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Monsieur Proust
“Quando Marcel Proust morì, già celebre nel mondo, nel 1922, molti si precipitarono da colei ch’egli chiamava la sua «cara Céleste», per ottenerne la testimonianza, i ricordi. Molti sapevano che solo lei (per essergli vissuta accanto negli otto decisivi anni della sua esistenza) deteneva verità essenziali sulla persona, sul passato, sugli amori, sullo sguardo sul mondo, sul pensiero, sull’opera di quel grande, geniale infermo. Quelle stesse persone non ignoravano che, per ore e ore, tutte le notti – notti che erano il giorno per quell’uomo –, Céleste Albaret aveva avuto l’eccezionale privilegio di sentirlo raccontar di sé sul filo della memoria, e raccontare le serate da cui tornava, e mimare e ridere come un fanciullo e tracciare già ad alta voce questo o quel capitolo dei suoi libri. Céleste era il testimone principe, il centro di tutto. Ma per cinquant’anni rifiutò di parlare. La sua vita, diceva, se n’era andata con Monsieur Proust. E come lui s’era costretto, in volontaria reclusione, nella propria opera, così lei ormai voleva vivere da reclusa nella sua memoria. Soltanto così lui sarebbe rimasto il magnifico monarca dello spirito e il mostro di tirannia e di bontà ch’ella aveva, come oggi dice, «amato, subìto, assaporato». Tentare di render tutto questo – e di renderlo malamente, come temeva – avrebbe significato tradirlo. Se ora, a ottantadue anni, ha mutato parere è perché ha ritenuto che altri, meno scrupolosi, avessero tradito Marcel Proust, sia perché non disponevano delle sue fonti di verità, sia per eccesso di fantasia o per la tentazione di erigere a tesi le loro piccole, «interessanti» (o interessate) ipotesi. Quanto a me, affermo che non avrei accettato di farmi l’eco di Madame Albaret se dopo alcune settimane – sui cinque mesi che durarono le nostre conversazioni – non mi fossi convinto della sua assoluta sincerità. Poiché questo libro urterà molti preconcetti e susciterà numerosi malumori, volevo esser assolutamente certo di non prestarmi a un altro genere di tradimento: quello, come ho detto un giorno a Madame Albaret, di erigere un’icona.” (Dall’introduzione di Georges Belmont) -
Vita di una donna licenziosa
«""Una bella donna è un'ascia che tronca la vita"""" dicevano gli antichi. È naturale che prima o poi il corpo sfiorisca e diventi secco come legna da ardere. Molti sono però gli stolti che si lasciano travolgere dal turbine delle passioni e si consumano anzitempo fino a morirne. Questa specie di uomini, purtroppo, è dura a estinguersi». Così inizia Vita di una donna licenziosa, uno dei più celebrati romanzi galanti (i k?shokubon) di Ihara Saikaku (1642-1693). «In questo testo k?shoku indica erotismo e sensualità,» scrive Ivan Morris «del tutto privi degli aspetti romantici o sentimentali dell'amore. Il libro descrive infatti la progressiva degradazione della protagonista nella sua ricerca del piacere sessuale e per vivere dal punto di vista economico come donna sola nella dura società feudale del suo tempo. Oltre a una natura altamente erotica, l'eroina è dotata di notevole bellezza fisica, e il suo ambiente naturale è rappresentato dai quartieri di piacere, all'interno dei quali si svolge la maggior parte della vicenda. La vita della cortigiana è descritta con perfetto realismo, e si rivela come un'esistenza dura, spietata, dominata dalla ricerca del denaro, in cui il desiderio sensuale raramente lascia il posto alla tenerezza. Quando, con l'avanzare dell'età, la bellezza comincia a sfiorire, la protagonista sprofonda nelle zone più sordide del commercio sessuale, per diventare alla fine una comune prostituta di strada. In questo romanzo Saikaku evoca dunque l'aspetto oscuro e nefasto del k?shoku». E il finale del romanzo è implicito nel suo inizio, essendo la stessa eroina, ormai vecchia e isolata dal mondo, a narrare la sua storia straordinaria, con indomita e non spenta passione, ai due giovani recatisi nel suo romitaggio per apprendere le arti dell'amore. E così si congeda da loro: «Sono una donna sola, perché dovrei nascondervi qualcosa? Questo mio corpo durerà il tempo sufficiente perché il loto del mio cuore si schiuda e appassisca. Mi sono abbandonata alla corrente, ma il mio cuore non ne è stato intorbidato»."" -
La notte del Getsemani. Saggio sulla filosofia di Pascal
«Bisogna sempre ricordare che Pascal non ha scelto il proprio destino, ma è stato scelto dal destino. Pascal, glorificando la crudeltà e l’implacabilità, glorificava Dio stesso, quel Dio che lo aveva sottoposto – al pari di Giobbe – a prove inaudite. E anche tessendo le lodi di ciò che è “incongruente”, celebrava egualmente Dio, che lo aveva privato della consolazione di confidare nella ragione. E quando riponeva tutte le sue speranze nell’“impossibile”, solo Dio poteva ispirargli una simile follia. Ricordiamo d’altronde quel che fu la sua vita. I suoi biografi ci dicono che, sebbene dal 1647 alla sua morte siano trascorsi quasi quindici anni, le malattie e le incessanti sofferenze gli concessero rari intervalli, di un sopportabile languore, in cui non era del tutto incapace di lavorare. Sua sorella racconta: “Talvolta ci diceva di non aver mai trascorso, dai diciotto anni in avanti, un sol giorno senza soffrire”. Anche la prefazione di Port-Royal ai suoi Pensieri testimonia: “Durante tutta la sua esistenza, le malattie non l’hanno quasi mai lasciato un giorno senza dolore”». -
Il complotto dell'arte
«Tutta la duplicità dell'arte contemporanea sta proprio in questo: rivendicare la nullità, l'insignificanza, il nonsenso, mirare alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante. Aspirare alla superficialità in termini superficiali». Con uno scritto di Sylvère Lotringer. -
Vita di Buddha
«Il sole non era ancora tramontato quando M?ra venne sconfitto. Buddha rimase seduto sotto l'albero della sapienza. A poco a poco, nel corso della notte, l'illuminazione da lui cercata cominciò a farsi strada nel suo cuore; nella decima ora, egli percepì l'esatta condizione di tutti gli esseri che sono esistiti nei mondi eterni e infiniti; nella ventesima raggiunse la percezione divina, grazie alla quale tutte le cose, vicine e lontane, appaiono come se fossero a portata di mano. Poi ottenne la conoscenza che spiega le cause del ripetersi delle esistenze; poi i privilegi delle quattro Vie e il loro godimento; allo spuntare del giorno egli divenne un Buddha supremo, il perfetto illuminato. Allora raggi di sei colori si propagarono in lungo e in largo dal suo corpo splendente, penetrando nei più lontani recessi dello spazio per annunciare il raggiungimento dello stato di Buddha. Neppure centomila lingue potrebbero descrivere i prodigi che subito dopo si manifestarono». -
Il proletariato volante
“Seppur esaltando il pensiero razionale e materialista, Majakovskij con Il proletariato volante offre al lettore la possibilità di essere proiettato in un vero e proprio sogno ad occhi aperti e di poter volare e vivere nello spazio ancor prima che questo accadesse realmente. Il futurista russo, suggestionato dal mito del volo e da quello della guerra combattuta nello spazio cosmico, al di là della grande illusione del comunismo, lancia al mondo con i suoi versi un messaggio ancora oggi estremamente attuale: non esiste una ideologia dominante in sé e per sé, né devono sussistere barriere dottrinarie o confini. I veri valori su cui si deve basare la società moderna sono la libertà, la solidarietà, l’uguaglianza e la fratellanza universale. La pace tra i popoli è la sola via verso la modernità fondata sulle conquiste del progresso dell’umanità intera.” (Guido Andrea Pautasso) -
Beethoven
Le intense suggestioni derivanti da una frequentazione, durata oltre vent’anni, del Beethoven uomo e compositore segnarono in profondità l’anima di Grillparzer (1791-1872), il grande poeta e drammaturgo austriaco. Nel corpus di scritti su Beethoven (memorie, orazioni funebri, liriche, epigrammi, pagine di diario, saggi) appare con evidenza l’ammirazione devota di Grillparzer per il genio beethoveniano, ma anche la sofferta diffidenza verso una potenza compositiva che rischiava di trascinare l’arte musicale verso strade pericolose per la sua stessa esistenza. Le pagine di Grillparzer su Beethoven, oltre a contenere intuizioni, spesso fulminanti, sull’uomo e l’artista, rappresentano dunque un contributo decisivo al dibattito musicale che investì un’intera generazione. -
Apocalisse di Giovanni. Testo latino a fronte
“L’’Apocalisse’ è l’opera di un Sene: dopo grandi vecchi quali i Profeti e Lao-Tze e Pitagora, il più bianco tra tutti Giovanni, il Vangelista del Logos, che relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, nel giorno del Signore ha e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza: intorno a roghi asiatici leva un colore di mattino da restare eterno sulle mura della Città dalle porte spalancate ov’egli non vide alcun tempio «perché il Signore Iddio onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio». In essa un fiume d’acqua viva scaturisce dal trono di Dio. «E chi ha sete, venga; e chi vuole prenda dell’acqua della vita gratuitamente».” (Dalla postfazione di Massimo Bontempelli) -
Una notte con Amleto e altre poesie
«Il precario e l’irripetibile sono le certezze assiali, le leggi maggiori del nostro vivere. L’implacabile determinismo che ci governa fa dell’esistenza un castigo inflitto già prima della colpa, una condanna senza riscatto. La storia è per Holan un costante deturpamento della verginità e della purezza. Sciuparsi della purezza, lenta degradazione dal ventre alla bara, e agguati e inganni e stupri e violenze e assassinii: ecco il tetro iter degli uomini. Ma v’è qualche barlume consolatorio nelle pieghe d’un tale universo? Solo l’affetto materno e il candore dell’irrevocabile infanzia». Così scrive Angelo Maria Ripellino nella presentazione della sua traduzione di “Una notte con Amleto”, il capolavoro di Vladimír Holan (1905-1980), uno dei massimi poeti del Novecento. -
Israele e Palestina
«Qualora si interpreti il concetto di Sion semplicemente come una delle tante idee nazionali, non si può comprenderne il vero significato. Noi parliamo di idea nazionale quando un popolo fa oggetto della sua consapevolezza e pone a base della sua volontà la sua unità, la sua coesione interna, il suo carattere storico, le sue tradizioni, le sue origini, i suoi sviluppi, il suo destino e la sua vocazione. In questo senso l’idea sionistica del popolo giudaico nella nostra epoca è da considerarsi come un’idea nazionale. Ma è proprio la sua essenza che la differenzia da tutte le altre. È indicativo a tal riguardo che questa idea nazionale abbia preso il nome non, come le altre, da un popolo, ma da un luogo. Il che rivela chiaramente che qui non si tratta tanto di un popolo quanto del suo legame con una terra, cioè con la sua Terra patria». -
Lettere
Tre giovani problematiche donne, un fratello dall’esistenza e dalla bellezza inquietanti. Il padre al centro. Silenzioso tesse le trame delle loro vite, trame che nelle lettere si allentano, si disfano per ridisegnare un’immagine diversa del gruppo, dei rapporti ora morbosi, ora possessivi che ne legano i componenti la cui storia non è ancora stata scritta. Le lettere ne sono il primo tassello. -
Teoria della natura
“L’uomo che ha visto schiudersi dinnanzi a sé le porte della vita – Wolfgang Goethe – e ha fatto scostare dinnanzi al suo incedere uomini e cose, è stato infine fermato, nell’autunno della sua esistenza trionfante, da solide barriere. La parte più seria del suo operare, l’indagine della natura, è stata per lui – come vuole la giustizia della vita – la più avara di successo. Uno dei grandi organismi della storia umana, la scienza moderna, aveva preso un’altra direzione, e il suo corpo era ormai troppo poderoso per poter essere sovvertita da un grande individuo. Per Goethe la natura è vivente e divina, per la scienza moderna è morta, o comunque inferiore all’uomo: qui sta la frattura. Nei due casi si guarda ai fenomeni con occhio diverso. Da un lato, l’oggetto cui ci si rivolge è res extensa, pura quantità, o comunque una selvaggina da catturare, uno strumento da forgiare secondo l’utilità dell’uomo, da interpretare secondo un finalismo terreno, un problema per l’intelletto, una catena di cause ed effetti; dall’altro, la natura è – spinozianamente – la divinità, l’oggetto limitato contiene, alla maniera rinascimentale, l’infinito, e ogni cosa è, come già pensavano i greci, un’individualità essenziale.” (Dallo scritto di Giorgio Colli) -
Il crepuscolo celtico
«Come ogni artista, ho desiderato creare un piccolo mondo dalle cose amabili, belle, essenziali di questo mondo imperfetto e informe, e offrire così una visione del volto dell’Irlanda a quelli della mia gente che accettino di volgere lo sguardo dove io indico. Per questo ho trascritto con cura e candore gran parte di quel che ho udito e visto non aggiungendo altro che fosse frutto della mia immaginazione, se non sotto la veste del commento. Non mi sono comunque preso cura alcuna di distinguere tra le mie credenze e quelle popolari, ma ho piuttosto lasciato che i miei uomini e le mie donne, i folletti e gli esseri fatati, continuassero ad andare per la loro strada senza essere toccati né da critica né da difesa. Le cose che un uomo ha udito e visto sono i fili che intessono la vita, e se questi li districa delicatamente dall’aggrovigliata conocchia della memoria, chiunque lo desideri può intesserli e rivestirne le idee che più gli aggradano. Anch’io mi sono tessuto il mio abito, così come altri, e cercherò di tenermici caldo, ben felice se non mi farà sfigurare». -
Mattinate fiorentine
«Una guida per chi viaggia in Italia: ecco quanto, nei limiti del possibile, mi viene imposto dal dovere inerente al mio insegnamento in Oxford, quale necessario completamento al corso delle mie lezioni. Se un amico mi chiedesse quali cose si debbano vedere e studiare di preferenza a Firenze, in un limitato lasso di tempo, gli scriverei esattamente le lettere che qui seguono da presso; lettere o “lezioni” che spero possano risultare utili a chiunque le legga nei luoghi che in esse sono descritti e dinanzi alle pitture in esse commentate». -
Cemento
Per scrivere il suo studio su Mendelssohn Bartholdy, il narratore, Rudolf, ha bisogno di essere a casa propria, in campagna. Ha dunque atteso con impazienza la partenza della sorella, venuta a trascorrere qualche giorno con lui. Ma non era stato forse lui a invitarla, proprio perché non riusciva a mettersi al lavoro? Così, dopo la sua partenza, Rudolf non riesce ugualmente a scrivere. Avverte dovunque la presenza invadente di lei, sente il suo discorso protettivo, ironico, provocatorio... Ancora una volta Thomas Bernhard ha costruito una macchina che funziona alla perfezione, l’implacabile radiografia di un’ossessione: impossibilità di essere solo e di non esserlo, impossibilità di scrivere e di rinunciare a scrivere. Rudolf, tuttavia, penserà di sfuggirle intraprendendo un viaggio. Ma il suo soggiorno a Palma, in un hotel che conosce bene, non farà che rianimare in lui il ricordo di un dramma di cui è stato testimone anni prima: un suicidio, un fatto di cronaca di desolante banalità, cioè di atrocità quotidiana. È raro, nell’opera di Bernhard, vedere il racconto oltrepassare i limiti di un mondo chiuso per aprirsi all’esterno. Ma l’apertura non è che illusione, poiché non fa che rimandare colui che aveva creduto nella possibilità della fuga alla sua angoscia più profonda. -
Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo
“I tre saggi contenuti in questo volume costituiscono una tappa sulla via della comprensione antropoanalitica delle forme schizofreniche di esistenza e del loro andamento esistenziale. […] Le nostre ricerche si occupano esclusivamente della struttura ontica, effettiva, di determinate forme e di determinati sviluppi dell’esistenza. Siccome la pluralità di strutture delle possibilità d’essere dell’esistenza può essere anche designata con l’espressione francese condition humaine, anche per il lettore che non ha una preparazione filosofica sarà chiaro fin dall’inizio che i nostri temi, le nostre ricerche, concernono l’uomo puramente in quanto uomo. Così, come vedremo, l’esaltazione fissata, la stramberia, il manierismo si rivelano minacce di ordine generale incombenti sull’uomo, minacce immanenti. Perciò l’esaltazione fissata, la stramberia, il manierismo non vengono giudicati in senso medico-psichiatrico, come «minorazioni» patologiche, «deviazioni» morbose o «sintomi». Vengono bensì considerati come forme di fallimento, di mancata riuscita dell’esistenza umana.” (Dalla prefazione di Ludwig Binswanger) -
Le tentazioni di Sant'Antonio
«Passando attraverso le diverse esperienze della conoscenza e della scienza, Florenskij approda progressivamente ai fondamenti spirituali della sapienza e della mistica cristiana, che egli esplora anche attraverso l’esperienza vissuta dai primi Padri del deserto, evocata dalle testimonianze e dai loro scritti ascetici. La verace esperienza spirituale vissuta da Antonio, padre di tutti i monaci e modello originario dell’ascesi cristiana, viene riproposta dal filosofo russo salvandola dal baratro nichilista verso il quale la sospinge il celebre romanzo di Flaubert, ma anche da ogni deriva positivista e laicista. Già a partire dalla figura di Antonio il monachesimo appare come attraversato da quelle luci e ombre che animano e scuotono il mondo, ma sempre nella costante tensione antinomica tra attesa e compimento, memoria e profezia. Antonio lascia trasparire, nella sua estrema nudità, la cifra segreta che lo inabita, l’eschaton verso il quale è perennemente rivolto.» (dallo scritto di Natalino Valentini) -
Metafisica della sessualità
«Ogni innamoramento, per quanto etereo possa apparire, è radicato esclusivamente nell’istinto sessuale, anzi non è nient’altro che istinto sessuale più determinato, più specializzato, meglio individuato, nel senso più rigoroso del termine. Attenendoci rigorosamente a questa prospettiva, consideriamo ora il ruolo importante che l’amore sessuale, in tutte le sue gradazioni e sfumature, svolge non solo nel teatro e nei romanzi, ma anche nel mondo reale, dove esso, insieme con l’amore per la vita, appare come il più potente e il più attivo di tutti gli impulsi: lo vediamo continuare ad accaparrarsi la metà delle forze e dei pensieri della parte più giovane dell’umanità, essere il fine ultimo di quasi tutti gli sforzi umani, esercitare un’influenza negativa sugli affari più importanti, interrompere continuamente le occupazioni più serie, talvolta confondere, per qualche tempo, perfino le menti superiori, distruggere le relazioni più preziose, rompere i legami più stabili, strappare alla propria vittima talvolta la vita oppure la salute, talaltra la ricchezza, il rango e la felicità, o rendere addirittura privo di scrupoli un animo altrimenti onesto e fare di un uomo fedele un traditore, presentarsi insomma come un demone nemico, che si propone di trasformare, di confondere e di capovolgere tutto». -
Elogio della quiete
«Apro dunque con tristezza la finestra per mitigare almeno un poco la malinconia del viaggio e contemplo il tenue chiarore della luna dopo il crepuscolo, e il Fiume d’Argento in mezzo al cielo e il vivido bagliore delle stelle, ma l’animo mi manca e le viscere mi si straziano per la tristezza quando odo il fragoroso frangersi dei marosi che si avventano dall’alto mare contro gli scogli: non riesco a riposare sul mio guanciale d’erba e di continuo bagno senza un motivo preciso le maniche della mia veste (tinta) d’inchiostro». -
La malattia mortale
“In un bilancio dell’attività letteraria svolta nel 1848, Kierkegaard dichiara che ‘La malattia mortale’ «è certamente la cosa più perfetta e più vera ch’io abbia scritta» e la sua pubblicazione, come la scelta dello pseudonimo, gli procurò pene di spirito senza numero. Dalle indicazioni lasciate nelle Carte inedite sappiamo che nel suo primo abbozzo l’opera era stata concepita in forma di una serie di «Discorsi edificanti» (i ‘Talers Form’) e riuscì invece il trattato più teoreticamente teso e organicamente costruito della teologia kierkegaardiana. […] Si può ben dire che nessuno scritto dà, più di questo, il timbro profondo della sua anima e l’esatta impressione del suo potere di scavare i recessi più impervi dello spirito. Possiamo senz’altro dire che con ‘La malattia mortale’ si compie una nuova crisi definitiva nell’opera kierkegaardiana, che raggiunge la compiuta forma della sua maturità e positività.” (Dallo scritto di Cornelio Fabro)