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Il mondo dentro il mondo
Davvero esistono lì fuori leggi di natura, che stanno in attesa di essere scoperte, indipendenti dal nostro modo di pensare, o esse rappresentano soltanto la descrizione più conveniente di ciò che abbiamo visto? Come è nata lidea stessa di leggi di natura? Queste costituiscono la realtà profonda o sono soltanto pezzi di un regolamento che ci siamo dati per organizzare meglio la nostra conoscenza del mondo? o semplici paletti che piantiamo e ci lasciamo alle spalle come segnali via via che procediamo nella giungla dellesperienza? È possibile che non esistano affatto leggi di natura? Forse esse, e anche luniverso che da esse sembra regolato, sono del tutto creazioni della nostra mente: unillusione che scompare appena cessiamo di pensarvi. Ma allora, che cosa accadrebbe, se non ci fossero osservatori delluniverso?». Interrogativi di questo genere, che incontriamo sulla soglia del Mondo dentro il mondo, sarebbero suonati eccentrici fino a qualche anno fa. Oggi, al contrario, circoscrivono il centro stesso della riflessione scientifica, dove infuria ormai una disputa appassionata fra teorie del tutto, che vorrebbero avvolgere gli eventi del mondo, sin dai suoi inizi, in ununica rete teorica. Una delle più sconvolgenti fra tali teorie è stata sviluppata proprio da Barrow e da un illustre fisico, Frank J. Tipler: la teoria del principio antropico. Estremamente ardua e paradossale, essa riesce a mettere in connessione limmensità delluniverso con la sua percezione da parte dellocchio delluomo. E proprio nelle pagine di questo libro si troverà la prima esposizione discorsiva di tale teoria, accompagnata dalle varie obiezioni che essa ha incontrato. Ma il disegno di Barrow è qui piuttosto di usare la nuova teoria, insieme a molte altre, discusse con sapienza e unalta capacità esplicativa, per mostrare come tutte convergano verso quegli interrogativi ultimi che a lungo la scienza aveva accantonato definendoli, con malcelato spregio, «problemi filosofici». Eppure, non è certo la filosofia ad aver fatto breccia nel duro cuore degli scienziati, insinua Barrow. È la natura stessa o almeno la scoperta di «alcuni degli insoliti modi, secondo i quali sembra che essa operi» a obbligarci a questo passo. Il mondo dentro il mondo è apparso per la prima volta nel 1988. -
La corte del diavolo
«Corte del diavolo»: così viene chiamata una prigione di Istanbul, sotto l’Impero ottomano. Vi si trovano esemplari di ogni tipo umano: sordidi, innocenti, abietti, perversi, miti, folli. Sono lì rinchiusi per praticità, poiché «la polizia di Costantinopoli si attiene al sacro principio che è più facile rilasciare un innocente dalla Corte del diavolo che non ricercare un colpevole nei meandri di Costantinopoli». È un mondo vibrante di storie fosche, sinistre, che si rispondono in un sottile contrappunto e presto producono una sorta di assuefazione all’inferno. Sovrano del luogo è il direttore Karagöz, poliziotto e metafisico burattinaio, che proprio esercitando un totale arbitrio e togliendo alla tortura il peso della certezza «rendeva più tollerabile e lieve ogni cosa»: figura di tale potenza che, dopo averlo incontrato, anche i lettori di questo magistrale racconto, come gli abitanti della Corte del diavolo, stenteranno «a immaginare la vita senza Karagöz». -
Dico a te, Clio
I lettori di Capri già sanno quale delizioso viaggiatore sia Savinio, capace di far vivere i luoghi con pochi tocchi distratti – e insieme pronto a lanciarsi in divagazioni imprevedibili, a partire da qualsiasi pretesto. Così è anche in questo libro del 1939, che egli stesso assimilò a un giardino, «per la chiarezza, la leggerezza, l’amenità che mi sono conquistate nell’età matura». Qui Savinio vaga fra gli Abruzzi e la terra degli Etruschi, tra Cerveteri e Tarquinia. L’ironia ci si fa incontro a ogni passo. Ma c’è anche una sonorità melanconica, meditativa, in queste pagine, che sono rivolte al «fantasma della storia: il grande buco, il vuoto che assorbe via via le azioni che sfuggono alla storia, e le annienta». Combinazione di timbri, questa – fra l’ironico e il melanconico –, che sembra corrispondere al fondo del fondo di Savinio stesso. Dico a te, Clio, apparso per la prima volta nel 1939, fu ripubblicato nel 1946. In quest’ultima edizione era preceduto da un’Avvertenza dell’autore che viene riprodotta nel presente volume. -
L' angelo necessario
Per secoli, il pensiero ha tentato di convincersi che gli Angeli fossero entità superflue, superstiziose anticaglie. Ma la dimensione dell’Angelo continua a riaprirsi, ci accompagna, si trasforma, ma non ci abbandona. Questo libro, pubblicato nel 1986, e che ora riappare interamente riveduto e ampliato, è dedicato all’Angelo che finisce per rivelarsi «necessario», come dice il titolo, riprendendo una mirabile lirica di Wallace Stevens. Ma necessario a che cosa? L’Angelo educa, conduce a una conoscenza diversa da quella che si sviluppa in rapporto al visibile. «L’Angelo testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo ‘tradisce’ per i sensi». In questo, si oppone radicalmente al daimon, che è al servizio di una fatalità cosmica e impone ogni volta il vincolo della cosa e alla cosa. L’Angelo è l’ermeneuta del movimento opposto: quello che guida fuori dalla lettera, quello che va, non già dall’idea alla cosa, dal segno al rappresentato, ma dalla cosa all’invisibile. Cacciari elabora questa sua lettura filosofico-teologica dell’Angelo attraversando i testi e le immagini, a partire dall’antichità giudaico-cristiana o pagana o iranica sino a Klee o a Rilke o alla riflessione di Henry Corbin. E appare evidente come questa sua ricerca si connetta anche ai suoi lavori precedenti, e in particolare a Icone della Legge. Qui, sempre con riferimento a Benjamin e a Rosenzweig, torna a porsi il problema della rappresentazione e l’Angelo aiuta a configurarlo come un vero dramma gnoseologico che si svolge sulla soglia di quello che Corbin ha definito il mundus imaginalis. E intanto l’attenzione si fissa sulla fisiognomica degli «ultimi, grandi incontri» con l’Angelo. Ora gli Angeli diventano simili a «dèi dell’istante», «lampeggiano e scompaiono». Ormai sottratti a ogni stabile gerarchia, sedotti e quasi irretiti dall’umano, questi ultimi Angeli serbano in sé un riso, una disperazione e una paradossale libertà che ci sono più che mai essenziali. Grazie a loro, come scrisse Rilke, «raccogliamo disperatamente il miele del visibile, per custodirlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile». -
I mistici musulmani
Soltanto i grandi studiosi sanno isolare l’essenziale ed esporlo in evidenza, anche quando l’argomento è di per sé intricato e arduo. Così, anche se generalmente si riconosce che il sufismo è una delle vette della letteratura mistica universale, grande è la confusione quando si tratta di accedere ai testi e di intenderli. Marijan Molé, che fu un notevolissimo islamista e autore anche di studi fondamentali sull’Iran preislamico, si è prefisso in questo libro di isolare la specificità inconfondibile della ricchissima letteratura mistica musulmana, e perciò innanzitutto di individuare le sue differenze dalle esperienze spirituali delle altre «religioni del libro», l’ebraica e la cristiana. È perciò il profilo di un’intera civiltà che viene qui disegnato, e all’interno di esso apparirà il significato di figure altissime come Ibn ’Arabi o al-Hallaj. -
Oltre il linguaggio
Può la tecnica offrire il rimedio contro i danni che essa produce? O è proprio questa l’estrema illusione che ci abbaglia? Si possono porre dei limiti alla violenza? Ma chi ha il potere di imporre che un limite non sia oltrepassato? Qual è il nesso fra essere e linguaggio? È vero, come vuole molta della filosofia moderna, che «l’essere che può venire compreso è il linguaggio»? Temi insidiosi, ardui: in questo libro sono l’occasione per un’indagine che, partendo dalla più recente fra le opere maggiori di Severino, Destino della necessità, e richiamandosi ai fondamenti del suo pensiero, esposti nella Struttura originaria, si inoltra in nuovi territori. Come sempre in Severino, l’estrema chiarezza e il vigore delle argomentazioni fanno sì che questi saggi siano preziosi per risolvere questioni di alta precisione speculativa, ma sappiano anche svelare, a un pubblico più vasto, l’urgenza dei problemi trattati. -
Lo smalto sul nulla
Gottfried Benn (l’«imperdonabile Benn», come lo chiamò Cristina Campo) fu poeta e sifilopatologo. Come poeta: uno dei creatori dell’espressionismo e autore di alcune fra le liriche perfette del Novecento. Come medico: continuò a praticare oscuramente, fino all’ultimo, nella Berlino del dopoguerra. Ma Benn fu anche l’autore di alcuni saggi (qui presentati in un’ampia scelta) letteralmente senza pari, per la mobilità nervosa, fosforeggiante dello stile, per il continuo germinare delle immagini, come anche per il taglio imprevedibile degli argomenti. Non si ha idea di che cosa possa essere la prosa moderna (ma che cosa è moderno? «Purtroppo io non ho la minima idea di che cosa sia moderno» scrisse una volta Benn, beffardamente) se non si è lasciata risuonare in noi questa prosa, con i suoi scarti micidiali e repentini, gli accostamenti allucinatori, l’uso sovrano e predatorio di testi preesistenti. Di che cosa parla Benn? Di ere geologiche e di Goethe (qui si leggerà la più bella rivendicazione di Goethe come scienziato), di nichilismo (come esperienza sottintesa di tutto l’Occidente) e di stile («Lo stile è superiore alla verità, porta in sé la prova dell’esistenza»), di teorie scientifiche e del mondo dorico, del cervello e delle tare, di poesia (naturalmente) e di climi storici. In breve: parla di tutto. E nulla lascia intatto di ciò che di accomodante e stantio si perpetua nel pensare. Ma ogni volta il tratto che noteremo per primo è il «sacrilego azzurro» della sua prosa, un colore, un timbro che solo qui riusciremo a trovare e che ci dà una scossa di segreta euforia. -
Biblioteca
Fozio visse nel IX secolo, fu due volte patriarca di Costantinopoli, partecipò attivamente alle dispute che portarono allo scisma greco. Ma innanzitutto fu uomo di immensa erudizione. Leggeva instancabilmente, annotava, riassumeva. Delle sue 279 schede di lettura di testi di ogni genere, oggi per una metà circa scomparsi e sopravviventi soltanto nel riassunto di Fozio, si compone la sua Biblioteca, opera che come poche altre dell’antichità ci apre squarci abbaglianti su molto di ciò che per sempre del mondo classico si è perduto: un libro che fa sognare altri libri che non avremo mai la possibilità di leggere. E già questa potrebbe essere la traccia di un racconto non scritto di Borges. In certo modo, Fozio fu l’archetipo del recensore – tanto che Saintsbury lo definì felicemente «il patriarca recensore». Bizzoso, idiosincratico, aspro, questo grande studioso ci dà ogni volta un’immagine vivissima e puntigliosa dei libri di cui parla, si tratti di romanzi fantastici o di opuscoli teologici. Interi mondi si aprono davanti a noi, dove non solo incontriamo tanti tesori scomparsi, ma siamo guidati da uno sguardo bizantino: così riusciamo a capire con quali occhi, nel IX secolo, si guardava a ciò che per noi sono «i classici» nonché a quelle tante altre meraviglie che il tempo ha inghiottito. Per la presente edizione, Nigel Wilson, professore a Oxford e uno dei massimi bizantinisti viventi, ha trascelto, nell’immensa selva delle schede di Fozio, quelle che, per ragioni varie, parlano più vivamente a un lettore di oggi, commentandole e introducendole in modo che questi testi tornino ad assumere tutto il loro affascinante rilievo. -
L' origine. Un accenno
«Allinterno del collegio non avevo potuto constatare alcun mutamento di rilievo, se non il fatto che la stanza cosiddetta di soggiorno nella quale eravamo stati educati al nazionalsocialismo era adesso diventata una cappella, e al posto del podio su cui prima della fine della guerra era salito Grünkranz per insegnarci la dottrina della Grande Germania cera adesso un altare, e alla parete dove prima cera il ritratto di Hitler pendeva adesso una grande croce, e al posto del pianoforte che, suonato da Grünkranz, aveva accompagnato i nostri inni nazionalsocialisti come Die Fahne hoch! oppure Es zittern die morschen Knochen cera adesso un harmonium. Lintero ambiente non era stato nemmeno ritinteggiato, evidentemente mancavano i soldi, sicché nel punto dove adesso era appesa la croce si poteva ancora scorgere la macchia, bianchissima e vistosa sulla superficie grigia della parete, dove per anni era stato appeso il ritratto di Hitler». In questo primo volume della sua autobiografia, Bernhard ha voluto subito raccontare un periodo della sua vita a cui risale il manifestarsi di una lesione insanabile in lui: i mesi passati durante la guerra nel Convitto nazionalsocialista di Salisburgo, fra macerie e angherie, e i mesi passati nello stesso collegio, ora chiamato Johanneum, e retto da sacerdoti cattolici, sempre fra angherie, allinizio di una ottusa pace. Nellintima compenetrazione salisburghese fra nazismo e cattolicità, nella vocazione della città al suicidio (una delle più alte percentuali europee) e allArte Universale, nella scuola come offesa permanente, nella capacità locale di cancellare la memoria e sovrapporre una nobile decorazione a un fondo putrido, Bernhard riconosce una costellazione atroce e beffarda alla quale da sempre ha tentato di sottrarsi: e qui la presenta e la ripercorre in pagine ossessive, implacate. Il piccolo Thomas Bernhard, al Convitto nazionalsocialista, suonava il violino nella «stanza delle scarpe», «piena zeppa di centinaia di scarpe dei suoi compagni intrise di sudore, accatastate su scaffali di legno marcio». Suonare il violino era per lui una preparazione al suicidio e un modo di sfuggire al suicidio, concentrandosi nellatto del suonare. Anni dopo sarà lo scrivere stesso, per Bernhard, una metodica esplorazione dellorrore e insieme lunica mossa efficace per sfuggirgli. Lorigine apparve per la prima volta nel 1975. -
Dalla pancia di un orso bianco
Dei racconti di Roberto Vigevani si potrebbe dire: sono storie tristissime, scosse però da un insopprimibile riso. Lautore infatti sembra servirsi della sua straordinaria forza comica per smuovere il peso di ossessioni lancinanti, che ritroviamo variate in tutte le sue storie: disparati resoconti da una terra fantastica che ci è sinistramente familiare (e non è un caso che molti abbiano notato delle rassomiglianze fra luniverso di Vigevani e quello di Woody Allen). Con lo sguardo micidiale del vero scrittore satirico, Vigevani sa scegliere e centrare i suoi bersagli: incontriamo così, in queste pagine, un appassionato lettore di materiale illustrativo dei trenini elettrici Spintermore, che certi suoi parenti americani dovrebbero mandargli e non gli manderanno mai, e che lui tuttavia non smette di aspettare, con la disperata fiducia di chi, almeno, capisce «limportanza dei cataloghi»; un decoratore ricoverato in manicomio che osserva con tranquillo scherno i nuovi esperimenti terapeutici condotti su lui stesso e i suoi compagni di reclusione da un gruppo di psichiatri illuminati; un funzionario della televisione che finisce per essere ammesso nello stesso ospedale in cui è riuscito a far ricoverare sua madre, unica soluzione rimastagli avendo egli progressivamente tagliato ogni contatto con la realtà (compresa sua moglie) per assistere appunto la terribile madre la quale, nonostante le precarie condizioni di salute, partirà per un lungo viaggio in Europa: ma non con lui... I personaggi di queste storie hanno da gran tempo rinunciato a capire ma continuano a cercare di rendersi ragione del proprio stato: e intanto guardano il mondo, come «dalla pancia di un orso bianco», con occhi penetranti e stupefatti. -
Il libro dell'esperienza
Per la maggior parte dei contemporanei, Angela da Foligno non è che un fantasma. L’oscurità che circonda la sua vita (visse nella seconda metà del Duecento, ma i tratti biografici sono sfuocati) e i suoi testi (trascritti da altri e volti in latino dall’originale parlata umbra) sembra d’altra parte costituire la sua cifra. La personalità di Angela è ambigua, cangiante: Huysmans la definì «la più amorosa fra le sante», ma per Bataille, che ne fu folgorato, era la donna del delirio notturno, l’emblema stesso delle tenebre del veggente. Chi fu allora Angela da Foligno? Una penitente illetterata dedita a terrificanti pratiche ascetiche, una visionaria dai comportamenti sfrenati, spinti al limite della follia, o una «grande metafisica» della vita mistica? Questa antologia, curata da Giovanni Pozzi, senza dubbio uno dei più profondi conoscitori della letteratura mistica, consente finalmente di ritrovare, nei suoi aspetti più significativi, l’esperienza interiore e la fisionomia intellettuale di Angela, e di scoprire come in lei convivano, in maniera sorprendente, «una passionalità smisurata e corposa e una capacità speculativa sottile e inquieta» (Pozzi). E se per Angela la parola è inganno blasfemo ogniqualvolta è chiamata a rappresentare l’ignoto, nondimeno il suo stile, disadorno e aspro, in cui i pensieri sembrano tumultuare per superare ogni limite, non mancherà di affascinare il lettore. L’ampio saggio introduttivo di Pozzi ricostruisce inoltre lo scenario su cui Angela si mosse: quello straordinario brulicare di «languori, estasi, lacrime, visioni, malattie misteriose» che nell’Italia della seconda metà del Duecento consentì alla donna di affermare per la prima volta la sua presenza nella vita della Chiesa e di dar vita a un nuovo genere letterario, quello delle «rivelazioni». -
Journal
Ultima di nove figli di Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni, Matilde morì tisica nel 1856 a soli ventisei anni. Una vita breve e dolorosa, segnata dalla malattia, ma soprattutto dall’esperienza dell’abbandono. Nel 1851, quando scrisse il Journal, Matilde viveva ormai da anni in Toscana, ospite della sorella Vittoria e del cognato Giovanni Battista Giorgini: la madre, scomparsa nel 1833, non era che un ricordo venerabile e sbiadito; il padre, enigmatico e irraggiungibile, un’effige da contemplare con mai rassegnato e mai soddisfatto desiderio di intimità famigliare. Una vita, si direbbe, destinata a non lasciare tracce. Eppure il diario che Matilde tenne per pochi mesi, dal 1° gennaio al 26 marzo – e in cui si affollano vite e persone diverse, affetti, letture –, rivela, nella disadorna semplicità della lingua, mista di francese e italiano, una sensibilità acuta e una sorprendente originalità di giudizio. Questo diario è rimasto sino a oggi inedito e sconosciuto: lo proponiamo qui certi che il lettore non potrà sottrarsi al fascino sottile e insinuante che si sprigiona da questa «minuscola, preziosa goccia di vita intima», specchio fedele, fra l’altro, del «piccolo splendore provinciale della società pisana tra nobiltà e borghesia negli anni delle guerre d’indipendenza» (Garboli). E fra le sorprese che il Journal e le carte di Matilde riservano spicca l’incontro – inaspettato e folgorante – tra la figlia di Alessandro Manzoni e i Canti di Leopardi: «Quello che colpisce, nel leopardismo di Matilde, non è la sua quotazione letteraria. È l’unicità, l’irripetibilità del momento, del tempo in cui Matilde legge i Canti: il momento perfetto, magico in cui questa lettura cade. Nessuno ha mai letto i Canti come Matilde, e nessuno potrà più farlo». -
Gradini verso la vita. L'evoluzione prebiotica alla luce della biologia molecolare
Come Prigogine, Manfred Eigen è uno di quegli scienziati che hanno contribuito in modo decisivo a fondare la disciplina di cui trattano. Premio Nobel per la chimica nel 1967 (a quarantanni), si è poi dedicato ai processi chimici della biologia molecolare, e quindi allo studio di quel passaggio misterioso dellevoluzione che conduce dallinorganico alla vita (sviluppando anche la sua teoria delliperciclo, che ha avuto notevolissime conseguenze). Dopo quellaffascinante visione globale che è Il gioco, pubblicato da Adelphi nel 1986, in questo libro Eigen si è spinto ancora più avanti nella ricerca su quei «gradini» dellevoluzione dove nasce lentità detta «informazione» allinterno della quale, a sua volta, si manifestano tutti i significati e dove la nozione di «complessità» produce un passaggio dalla quantità alla qualità che è forse loggetto centrale dellindagine scientifica oggi. Come già nel Gioco, anche qui Eigen si rivela abilissimo espositore di teorie quanto mai difficili, tanto da trasmettere a qualsiasi lettore intelligente e attento il senso, non poco ambizioso, di queste ricerche: «Rendere chiari e intuitivi i princìpi dellevoluzione, integrandoli in una visione unitaria del mondo fisico». Gradini verso la vita è apparso per la prima volta nel 1987. -
Migrazioni. Vol. 1
Migrazioni è un epos possente dove si mescolano i destini di alcuni singoli e quelli di un intero popolo. Siamo nel 1744, nella Vojvodina, al confine tra lImpero austro-ungarico e quello ottomano. I Serbi che abitano in questa terra, dove sono giunti con unepica migrazione cinquantanni prima, sono fedeli servitori dellImpero austriaco e ne combattono le guerre, ma al tempo stesso, in quanto ortodossi, se ne sentono estranei. I tre protagonisti, il nobile Vuk Isakovic, suo fratello Arandjel e sua moglie Dafina, incarnano nelle loro passioni dominanti, la guerra, il commercio, lamore, la stessa perenne ricerca di qualcosa cui ancorare il proprio esistere, dell«evento straordinario che, come il cielo, tutto avvolgesse e completasse». Questo immenso romanzo, di cui qui pubblichiamo la prima parte (apparsa nel 1929), è dominato da un senso di smarrimento e sradicamento, dalla nostalgia di ogni patria perduta e dal sogno di ogni terra promessa, nonché dalla percezione di un fluire perenne, cieco e rabbioso, di correnti sotterranee che bagnano le radici della storia. Crnjanski concepì questopera, considerata universalmente il suo capolavoro, come ununica visione, che lo accompagnò ossessivamente per più di trentanni. Per il suo soffio insieme epico e lirico, per la mirabile cesellatura dei personaggi, per levidenza del dettaglio e la vastità della visione, questo libro sta del tutto a parte nel nostro secolo e si impone come una delle prove più alte dellarte del romanzo moderno. Migrazioni è lopera centrale di Milo Crnjanski (1893-1977). Pubblicata fra il 1929 e il 1962, viene considerata un classico moderno. La traduzione francese, apparsa nel 1976, fu accolta come una rivelazione. -
Tempo di spettri
In quegli anni e in quei luoghi dove tutti avevano «paura perfino della loro ombra», quando la turbinosità spettrale degli eventi raggiunse lapice, nella Russia dove i bolscevichi da poco erano al potere e dove tutti sospettavano di tutti, si avvia la catena inesorabile dei fatti raccontati in questo romanzo. Allinterno di una generale caccia alluomo, seguiamo la caccia di un singolo da parte di un singolo, una partita segreta, incalzante, ossessiva. Dalla Russia alla Turchia, alla Francia, allItalia, a Vienna continua a rotolare linvisibile «melina» di cui parla una canzone. E nessuno sa dove finirà. Intanto cadono vittime inconsapevoli sulla strada dellinseguitore, che le guarda appena, perché fissa nella mente ha limmagine della sua preda, «che attraversava la vita col frustino in mano, azzimato e sporco di sangue, lassassino profumato». «Della parola genio si è abusato a lungo, sino a farle perdere senso e valore, altrimenti avrei definito questo libro semplicemente geniale» scrisse Ian Fleming a Perutz a proposito di Tempo di spettri. Linventore di James Bond vi aveva subito riconosciuto la prova magistrale di unarte del suspense spinta allestremo. Ma cera anche qualcosa di più: in questo romanzo, che si presenta come una pura, sinistra scansione di eventi, un metafisico fuoco fatuo li accompagna tutti, senza mai essere nominato, sfuggente e sovrano. Tempo di spettri apparve per la prima volta a puntate nel 1928 su un giornale berlinese e fu subito accolto da uno strepitoso successo. -
La veneziana e altri racconti
La veneziana comprende una sequenza di racconti scritti in russo da Nabokov, quasi tutti fra il 1923 e il 1925. È questo il periodo che rimane in gran parte da scoprire della sua opera (fino a tempi molto recenti quattro di questi racconti, incluso La veneziana, erano inediti anche in russo, mentre tutti lo sono per l’Italia). Qui Nabokov si mostra già maturo e gioca su mutevoli scenari: la Russia perduta, l’Inghilterra degli studi universitari, la Svizzera di brevi vacanze sulla neve, la Germania, nuova patria casuale e non amata. Ciascuno di questi scenari, che poi rimarranno inevitabili nella geografia mentale di Nabokov, è una sfida per una divorante vocazione narrativa, per una scrittura che sonda con felice stupore le sue latenti possibilità, i suoi molteplici toni e registri. Il giovane letterato russo in esilio sfodera le sue armi senza tremori o esitazioni: ha già individuato il nemico, e alle scontate ma sempre pericolose manovre del «realismo» oppone la gioiosa e massiccia offensiva di un iridato linguaggio ricco di accostamenti imprevisti, fulminee diversioni spazio-temporali, una già smaliziata strategia dell’illusione e del trompe-l’oeil. Così le minime cose dell’anima e del mondo vengono trionfalmente sottratte alla tirannia del tempo e ricomposte in un nuovo arabesco, in una nuova armonia dove nulla è brutto, casuale. Plumbeo e tremendo se guardato con l’austero e presuntuoso pince-nez dell’«obiettività», il reale rivela suoni e colori prodigiosi a chi lo osserva attraverso il diafano cristallo magico del gioco, dell’ironia, della pietà, dell’amore, della creazione artistica. -
Un dramma borghese
Questo romanzo è la storia dell’amore impossibile fra un padre e una figlia che quasi non si conoscono e si ritrovano insieme, per qualche settimana, in un albergo sul lago di Lugano. Il padre è il corrispondente da Bonn di un grande giornale di Milano (in cui sarà facile riconoscere il «Corriere della Sera»), uomo disincantato, lucido, pieno di soprassalti della memoria, di idiosincrasie, di occultate amarezze e nostalgie, ma al tempo stesso con qualcosa di eternamente adolescente, agile e acerbo; la figlia è una ragazza di diciotto anni, che è stata messa in collegio dopo la morte della madre e ben poco ha visto del mondo, ma vive una sua vita intensa di fantasticherie grandiose, di passioni sospese e avvolgenti. La loro convivenza in albergo sviluppa, si può dire fatalmente, un terribile amore: soprattutto da parte della figlia, prorompente e ingenua, eppure dotata di una strana maturità, che rende il rapporto col padre tanto più paradossale. Questa figlia, infatti, non gli si vuole offrire come amante, ma come moglie, e oltre tutto come una moglie protettiva, conscia di quel lato infantile che al padre, poi, appartiene realmente. Diviso fra l’attrazione e la ripulsa per questa «calamità» che si abbatte sulla sua vita, mentre tenta vanamente di fare chiarezza in se stesso e nel suo passato, il padre crede di sfuggire all’incesto buttandosi in una rapida avventura con un’amica della figlia. Ma questo non farà che aiutare il gioco a precipitare nel dramma. La vicenda ha luogo in un tempo sospeso, che può essere anche oggi. Il décor svizzero è accennato con pochi, sapientissimi tocchi, come anche una certa atmosfera di morosità lacustre in cui è immersa la vicenda. Domina, invece, l’opera paziente dello scandaglio psicologico, l’indagine sulle ombre della psiche, sui guizzi dei desideri, e in questo Morselli si muove con la stessa precisione e sicurezza con cui sapeva ricostruire l’operazione militare di cui si parla in Contro-passato prossimo. Spostando continuamente la luce dal giornalista, convinto di essere corazzato dall’esperienza, alla giovane figlia, che alla vita non ha fatto ancora in tempo neppure a esporsi, Morselli riesce a delineare con straordinaria finezza quella zona intermedia in cui questi due personaggi, fino allora vissuti in mondi senza contatto, si incontrano e si scoprono fino a scoprirsi complici e a spaventarsi della propria complicità, sfuggendola e ricadendovi in un circolo senza uscita. -
L' uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
Fra tutti i libri di René Guénon Luomo e il suo divenire secondo il Vêdânta è forse quello che più di ogni altro mostra limpalcatura del suo pensiero. Sottintendendo, naturalmente, che tale pensiero non pretende di inventare nulla, ma soltanto di esporre con la massima precisione un pensiero che da sempre è: la Tradizione primordiale, la cui dottrina, secondo Guénon, non traspare mai con altrettanta precisione come nel pensiero vedantico. Ma che cosè il Vêdânta? Una delle sei «visioni» (darshana) che, secondo le più antiche testimonianze indiane, ci permettono di capire ciò che è. Tutte vere, ma ciascuna in rapporto a un certo livello della realtà. Il più alto, che consente di inglobare in sé ogni altro, è appunto quello del Vêdânta, «il ramo più puramente metafisico di tali dottrine». Così si può dire che il Vêdânta è una sorta di dottrina suprema. Nessuno ha saputo esporla in Occidente con levidenza assoluta che incontriamo in questo libro di Guénon. E nessuno ha saputo sgombrare il campo, con gesto altrettanto autorevole, dai numerosi, tipici equivoci occidentali intorno a tale dottrina, considerata da tanti una filosofia o una religione o «qualche cosa che partecipa più o meno delluna o dellaltra», mentre non è in verità nulla di tutto questo. Come scrisse Daumal: «Se Guénon parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda». È perciò naturale che proprio in questo libro Guénon si soffermi sugli aspetti costitutivi, sulla composizione fondamentale delluomo, del mondo e della realtà extra-cosmica e a queste pagine occorre sempre tornare quando Guénon, in altre opere, applica le categorie qui delineate. Luomo e il suo divenire secondo il Vêdânta apparve nel 1925. -
Betty
Una bella donna dalla condotta scandalosa approda sullo sgabello di un bar degli Champs-Élysées, con la testa confusa dall’alcol. Che cosa c’è dietro? Per lo meno una magistrale indagine nelle zone più remote e più torbide della psiche femminile. -
La strage delle illusioni
Non tutti forse sanno che nelle opere leopardiane si cela una vasta e acuminata riflessione storico-politica, rimasta sinora sostanzialmente inesplorata ma degna di figurare tra i classici del genere, da Machiavelli a Tocqueville. Ancorato a una concezione radicalmente negativa della storia, aspramente critico nei confronti della civiltà e del progresso ma al tempo stesso «intatto da superstizioni razionalistiche, come da tentazioni teologiche, sapienziali o morali», Leopardi è un penetrante sintomatologo, capace di scrutare con efferata lucidità «il corpo mostruoso della società e della storia»: la sua visione è «estrema, intimamente divisa e necessariamente irrisolta, ma di rado arbitraria, perché alle astrazioni della scienza storica e dell’utopia politica egli opponeva un’incessante osservazione “fisiologica” dell’uomo e delle cose» (Rigoni). Questa antologia si propone di offrire una scelta ampia e rappresentativa dei pensieri leopardiani sulla politica e sulla civiltà – tratti soprattutto dallo Zibaldone e dall’epistolario. Il lettore vi scoprirà riflessioni di inquietante attualità: sul dissolversi delle nazioni nei governi, sulla polarità «amico-nemico», sulla natura stessa della politica, divenuta occulta e sotterranea – tanto che «si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi» –, sull’irreversibile livellamento della società, e altre ancora. Non manca, nella meditazione di Leopardi, la sfiduciata visione di un’Italia perduta, inabissata nel cinismo e incapace – a differenza di altri paesi – di sopravvivere alla «strage delle illusioni»: «O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile [...] o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto».