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Enciclopedia Einaudi. Vol. 12: Ricerca-Socializzazione.
Quale significato può avere nel quadro generale della cultura oggi una nuova Enciclopedia? In generale le enciclopedie riflettono un momento o l’altro della vita culturale: quello della perfetta stabilità del sapere, della certezza intellettuale, della convinzione che una vetta è stata raggiunta – e questo è il caso, per esempio, del contesto in cui nasce l’Enciclopedia Treccani: attorno a un gruppo di studiosi convinti che l’idealismo consenta non una ma l’organizzazione del sapere, oppure, sebbene lungo linee differenti, è il caso di altre enciclopedie, come la Britannica o la Sovietica -, e l’altro momento di un sapere mutante, in crisi, come suol dirsi comunemente, di una cultura che si cerca, di una società che vede emergere nuovi valori. È questo il caso del quadro generale in cui nasce l’enciclopedia settecentesca. Ciò premesso, sarà piú facile indicare il senso di questa nostra impresa. L’ultimo mezzo secolo, e con particolare accelerazione gli ultimi venticinque anni, hanno mostrato una notevole tendenza nel panorama della cultura mondiale a rivedere, rimuovere, cambiare. Hanno modificato sostanzialmente le categorie interpretative, il contesto esplicativo, il valore delle interpretazioni, il ruolo dei «fatti». E, ancora, hanno aumentato la divaricazione delle specializzazioni, approfondendo le analisi nei singoli campi dello scibile, ma perdendo di vista le connessioni concettuali, la rete dei legami che rende complesso e vitale il tessuto del sapere. A noi è sembrato che un’enciclopedia debba costituire, oggi, il punto di convergenza di questo vasto sommovimento ed esprimere non già una summa del sapere ma l’intreccio delle strade che la ricerca contemporanea sta seguendo, le strutture organizzative, e – soprattutto – le possibilità del domani. Non una summa , dunque, ma neppure un digest del sapere. Piuttosto, forse non è velleitario mirare a una sorta di individuazione critica dei momenti di incrocio delle diverse problematiche, ritenendo questi momenti capaci di costituire un discorso coerente -non definitivo – in sviluppo, animatore del sapere attuale. Tuttavia, il perché, i perché, della nostra Enciclopedia appariranno ancora nel trattare il come dell’Enciclopedia. Un’enciclopedia che lasci cadere deliberatamente – e senza nessuna concessione di nessuna sorta e per nessuna ragione – tutto quanto vi è di nozionistico nel sapere, e che invece concentri la sua attenzione sugli elementi portanti e importanti del discorso culturale quale si è venuto organizzando nell’ultimo mezzo secolo, comporta, in breve, la scelta di due tipi di voci. Il primo tipo comprende quelle che designano concetti in grado di organizzare il sapere ed il vivere dell’uomo nella sua globalità e che, pur nelle successive definizioni, continuano a focalizzare problemi di grande ampiezza (per esempio: sistema ). Il secondo tipo è costituito, per un verso, da voci che, pur emergendo da una singola disciplina, abbiano influito profondamente sulle strutture delle altre discipline, e in generale sulla struttura della comprensione della realtà (per esempio: relatività ); per l’altro verso, da voci che, sulla base di una valutazione consapevole, siano in grado di incidere radicalmente sullo stesso approccio globale alla disciplina, e quindi di riverberarsi su altre sfere della conoscenza (per esempio: approssimazione... -
Storia di Roma. Vol. 1: Roma in Italia.
La storia di Roma ha cristallizzato intorno alla forma di una città antica, delle sue istituzioni e poi del suo impero, la più lunga continuità politica che l'Europa abbia mai sperimentato.Il primo volume, Roma in Italia , si apre con un colpo d’occhio sulle condizioni della penisola ancor prima degli inizi del millennio: una geografia storica dell’Italia preromana e protoromana, consentita dalla nuova ricerca archeologica e da una valutazione migliore e piu equilibrata del patrimonio etnografico conservato nella tradizione antica. L’attenzione si concentra poi sul Lazio e sulle vicende che portarono alla fondazione di Roma, considerata anche come il punto d’arrivo di un lungo percorso precedente, e non soltanto come l’inizio di una nuova storia: il costituirsi materiale e culturale di uno spazio «urbano», la produzione, la rete degli scambi, la terra, i rapporti di parentela. E insieme, l’aristocrazia arcaica, le forme di dipendenza, la politica e le prime spinte espansive, le figure dei re. In risalto le relazioni con gli Etruschi, le comunità latine, i Greci del Sud, e i punti forti della cultura cittadina delle origini: l’esperienza magico-religiosa, il sapere giuridico dei pontefici. Infine, dopo la città serviana e gli anni dei Tarquinii, la svolta repubblicana: la «crisi» e le difficoltà del v secolo; le nuove prospettive del IV. -
Il bisonte bianco
I nostri anni stentano a produrre miti di significativa grandezza, ma ne fanno un grande consumo. Tra i luoghi mitici, recenti ma indispensabili, c’è il West americano, dove tutte le avventure ridiventano possibili e dove sembrano trovare una spettacolare reincarnazione temi classici quali quelli dell’eroe, della vergine e della bestia. Animale mitico per eccellenza è il bisonte, moderno Minotauro delle praterie… Questa onnipresenza del mito, oggetto della continua e libera riscrittura che ne fanno la fantasia, la letteratura e il cinema, trova un corrispettivo nella originale struttura di questo libro, che è al tempo stesso una rivisitazione storica, una piccola enciclopedia fitta di dati e di informazioni, una reverie affettuosa, un romanzo che corre al galoppo, una ballata popolare, un teatrino dei pupi. Alla caccia di un favoleggiato Bisonte Bianco, imprendibile divinità muschiata dall’occhio maligno, ritroviamo infatti scrittori che sono appartenuti alla realtà storica (l’io narrante dice di chiamarsi Isacco Babel, e presto compare Hermann Melville), personaggi cinematografici (Shane, il cavaliere della valle solitaria che fu interpretato da Alan Ladd), figure leggendarie della Frontiera (Calamity Jane, David Crockett, Buffalo Bill, Custer, Geronimo, i pellerossa e i cowboy): insomma quella folla composita, più fittizia che reale, e tuttavia viva e vitale, che ad ogni impiego fantastico, anche arbitrario, sembra radicarsi ancora più profondamente nell’immaginario collettivo. Se il Bisonte Bianco, come il Minotauro e la Balena di Melville, rappresentano il mistero di quel che è diverso ed estraneo, un piacere combinatorio spinge l’autore a mescolare il documento e la finzione, il gioco e il sogno, la nostalgia dei grandi spazi e la consapevolezza di quanto di iperbolico e di segretamente elusivo si nasconda in ogni epica. -
La notte dell'indaco
Il pubblico italiano conosce poco Satyajit Ray come regista, non lo conosce per nulla come scrittore. Eppure Ray, da oltre venticinque anni, scrive e pubblica regolarmente storie destinate ai ragazzi. Storie fantastiche, avventure di giungla e piccole storie di vita quotidiana. Ray mescola felicemente la realtà e l’invenzione, filtrandole attraverso la conoscenza profonda della cultura letteraria e filosofica del suo paese e conciliandola con i ricordi delle sue letture adolescenti, anche di autori occidentali. Dietro lo scrittore sentiamo l’uomo di cinema abituato a narrare per immagini. L’uso del flash-back gli permette di creare atmosfere di sogno e sdoppiamenti richiamando il passato anglo-indiano e introducendo elementi che dànno spessore storico e dicono quanto profondamente le due culture, quella inglese e quella indiana, siano compenetrate. La giungla, le valli immaginarie fuori del tempo e dello spazio, la rumorosa Calcutta dei nostri giorni sono in qualche modo «visibili»; i protagonisti , uomini e animali, hanno la stessa malinconica e mite evidenza dei personaggi in bianco e nero dei suoi film. La quotidianità è interrotta dall’insorgere di fatti prodigiosi nel tentativo, riuscito, di dare un equilibrio, quasi un’armonia a delle esistenze minuscole accettate con saggezza e autoironia. -
La voce umana. La macchina infernale
Letta da Cocteau agli attori della Comédie Française il 13 marzo 1929, La voce umana viene subito accettata all’unanimità: verrà interpretata, per la regia dell’autore, nel febbraio del ’30 da Berthe Bovy, scenografo al suo esordio Christian Bérard che disegna per l’attrice una piccola stanza bianca, con un letto disfatto e una lampada. Quando si mette giù il telefono – aveva detto più volte Cocteau agli amici – è come se distruggessimo l’ultima nostra possibile avventura, incuranti dei gemiti dell’altro da noi. E’ quanto questo dramma sul “conformismo anticonformista” crudelmente mette in scena. Siamo nel 1932 (l’anno stesso in cui i Pitoeff mettono in prova l’Edipo di Gide) quando Cocteau, sollecitato da una sanguigna dello stesso Bérard su Edipo e la Sfinge, abbozza La macchina infernale. Ma solo nell’aprile 1934 – dopo quattro mesi di prove durissime – Louis Jouvet accetta di presentare alla critica questa vera e propria reinvenzione, tra il tragico e il burlesco, degli dei e dei personaggi del più celebre mito greco: “Ne sono sconvolta, – scrive Raissa, la moglie di Jacques Maritain. – E’ la miglior tragedia che Cocteau ha scritto, la più semplice, la più umana, la più pura”. -
La visita della vecchia signora
Con “La visita della vecchia signora”, “commedia tragica” scritta nel 1955, lo svizzero Durrenmatt conquistò i palcoscenici di mezzo mondo e diede vita a una delle sue più singolari figure femminili, Claire Zachanassian, donna dal fascino perverso e malvagio. Essa non impersona – come ricorda l’autore – “né la giustizia né il piano Marshall e tantomeno l’apocalisse”; è semplicemente la donna più ricca del mondo e “grazie al denaro può agire come un’eroina della tragedia greca, assoluta, crudele”. Dietro la multimilionaria, che ha fatto fortuna con numerosi matrimoni, si celava un tempo la povera fanciulla Klari Wascher sedotta e abbandonata da Alfred Ill. Questa favola grottesca prende avvio dal ritorno della vecchia Claire al luogo natio, la cittadina di Gullen, un agglomerato svizzero di inettitudini e frustrazioni piccolo-borghesi. Accompagnata dal settimo marito, da due eunuchi oltreché da una temibile pantera, Claire è ossessionata da un unico pensiero: vendicarsi di Ill. Ma il compito spetta ai suoi concittadini, a cui ha promesso una ricompensa favolosa. Anche il paese più quieto e onesto non sa sottrarsi all’insidia del denaro, anche le coscienze più probe si induriscono nell’egoismo sino ad accettare l’assassinio. Commedia dell’inautentico, questa piéce indaga, con straniante gusto per il paradosso e la provocazione, sulla corruttibilità dell’uomo, la manipolazione del consenso e il rapporto fra morale e violenza. -
Medicamenta e altri medicamenta
I “medicamenta” di Patrizia Valduga non dispensano né l’amore né l’oblio né la morte: perché la tragedia di questo linguaggio poetico non si risolve né si placa: non c’è più spazio davanti; bisogna tornare indietro e lavorare sui rottami. Questo linguaggio fa come lo scorpione che si uccide col proprio aculeo quando è prigioniero del fuoco. Qui siamo a un limite estremo di reclusione; tra questi huis clos si muore per asfissia: il linguaggio allora si uccide come antico e, risorgendo dalla propria spoglia, diventa moderno; e poi, da moderno, siferisce ancora e ritorna antico(…)E’ tale sovraccarico di tensione a rendere potenti i medicamentosi veleni. Certo, non ho memoria, tra i moderni, di un poeta che abbia allacciato così strettamente la propria urgenza di esistere con l’urgenza di dire e di dirsi”. (Luigi Baldacci) -
Le serve
Il più straordinario esempio di quei mulinelli d’essere e d’apparenza, d’immaginario e di realtà, è una commedia di Genet a fornircelo. E’ il falso, il princisbecco, l’artificiale che, nella rappresentazione teatrale, attirano Genet. Egli diviene autore drammatico perché la menzogna della scena è la più manifesta e la più affascinante. Mai, forse, ha più sfrontatamente mentito che in Les Bonnes.Due cameriere amano e odiano insieme la loro padrona. Esse hanno denunciato l’amante di questa con delle lettere anonime. Venendo a sapere che sarà rilasciato in mancanza di prove, e che il loro tradimento sarà scoperto, tentano, una volta di più, di assassinare la Signora, falliscono, vogliono uccidersi a vicenda; finalmente una di esse si dà alla morte, e l’altra sola, ebbra di gloria, tenta di innalzarsi, con la pompa degli atteggiamenti e delle parole, fino al magnifico destino che l’aspetta… (Dall’introduzione di Jean-Paul Sartre) -
Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi. Vol. 8: L'Umbria.
«Umbria overo ducato di Spoleto», cosí si legge in margine alla carta di Giovanni e Cornelio Blaeu, redatta nel periodo 1623-31 e dedicata «All’Eccellentissimo e Reverendissimo Principe Francesco Cardinale Barberino, Vicecancellario e Nipote della S.S. Urbano VIII». In linea con l’elaborazione dei cartografi e dei geografi cinque-seicenteschi, da Flavio Biondo a Leandro Alberti e Giovanni Antonio Magini ” quella dicitura evidenzia una delle configurazioni assunte dal territorio regionale nel corso dei secoli. Al tempo stesso essa aiuta a comprendere come la regione, cosí come viene definita dopo il 1860, con la denominazione di Provincia dell’Umbria o di Perugia, sia piú il frutto di scelte politico-amministrative che il risultato di una vicenda unitaria. D’altra parte che l’Umbria attuale abbia al suo interno almeno due aree storiche, a cui si aggregano o da cui si distaccano nei diversi periodi altri territori, è un dato ampiamente noto. Il territorio perugino, che copre il nord-est dell’Umbria, e quello di Spoleto, il sud-ovest, hanno fin dall’antichità caratteri diversi, che si manifestano in modo piu o meno evidente anche in età contemporanea. Il Tevere delimita il territorio etrusco da quello popolato dalla stirpe umbra in età preromana; nell’alto medioevo il fiume definisce il confine tra il «corridoio» bizantino e il ducato di Spoleto; in età moderna sempre esso rappresenta il limite di divisione tra quest’ultimo e la Tuscia; il Tevere costituisce pure il margine di demarcazione linguistica tra i diversi dialetti che convivono nella regione. Tale distinzione è destinata a durare fino alla prima metà dell’Ottocento, quando Perugia acquisisce una preminenza rispetto alle altre città umbre. Con l’Unità tale primato rimane, anche se non è riconosciuto e viene continuamente sottoposto a contestazioni, che provengono da un ampio schieramento di centri e municipi che mal sopportano l’egemonia perugina. Accorpare l’intera regione intorno ai ceti agrari moderati e offrire un fronte unico ai confini dello Stato pontificio: questi i fattori determinanti della scelta di Gioacchino Napoleone Pepoli di costituire una sola provincia, annettendole territori legati ad altre realtà storiche e amministrative, come l’Orvietano, l’Eugubino e la Sabina. Ma questa forzatura non elimina le spinte centrifughe o le rivalità municipalistiche, che, pure soffocate, permarranno sotterranee. Ne è un sintomo il dibattito degli anni ’20 del Novecento sulla divisione della provincia in piú circoscrizioni amministrative, che mette in luce la tendenza, sempre all’erta, di varie città a sganciarsi da Perugia. li risultato è la nuova provincia di Terni, in cui vengono accorpati in modo casuale il circondario che fa capo al polo industriale e quello di Orvieto. Dalla Premessa di Renato Covino e Giampaolo Gallo -
La fine del Titanic
Rottami, frammenti di frasi, cassette vuote, grosse buste commerciali, bruni, fradici, rosicchiati dal sale, estraggo dai flutti dei versi, dai cupi, caldi flutti del mar dei Caraibi, dove pullulano gli squali, versi esplosi, salvagenti, vorticosi souvenirs.Ci fu un episodio che dai contemporanei venne sentito come una prova generale della fine del mondo in atto unico: il naufragio del Titanic la mattina del 13 maggio 1912 per la collisione con un iceberg. La nave era, allora, il non plus ultra della tecnica, e a bordo c’erano molti milionari autentici (i miliardari erano probabilmente di là da venire). Fu la fine della belle époque . Quel che venne dopo non fu la fine del mondo, ma la prima rata, la Prima guerra mondiale. L’argomento era già stato largamente sfruttato in libri e film. Enzensberger lo riprende nel quadro della sua analisi negativa del progresso: analisi negativa non in quanto escluda la possibilità di inquadrare il progresso in orizzonti positivi, ma in quanto constata adornianamente che finora esso è stato sempre accompagnato dall’ombra della follia – nella vita degli uomini, nei loro ritrovati e nelle loro teorie -, e che alla fine la somma del progresso è ampiamente soverchiata dalla somma della follia. Dalla prefazione di Cesare Cases -
Storia di Roma. Vol. 2: L'Impero mediterraneo. La repubblica imperiale.
Questo volume della Storia di Roma intende presentare l'interpretazione critica di quei problemi che, entro l'arco di circa tre secoli, sono stati individuati come essenziali nello svolgimento sociale, culturale e politico che ha condotto una città in lotta per l'egemonia nell'Italia centrale ad assumere le responsabilità di un dominio imperiale.L’impero mediterraneo è il titolo del secondo volume, diviso in tre sezioni distinte. Nella prima trova posto la storia dell’ascesa della città, dalle trasformazioni del III secolo fino all’unificazione italica e al tramonto delle istituzioni repubblicane. -
Storia di Roma. Vol. 22: L'Impero mediterraneo. I principi e il mondo.
Questo volume della Storia di Roma abbraccia l'età da Augusto alla fine della dinastia dei severi.Il secondo tomo del secondo volume della Storia di Roma è incentrato sul «sistema imperiale» nella sua dimensione ormai mediterranea e «mondiale», che si rivela come una struttura marcatamente policentrica: istituzionalmente intercomunitaria «suis moribus legibusque uti»), ed economicamente e culturalmente segnata da disomogeneità e dislivelli. All’interno di questo stacco narrativo, si è cercato di fondere ovunque possibile, nello stesso meccanismo di racconto, la storia delle istituzioni, della politica e dei gruppi dirigenti, con quella dell’economia, della società, del diritto e della cultura. Le esigenze che ci hanno spinto a tentare un intreccio indubbiamente difficile sono molte, e vanno al di là del motivo – che pure esiste -di realizzare una certa unità nel quadro descrittivo. Esse attengono piuttosto alla morfologia del mondo che dovevamo ricostruire, e al carattere del tutto tipico che vi assumono le relazioni fra gli elementi che ne compongono il disegno (per esempio, fra politica ed economia). Abbiamo di fronte contesti attraversati da separazioni e scissioni radicali: per molti versi all’opposto delle società moderne, dove visibilmente «tutto si tiene». Ma non bisogna cadere nella trappola storiografica di questo «funzionamento per sconnessioni»: se vogliamo davvero capire, dobbiamo ricercare con pazienza le corrispondenze nascoste. Del resto, sono state proprio queste peculiarità che hanno consentito di dar forma -fra il II secolo a. C. e il II d. C. -al più vasto e dinamico sistema mercantile a base schiavistica che la storia ricordi. -
Storia di Roma. Vol. 31: L'Età tardoantica. Crisi e trasformazioni.
Il processo di dissoluzione dell'impero mondiale di Roma rappresentò senza dubbio un momento di metamorfosi radicale, uno «straordinario rivolgimento».Il terzo volume della Storia di Roma , dedicato al Tardoantico, abbraccia solo tre secoli: dagli ultimi decenni del II alla fine del V d. C. Ma l’ampiezza e la profondità spaziale che il racconto assume in questo tratto giustificano la riduzione della prospettiva temporale. L’orizzonte infatti appare ora dominato da un accentuarsi sempre piu forte e pervasivo delle differenze e delle rotture fra le diverse regioni dell’impero, ciascuna delle quali tende ad acquistare una nuova e relativamente forte soggettività storica, avviandosi a percorrere il suo proprio cammino europeo, asiatico o africano. Questa scomposizione richiede il mantenimento di un campo narrativo molto piu dilatato, una percezione «orizzontale» dei fenomeni, e un’attenzione disponibile continuamente a dividersi, per inseguire il molteplice formarsi dei grandi blocchi che iniziano la loro deriva medievale. -
Erano tutti miei figli
‘Erano tutti miei figli’ fu iniziato diversi anni dopo che il Group Theater aveva cessato di esistere, ma oggi posso dire che si trattò di un’opera destinata a un teatro dell’avvenire. Mi rendo conto di quanto sia vaga quest’espressione, ma non riesco troppo bene a definire ciò che intendo. Forse significa un teatro, un’opera destinata a diventar parte della vita dei suoi spettatori – un’opera seriamente destinata alla gente comune, e importante sia per la sua vita domestica che per il suo lavoro quotidiano – e insieme un’esperienza che allarga la sua consapevolezza dei legami che si collegano al passato e all’avvenire, e che si celano nella ‘vita’.Arthur Miller -
Versi guerrieri e amorosi
Con tutta quella morte in giro nessuno moriva, era senza patemi o rischi l'assistenza al disertore sotto tiro – eh sí, solo a fine emergenza si contabilizza l'orrore se a me è venuto con l'assenza della tua assenza il maldicuore.Scrive l’autore di questa sua raccolta: «Da molto tempo pensavo di scrivere qualcosa sulla guerra: la guerra, s’intende, come rovescio, intreccio di riflessi e di nomi, quale può essere apparsa a un ragazzo di dieci dodici anni fra città e campagna, bombardamenti e sfollamento; ma ogni volta urtavo contro un clima e un linguaggio che non volevo, che addirittura mi ripugnavano, quelli della memoria (ossia, rispetto al presente, della smemoratezza) elegiaca. A mettermi su una strada diversa e che mi è sembrata più fruttuosa sono state una frase di Goethe («Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi») e più ancora, forse, la richiesta di riconoscibilità formale che sempre più la poesia mi sembra rivolgere oggi ai poeti per poter continuare o ricominciare ad esistere, oltre che nella loro volontà e immaginazione, anche nella mente e nell’orecchio dei lettori. Il piccolo canzoniere che sta al centro di questo libro è nato cosí, credo, dall’intersezione di due tentativi o desideri: il primo di non perdita, l’altro di ritrovamento». -
La letteratura americana e altri saggi
Presentando la prima edizione di questa raccolta, nel 1951, Italo Calvino scriveva: “Questo volume raccoglie tutti i saggi e gli articoli che Cesare Pavese ha pubblicato – o aveva scritto per pubblicare – dal 1930 al 1950, nei vent’anni cioè che racchiudono pure tutto il suo lavoro di poeta e di narratore. E in verità, non si può separare l’opera creativa di Pavese da quella battaglia culturale – di rinnovatore di un panorama letterario e di ricercatore di ragioni poetiche e umane – che questo lbro documenta (né dalla sua fatica di traduttore, legata anch’essa per cronologia e contenuto a molti di questi scritti).Il libro dunque, nel fitto svolgersi dei suoi motivi, può darci un’autobiografia intellettuale di Pavese, la più ricca ed esplicita e legata – come ben richiede la sua vita – alla pratica del suo lavoro.Il valore di questi scritti, però, non sta solo nella documentazione di un cammino culturale individuale; l’esperienza di Pavese è stata esemplare e cruciale di tutta una generazione letteraria, quella cresciuta sotto il fascismo, quella che avvertì nuovi bisogni e fece una svolta, una sortita (letteraria e morale) nuova, e poi – morto il fascismo – si trovò di fronte altri problemi, e ancora alterne speranze e inquietudini”. -
Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi. Vol. 9: La Campania.
L’identità della Campania, come spazio dotato di coerenze strutturali, socio-culturali, politiche, è assai fragile. Chi ne scriva la storia, deve affrontare l’insidia di ipostatizzare sulla carta quel che i reali processi secolari stentano a produrre. Un rischio sperimentato, del resto, anche in altri volumi di questa serie einaudiana. Ii territorio regionale è quasi schiacciato dalla presenza di una città come Napoli, appariscente e invadente nel bene e nel male, grande centro di consumo e di produzione, nodo di traffici terrestri e marittimi, luogo di nascita, ieri come oggi, di un bel pezzo della classe politica e amministrativa nazionale. Al confronto con Napoli, le realtà provinciali campane – e i particolari caratteri che le identificano e le differenziano – rischiano di scomparire. La presenza della grande città di taglia europea introduce, nello spazio regionale campano, una radicale disparità di scala. Ma, ciò che forse conta maggiormente, la Campania si perde nel grande palcoscenico, spesso lontano e ad essa estraneo, di una metropoli che tuttavia non è una metropoli regionale e che anzi, ben oltre il 1860, resta o aspira ad essere un centro sovraregionale, sebbene in progressiva crisi. Napoli non ha la capacità di dar forma a un territorio omogeneo, a una «regione funzionale» simile alle regioni che crescono, nell’ultimo secolo, attorno a Milano o Genova o Bologna. In questo senso, la storia delle fratture profonde che dividono l’area della Campania è anche la storia dei limiti strutturali e culturali della metropoli napoletana. Del suo insuccesso, per cosí dire. Povera di radici unitarie – e infatti dispersa dapprima nell’insieme delle «Province meridionali» e amministrativamente ritagliata, in seguito, secondo opinabili criteri politici -, la Campania appare destinata, anche sul piano semantico, a confondere la parte con un tutto poco realistico. A lungo, il termine indica l’area che fa da corona, per poche decine di chilometri, alla grande Napoli, la fertilissima Campania felix , docata -questa sí – di forti caratteri unitari. Ma la frattura che separa la ricca fascia costiera dai territori interni è drastica e poco alleviata, talora anzi aggravata, dal processo secolare. Come Napoli, anche la Campania felix non sembra capace di dar forma a una regione omogenea. Una storia della Campania deve fare i conti con queste difformità, che del resto sarebbe ingenuo valutare semplicemente come fenomeni in negativo. Essi disegnano piuttosto una specifica esperienza territoriale e (nell’ultimo ventennio) regionale, che, in qualche misura, può esser presa a paradigma di taluni piú generali caratteri e problemi del Mezzogiorno d’Italia. -
Nostalgia dell'acqua
“Il verso è costruzione, architettura sonora, musica; se non è questo, non esiste; rumori e macerie non fanno poesia. Gabriella Leto costruisce, dispone i suoni con suprema eleganza; una frase poetica gli sale o scende anche per otto, dieci, dodici versi sempre acquistando musicalità e fissandosi, nel punto finale, con la precisione di una forte mano sicura su una tastiera. Si sente costantemente una ferrata educazione classica e musicale. La tentazione del facile, dell’aggettivo prescritto, è ricusata con puntiglio, aggirata con arte.E sono poesie misteriose, piccoli enigmi fragili, pitture sulla seta dove si intravedono un amore segreto, oggetti, fiori, ambienti, pietre […]Una poetessa dell’antica Cina rediviva, scettica staccata dalle passioni ma dopo averle sofferte e trasformate in accordi delicatissimi, in sospiri di salici, in incastri parlanti di fiori per la stanza del tè: una poetessa ai margini della Corte, forse anche della vita, che avesse rinascendo acquistato la padronanza, il senso e il timbro del linguaggio poetico italiano tra Tasso e Parini, restituendolo adeguatissimo alla sensibilità filologica contemporanea, a un gusto mutato che ha orrore, giustamente, dell’esumazione e del retorico”. -
L' età della solitudine
Scritti fra il 1944 e il 1985, questi racconti narrano della resistenza tedesca a Hitler, di esilio in Francia, di collaborazionisti e maquisard negli anni di Vichy, dell’inquietante compresenza di letteratura e morte. Nel racconto “Il sottotenente Yorck von Wartenburg”, il primo della raccolta, Hermlin ci descrive gli ultimi istanti di un condannato a morte, uno degli ufficiali che parteciparono all’attentato a Hitler il 20 luglio del 1944, il quale vive in un’atmosfera sospesa fra realtà, sogno e allucinazione l’impossibile fuga, il ricongiungimento con i propri affetti e il riscatto della Germania. Protagonista del racconto che dà il titolo al volume – “L’età della solitudine” – è l’esule tedesco Neubert, che nella cella della Milizia di Petain rivive – in uno scorrere dei piani narrativi fra presente e passato – la propria relazione con Magda nella Francia occupata, la sua morte e la vendetta. Non manca nel libro una sorta di humeur noir, come nel racconto dal paradossale titolo “Arcadia”, dove un giovane traditore del maquis, pur accettando la sentenza capitale, contesta al tribunale popolare la scelta della corda: è troppo sottile per i suoi 82 chili. E infatti cederà, e l’esecuzione dovrà essere ripetuta, fra il canto degli uccelli sui rami dell’albero-capestro. Non meno paradossale è l’equivoco su cui è costruito il racconto “Uno scrittore famoso”: in un bistrot parigino Louis-Ferdinand Céline, riconosciuto in Hermlin un tedesco, si complimenta con lui per “il suo geniale, straordinario Fuehrer”, soggiungendo “verrà il giorno in cui metteremo al muro ebrei e bolscevichi e la Francia si libererà di loro”. Alla risposta chiarificatrice dell’esule, “il suo sguardo ancora pieno di entusiasmo e simpatia divenne sgomento e immobile, cercò qualcosa di adeguato da dire e a fatica gli uscì infine un alquanto misero – Ah, bon… – Girò sui tacchi e scomparve. Non l’ho mai più rivisto”. -
L' ideologia. Origine dei pregiudizi
Il termine ideologia fu coniato alla fine del XVIII secolo da Destutt de Tracy, il quale l’adoperava per disegnare la scienza dell’origine delle idee. È a partire da Napoleone che la nozione d’ideologia acquista il suo significato moderno: quello di teorie tanto astratte quanto dubbie, che, pretendendo di fondarsi sulla ragione e sulla scienza, mirano a modellare l’ordine sociale e a orientare l’azione politica. A cent’anni e più dalla sua formulazione, cosa ne è oggi dell’ideologia? E, soprattutto, come funzionano i suoi meccanismi? In questo saggio Raymond Boudon spiega come nascano i dogmi collettivi grandi e piccoli, il ruolo che giocano le posizioni e le disposizioni culturali e sociali, i valori della retorica, del simbolo e degli effetti di comunicazione. Alla concezione dell’ideologia come convinzione di tipo irrazionale (secondo quanto ritengono Marx, Pareto, ma anche Popper e Aron) Boudon oppone una teoria razionalista, che indica come certe idee si appoggino effettivamente a fondamenti scientifici dei quali, però, non si tiene in conto la relatività. In tempi di crisi delle ideologie, questo libro non le liquida, smascherandone le false promesse, ma descrive quei meccanismi di credibilità eccessiva e non sufficentemente fondata, che permettono a un’idea di radicarsi. Così facendo si spiega come e perchè certe idee diventino egemoni o più semplicemente di moda; ci si interroga sul ruolo di alcuni «maitres à penser» (quali ad esempio Foucault e Bourdieu); si svela, insomma, come e perché possiamo credere razionalmente e in buona fede ai pregiudizi e alle idee false.