappresentava un impiccato che dondolava appeso a una forca sulla quale stava appollaiato un corvo enorme. E l'impiccagione era il leitmotiv di almeno una ventina di opere, a matita, a penna, ad acquaforte. «Degli alberi, al limitare di una foresta, con un impiccato a ogni ramo...Altrove il campanile di una chiesa e, appeso ai due bracci della croce, sotto il gallo, un corpo umano che dondolava...«C'erano impiccati di ogni sorta. Alcuni, vestiti in foggia cinquecentesca, formavano una specie di corte dei miracoli in cui tutti dondolavano a qualche piede da terra...«C'era un impiccato bislacco, in cilindro e marsina, con il bastone da passeggio in mano, la cui forca era un lampione a gas...«Sotto un altro schizzo, alcune righe: quattro versi della Ballata degli impiccati di François Villon». -
L' antica via degli empi
A chiunque si chieda che cosè il male è utile mettere subito in mano il Libro di Giobbe. Il male di cui esso parla assume tutte le forme e anzitutto quella della malattia e della morte. Ma è anche il male che gli uomini commettono, spesso nella convinzione di operare il bene: e forse è proprio di questo male che Giobbe parla. La persecuzione, la vittima, il processo: tutto ciò sarebbe dunque al centro del Libro di Giobbe. Ed è anche al centro, sin da La violenza e il sacro, dellopera di Girard. Non solo: quel centro non è uno dei tanti possibili, ma il centro necessario, ineludibile di ogni pensiero. Esso coincide con una figura: il capro espiatorio, e Giobbe sarebbe appunto il capro espiatorio che più si avvicina alla propria verità. Sotto questo profilo, è illuminante osservarlo sempre in contrappunto a un altro capro espiatorio: Edipo. Ma occorre anche mettere Giobbe in rapporto con fatti dei quali i moderni detengono il triste privilegio, come i processi totalitari. Che altro sono, infatti, i Dialoghi fra Giobbe e coloro che si presentano come suoi «amici» se non il modello di ogni processo in cui limputato è già condannato in partenza? Incontrando Giobbe, Girard ha trovato la figura più vicina al cuore di tutto ciò che è andato scrivendo. Il suo pensiero sembra allora addensarsi al massimo e al tempo stesso cercare formulazioni di una chiarezza ultima, indubitabile. «Ci sono due verità in senso relativo, nel senso del relativismo e del prospettivismo, ma cè una sola verità in rapporto alla conoscenza, ed è la verità della vittima». E alla verità della vittima è dedicata Lantica via degli empi. Questo libro è apparso per la prima volta nel 1985. -
Il contesto. Una parodia
Racconta Sciascia che cominciò a scrivere questo romanzo come un «divertimento» – e presto gli si trasformò fra le mani in qualcosa di terribilmente serio. In un paese non nominato eppure a noi tutti familiare, una successione di assassinii e di funerali ufficiali scandisce la vita pubblica. Con assoluta chiarezza, ma su un fondo tenebroso, si disegna in questa storia la fisionomia di un anonimo protagonista, quel potere che – nelle parole di Sciascia – «sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa». Il contesto apparve nel 1971 (ma fu scritto prima dell’omicidio Scaglione, tenne a precisare Sciascia) e venne accolto dalla critica con malcelato imbarazzo. Oggi riconosciamo in esso il primo rendiconto sobrio e veritiero di un’Italia da cui pare che nessuno sappia come uscire. -
Orazione ai nobili di Lucca
«Vedevansi qui alcuni nobili ... non solamente salire i gradi de’ magistrati e degli onori, ma aver in dispregio gli inferiori, come non fussero nati del ventre di questa madre commune, e con ingiusto arbitrio dominarli e venire a tanto d’insolenzia che, non bastando loro gli onori e lo imperio sopra li meno ricchi e gli più deboli, volevano ancora godersi, anzi usurparsi, il patrimonio publico con mille sconci interessi e mille aperte rubberie e quasi come fusse eredità lasciata da’ padri e dagli avi loro, di concordia se l’avevan diviso e se lo possedeano...». Si leggono queste parole e – a parte il vigore e l’articolazione impeccabile della lingua, che non sono consueti sui nostri giornali – si pensa di leggere una cronaca odierna. Invece è Giovanni Guidiccioni, umanista, che introduce il racconto di una violenta sollevazione popolare a Lucca, nel 1531, contro una oligarchia ormai infetta, che taglieggiava i ceti inferiori. Questo testo vibrante, che appartiene al «canone ristretto delle eccellenti orazioni politiche cinquecentesche», fu pubblicato nel 1945 da un grande italianista, Carlo Dionisotti, con un preciso riferimento agli avvenimenti di allora: «Leggere del resto non si può più, in tanto precipizio delle cose nostre e di noi stessi, persone e pensieri coinvolti oggi in una prova estrema, se non quel che incide e assicura di un appiglio immediato». Oggi, in un altro «precipizio delle cose», l’orazione del Guidiccioni ci viene incontro di nuovo, perché i vizi della storia e dell’Italia sono pertinaci e ricorrenti. -
Il gatto in noi
Sarà probabilmente una sorpresa per molti scoprire che William Burroughs, l’efferato cantore di saghe che si svolgono in terre di mutanti e in cui l’umanità è una sopravvivenza arcaica, ha anche scritto uno dei più delicati e percettivi libretti che conosciamo sui gatti – anzi, più precisamente, sul gatto come «compagno psichico». Gatti bianchi, gatti arancioni, gatti persiani; gatti amati, gatti di strada; gatti soprannaturali come piccoli dèi del focolare; creature con un che di felino, un che di umano e un che di «ancora inimmaginabile», frutto di unioni arcane e lontanissime che l’autore si sente chiamato a rievocare e a proteggere come un benefico Guardiano: sono questi i protagonisti a cui Burroughs dà la parola. La sua voce diventa piana, pur mantenendo una vibrazione inquietante. E l’affinità immediata fra l’autore e questi esseri appare palese, ancor più di quella con altri suoi personaggi. Le storie, le osservazioni, hanno una naturalezza carica di intensità, forse perché in queste pagine Burroughs ha nascosto «un’allegoria», visitando il suo passato come una «sciarada gattesca». -
Le gesta del Buddha (Buddhacarita. Canti I-XIV)
«Io non farò ritorno nella città che ha nome da Kapila senza aver visto l’altra sponda della vita e della morte». Il cammino del Buddha: la nascita, l’infanzia e la giovinezza, felici e protette; la scoperta del mondo e del dolore; la ricerca della liberazione; il risveglio. La presente edizione del Buddhacarita, a cura di Alessandro Passi, è la prima che si tenta in Italia dopo quella pubblicata all’inizio del Novecento, e ormai datata, di Carlo Formichi. -
Un bambino
Bernhard scrisse per ultima questa parte dell’autobiografia che racconta i suoi primi anni, fino all’entrata nel collegio di Salisburgo. Ed è come se, tornando alle radici di angosce e orrori, egli raggiungesse uno stato di euforia, di leggerezza, di primordiale scoperta, altre volte celato o piegato alla lotta feroce con il mondo circostante. Qui tutto comincia con un bambino di otto anni che si getta in una sfrenata spedizione in bicicletta. «Sarebbe stato del tutto contrario alla mia natura scendere dalla bicicletta dopo qualche giro; come tutte le imprese che iniziavo, anche questa la spingevo fino all’estremo». In questo bambino che si lancia con la bicicletta fino all’estremo c’è già tutto Bernhard. Ma in una versione più ariosa, di elementare felicità. Aspetto che ritroveremo anche nei ritratti mirabilmente nitidi del nonno, della madre e degli amici d’infanzia. Tutte le torture che il mondo tiene in serbo già si intravedono, si presagiscono o irrompono sulla scena (siamo negli anni del nazismo e della guerra) – ma anche, con grande naturalezza, l’irresistibile meraviglia del bambino davanti a una tazza di cioccolata calda, quando i nonni lo portano con loro nel vasto mondo, a pochi chilometri da casa. -
Il rumore sottile della prosa
Quasi una prosecuzione ideale di La letteratura come menzogna, questa raccolta che comprende testi scritti fra il 1967 e il 1990, costituisce un corpus poderoso. Spartito negli ""eventi sostanzialmente teatrali"""" dello scrivere, del recensire e del leggere, il volume rappresenta una vera summa della visione dell'autore che cerca di rispondere alla domanda insieme """"buffa e sconvolgente"""" circa le motivazioni della scrittura, che si interroga sui classici e sulle avanguardie, che bizantineggia sulla censura e sulla stroncatura, che indaga insomma sistematicamente non solo il reame della letteratura, ma quello assai più vasto della parola."" -
Opere
Esponente di punta dellavanguardia scapigliata, raro esemplare di aristocratico dandysmo, raffinato pasticheur dalla verve inesausta erede della grande tradizione portiana e nel contempo aperto alla cultura europea , Carlo Dossi (1849-1910) fu uno scrittore irrimediabilmente troppo avanti rispetto al gusto letterario della società in cui gli toccò di vivere. E proprio a causa di questa sua estraneità alla greve Italia post-risorgimentale è stato a lungo ignorato. Ora, definitivamente uscito dalla clandestinità, ci appare, fra i nostri scrittori di quegli anni, quello che ha cavalcato con più leggerezza londa del tempo, il più vicino alla nostra sensibilità in altre parole, il più ricco di futuro (si pensi solo allespressionismo gaddiano). Curato da Dante Isella, questo volume, che si presenta come un lungamente atteso «Tutto Dossi», propone in unedizione filologicamente ineccepibile fondata su un capillare esame della tradizione manoscritta e a stampa non soltanto scritti ormai noti (come LAltrieri, la Vita di Alberto Pisani, Goccie dinchiostro, La Desinenza in A o Amori) ai quali già Isella aveva riservato fervide cure, ma anche un fascio di testi più rari, che non mancheranno di suscitare, al pari degli altri, fedeli passioni. Le ampie ed esaurienti Note ai testi di Isella forniranno al lettore una guida sicura, consentendogli di ripercorrere le vicende di ogni singolo testo e di penetrare nellofficina di questo solitario discendente di Sterne e Jean Paul. -
Il libro dell'orologio a polvere
Junger, anziché fuggire il tempo, lo ha sempre indagato con amorosa pazienza. Per catturare l'essere imprendibile per eccellenza egli ha avuto l'accortezza di scegliere non già la via della pura speculazione ma quella della divagazione, alla maniera dei grandi eruditi seicenteschi. Così al centro ha posto un oggetto, l'orologio a polvere, e intorno a esso, con giri sempre più larghi, ha spinto la sua analisi a investire i diversi modi di vivere il tempo che hanno scandito il corso della civiltà. Dalla clessidra all'orologio meccanico, attraverso la storia di questi oggetti, attraverso il succedersi di queste concezioni, una lunga vicenda ci conduce fino a oggi, e ci fa capire alcuni presupposti taciuti della nostra esistenza.