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Il terzo poliziotto
«Avete mai visto una bara di bicicletta?». Lettore, questo è l’unico romanzo al mondo dove una domanda del genere può suonare perfino troppo ovvia. Come anche apparirà ovvio che un Sergente di polizia consideri gli umani compenetrati di bicicletta – un po’ come, secondo la teoria di un altro poliziotto, tutto l’universo è riducibile a una sostanza fondamentale, detta omnium. Ma come si può giungere a un tale stato di cose? Innanzitutto assistendo a un assassinio efferato. E poi accompagnando uno degli assassini in una stazione di polizia sperduta tra fradice torbiere. Qui la prosa ci avverte che siamo entrati in un luogo dove valgono, se valgono, nuove leggi della materia e dello spirito. Bianca, piatta, come dipinta su un cartellone, quella stazione di polizia sembra possedere una dimensione in meno del reale, «lasciando senza significato le rimanenti». Non solo: «tutta la mattina e tutto il mondo sembravano non avere altro scopo che quello di farle da cornice». Guardandola, l’assassino presagisce in quella casa «la più grande sorpresa che avessi incontrato, e ne ebbi paura». Giusta reazione. Ma non guasteremo al lettore quella sorpresa. Mentre gli proponiamo, come viatico, alcune righe dello scienziato e metafisico de Selby, l’uomo che portò alla massima prossimità la demenza e il genio, e che qui fa da contrappunto a ogni avventura: «Giacché l’esistenza umana è un’allucinazione che contiene in sé la secondaria allucinazione del giorno e della notte (quest’ultima un’insalubre condizione dell’atmosfera dovuta ad accumulazioni di aria nera), all’uomo di senno non si addice preoccuparsi dell’illusorio approssimarsi di quella suprema allucinazione che è conosciuta col nome di morte». -
Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime
«Pochi scrittori, in ogni tempo, hanno eguagliato la sua audacia, la sua insolenza nel porre quelle domande da bambino sfacciato che hanno sempre avuto il potere di gettare nel panico i filosofi» ha scritto Miłosz su Šestov, toccando il punto nevralgico della sua opera. Oggi più che mai sentiamo il bisogno di quelle «domande da bambino sfacciato» e dei libri di questo scrittore che fu una delle più alte intelligenze del suo tempo, una voce sottile, penetrante e limpida, il cui timbro continua a vibrare quando già si è spento il suono di molte altre voci più clamorose. Šestov fu per eccellenza il pensatore del conflitto Atene-Gerusalemme, la perenne tensione su cui si fonda la nostra civiltà. Spirito scettico e insieme mistico, conoscitore di tutti i meandri della speculazione, scriveva libri dalla forma agile, conversativa, mai trattatistica, dove i problemi ultimi della metafisica diventano episodi di un viaggio segreto e intimo. Perfetto esempio di tutto questo è Sulla bilancia di Giobbe, opera della piena maturità di Šestov. Questo libro, come dice il suo sottotitolo, è una vera «peregrinazione attraverso le anime» – e si tratterà spesso di anime molto difficili da avvicinare, come quelle di Dostoevskij, di Tolstoj, di Pascal o di Plotino, che pochi come Šestov hanno saputo cogliere nella loro peculiarità. Giunti alla fine, apparirà naturale che il libro sfoci su questa frase non dimenticabile: «La verità s’introduce nella vita senza presentare documenti giustificativi». -
Il cavaliere svedese
Leo Perutz è riconosciuto maestro di una specie particolare del fantastico: quella che si insinua nella realtà come una goccia di veleno, e la trasforma dall’interno in un’avventura demoniaca, senza che ci sia bisogno di ricorrere a troppo evidenti apparati di prodigi. Ma l’effetto è ancora più inquietante. Nel Cavaliere svedese, sullo sfondo fosco di un’ Europa di briganti, dragoni e locandieri all’inizio del Settecento, si racconta la storia di un ladro vagabondo che ruba l’identità a un giovane cavaliere svedese, diventando così egli stesso un potente che riesce ad attuare tutti i suoi sogni. Ma la potenza del «barone del malefizio» aleggia, palpabile e imprendibile, su questa vicenda. E il Diavolo sa riapparire sempre, per lo meno quando la partita giocata con lui si avvicina alla fine. -
Vita del lappone
Johan Turi era un lappone con gli «occhi azzurri raggrinziti dal vento e dalle intemperie» che visse molti anni cacciando e guidando mandrie di renne, come tutta la sua gente. A lungo questo libro si elaborò nella sua mente, in silenzio. Pensava che tutto il male incombente sui lapponi, ormai trattati come «cani stranieri», fosse dovuto alla scarsa conoscenza della loro vita che avevano i popoli vicini. Così tentò di raccontare quella vita, con la massima precisione e sobrietà. Non sapeva che in quel momento stava offrendo risposte preziose a quesiti che sempre torniamo a porci: che cos’è un nomade? Che cos’è un cacciatore arcaico? Che cosa significa vivere in simbiosi con un animale (in questo caso la renna)? Attraverso le sue parole sentiamo risuonare una voce ammutolita da tempi molto antichi. E, dice Johan Turi, «nei tempi antichi ogni cosa sapeva parlare, tutti gli animali e gli alberi e le pietre e ogni cosa sulla terra, e così parleranno anche al momento del giudizio finale». Johan Turi nacque nel 1854, quando già i lapponi cominciavano a essere maltrattati e perseguitati da norvegesi e finlandesi. La Vita del lappone, nelle sue intenzioni, doveva servire a illuminare lo spirito della sua gente, che gli stranieri non capivano e i lapponi stessi non riuscivano a spiegare, perché il lappone – come dice Turi – «non capisce molto quando sta dentro una stanza chiusa, quando il vento non gli soffia nel naso». Turi diede forma definitiva al suo libro, con l’aiuto prezioso dell’artista danese Emilie Demant, che condivise la sua vita in Lapponia nel 1907-1908. La prima edizione della Vita del lappone, annotata dalla Demant apparve in edizione bilingue (lappone e danese) nel 1910. Il libro ebbe immediatamente fortuna ed è oggi considerato il primo grande classico della letteratura lappone. Qui ne presentiamo la prima edizione italiana. -
Il comunista
Il comunista racconta un caso di dissenso ideologico, ma non è un romanzo ideologico. Anche se è impressionante l’anticipo con cui questo romanzo, scritto nel 1964-65, tocca problemi e prospettive degli anni successivi, bisogna dire che qui a Morselli preme soprattutto ricomporre uno strato di realtà, un agglomerato di psicologie, di modi di vita, di affinità e di conflitti all’ombra di via delle Botteghe Oscure. Come ogni vero romanziere, Morselli non si preoccupa di giudicare, ma di dare vita e forma. Così, il quadro che ci mostra abbraccia insieme gli elementi più grandiosi e affascinanti come quelli più duri e meschini della vita interna del P.C.I., senza che mai quei caratteri siano usati per una dimostrazione. In questo gioco di continui contrasti, brutali e sottili, Morselli riesce a dare spessore al destino di un personaggio incancellabile: il chiuso, patetico, lucido Ferranini – troppo serio, troppo brusco, tagliato con l’accetta in un legno ruvido, passionalmente attaccato al suo partito eppure incapace di sopprimere delle convinzioni maturate lentamente dal basso, durante anni di solitarie elucubrazioni. Come già nei suoi romanzi precedenti, anche questa volta Morselli sa calarsi con prodigioso mimetismo in una nuova realtà, il P.C.I., presenza imponente nella vita italiana, forse troppo imponente se finora i romanzieri italiani sembrano essersi del tutto bloccati davanti a essa. È perciò quasi un’altra ironia della sorte, fra le molte legate al suo nome, che a cimentarsi in questa difficile impresa, e a riuscire nella prova, sia stato un outsider in ogni senso come Morselli, aiutato soltanto dalla sua rara capacità di aprire le porte di mondi sigillati e da una chiaroveggente attrazione per il concreto. -
Le parrocchie di Regalpetra
«È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io». Così Sciascia stesso. E tutti i suoi lettori amano ritrovare in questo libro, che è del 1956, le fila della complessa trama dei libri che Sciascia avrebbe scritto in seguito. Qui gli elementi sono tutti riconoscibili: la riflessione storica (sul passato di questo paese che «confina nell’immaginazione» con Racalmuto ed è la sua verità), l’osservazione precisa di una realtà circoscritta, la notazione diaristica, la creazione di caratteri delineati in pochi tratti, la tensione nascosta della prosa, la percezione della «Sicilia come metafora», la tranquilla impavidità nel nominare la realtà sociale (e tra l’altro la mafia, che allora non usava nominare nei libri, o la vita delle zolfare e delle saline). Ma quello che oggi più colpisce in questo libro è la perfetta naturalezza, l’equilibrio in cui questi elementi convivono, formando un insieme che rimarrà memorabile. -
La casa di Adamo in Paradiso
Alcuni grandi maestri dell’architettura moderna, come Le Corbusier, Adolf Loos, F.L. Wright, ricorsero in momenti decisivi della loro evoluzione, proprio quando si trattava di introdurre radicali innovazioni, a una mitologia appena velata delle origini del costruire, quasi inseguendo l’immagine di una prima casa, giusta perché prima, perduta ma sempre presente in noi come archetipo. L’immagine dell’abitazione originaria non si ritrova però soltanto nei testi dei teorici dell’architettura: in questo labirintico percorso a ritroso si incontrano dei grandiosi complessi mitologici e rituali che chiaramente si riferiscono allo stesso tema, e ad alcuni di essi – greci, ebraici, mesopotamici, giapponesi e australiani – Joseph Rykwert ha dedicato la seconda parte della sua appassionante e originalissima ricerca. I materiali preziosi, e spesso scarsamente conosciuti, di cui si tratta in questo studio bastano a rendere la lettura affascinante per chiunque sia interessato a tali problemi. Ma in esso si riconoscerà anche un’intenzione rivolta al presente, e in particolare agli architetti che oggi costruiscono: riflettere, come per secoli è stato fatto, sulla «casa di Adamo in Paradiso» non è altro che affrontare direttamente le ragioni fondamentali del costruire e dell’abitare, in rapporto a tutta la nostra vita, ed è perciò un’impresa perennemente attuale e necessaria, perché «il paradiso è un ricordo e, insieme, una promessa». -
Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum»
Del Nomos della terra si potrebbe dire che sta al diritto internazionale e alla filosofia politica del nostro tempo come Essere e tempo di Heidegger sta alla metafisica: opere inevitabili, che faranno sempre discutere e alle quali sempre si tornerà. Carl Schmitt pubblicò questo libro nel 1950, quando ancora si trovava in una posizione di totale isolamento in Germania. Ma proprio in quest’opera, che è un po’ la summa del suo pensiero giuridico e politico, si sollevò nettamente al di sopra di ogni contingenza. E questo gli permise di aprire la prospettiva su fatti che in quegli anni erano impensabili: per esempio il terrorismo o la guerra civile globale come agenti decisivi del futuro. A questi risultati Schmitt giunge attraverso una disamina minuziosa delle varie teorie che sono apparse nell’epoca aurea dello jus publicum Europaeum, dimostrando una volta per tutte che, per sfuggire alla furia delle guerre di religione, il gesto salutare è stato la rinuncia allo justum bellum. Di conseguenza, il delicato passaggio dalla justa causa belli allo justus hostis ha reso possibile «il fatto stupefacente che per duecento anni in terra europea non ha avuto luogo una guerra di annientamento». In quel breve intervallo lo jus publicum Europaeum si combinava con l’avviarsi del funzionamento della machina machinarum, «prima macchina moderna e insieme presupposto concreto di tutte le altre macchine tecniche»: lo Stato moderno. Allora la «guerre en forme», questo gioco crudele, salvato però dal rigore della sua regola, conferiva una nuova unità a un certo ambito spaziale (una certa parte dell’Europa) e lo faceva coincidere con il luogo stesso della civiltà. Poi il gioco si frantuma dall’interno: nell’agosto 1914 comincia una guerra che si presenta come tante altre dispute dinastiche – e invece si rivela subito essere la prima guerra tecnica, che nega già nel suo apparato ogni possibilità di «guerre en forme». Così emerge anche la guerra rivoluzionaria, variante finale della guerra di religione, sigillo delle guerre civili. La forma moderna della verità, la più efficace, la più distruttiva, è tautologica: ciò che è rivoluzionario è giusto perché è rivoluzionario: con ciò si ripropone e trova sbrigativa risposta la questione della justa causa belli. -
Il freddo. Una segregazione
Il freddo racconta il periodo passato da Thomas Bernhard, fra i diciotto e i diciannove anni, nel sanatorio pubblico di Grafenhof. Ed è la storia di un’altra lotta durissima per la sopravvivenza, dove la malattia che assale il giovane Bernhard è al tempo stesso una malattia terribilmente fisica – legata a una specifica persecutorietà ambientale e sociale – e una malattia dell’anima, come già indica l’epigrafe di Novalis, che è la chiave del libro: «Ogni malattia può essere definita malattia dell’anima». In questa vicenda di un «inabissarsi» in una «comunità della morte», per poi riemergerne quando tutto sembra perduto, arricchito dalla scoperta che «la via dell’assurdo è la sola praticabile», e quasi salvato dalla musica (a cui allora contava di dedicarsi), Bernhard ci offre il penultimo, possente pannello della sua autobiografia, impresa solitaria e altissima della letteratura del nostro tempo. -
Ariosto
Ariosto, si è detto per secoli, è poeta incantevole, seducente, invincibile. Ma perché i suoi versi agiscono in questo modo? Qual è il loro segreto? Perché continuano a incantarci? Croce si pose tali interrogativi e riuscì a rispondervi con questo saggio, che rimane fra le sue opere in assoluto più felici e quasi come dimostrazione in atto di che cosa possa voler dire la sua celebre distinzione fra poesia e non poesia. In Ariosto, Croce isola «l’armonia» come centro occulto dell’Orlando furioso, ma soprattutto ci fa vedere, attraverso molteplici esempi, che cosa di fatto sia, come si articoli, come si difenda questa armonia. Rare volte la teoria e la pratica di un filosofo della letteratura hanno coinciso così perfettamente come in questo testo. Ariosto fu pubblicato per la prima volta in volume nel 1920. -
La Parma di Stendhal
La Parma di Stendhal è un luogo perfettamente definito della letteratura. Ma sottili, complicati e sorprendenti sono i suoi rapporti con la Parma vera, la Parma storica. Luigi Foscolo Benedetto, uno dei più grandi filologi e critici italiani del nostro secolo, lo ricostruì con mirabile perizia in questo libro del 1950, qui pubblicato per la prima volta nella versione rivista dallautore. Dalle sue ricerche apparirà in piena chiarezza come la Certosa di Parma non fosse solo «una fola ariostesca», ma una vicenda piena di allusioni e rimandi alla realtà storica di un luogo che stava a rappresentare per Stendhal «il paese dei briganti, dellarbitrio e delle avventure». Quella piccola città, con la sua piccola corte, servì poi a Stendhal come attraente pretesto per insinuare osservazioni che si riferivano piuttosto a tutta lItalia «asfissiata dal dispotismo» e, dietro di essa, allEuropa. Così Foscolo Benedetto è riuscito, con una fedeltà al dettaglio che ricorda quella di Mario Praz, a illuminare al tempo stesso unopera letteraria che non finisce di affascinarci e la realtà storica da cui è sbocciata e di cui molto abbiamo da scoprire. -
L' arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi
Questo trattatello, vera perla nascosta negli scritti postumi di Schopenhauer, qui per la prima volta tradotto in italiano, venne elaborato «come un pulito preparato anatomico» per dare una sistemazione formale agli «artifici disonesti ricorrenti nelle dispute». Schopenhauer fornisce trentotto stratagemmi, leciti e illeciti, a cui ricorrere per «ottenere» ragione: per difenderla quando la si ha, e per farsela dare quando sta dalla parte dell’avversario. Lettura attraente e quanto mai utile: con freddezza classificatoria Schopenhauer ci indica «le vie traverse e i trucchi di cui si serve l’ordinaria natura umana per celare i suoi difetti». Ma, nello stesso tempo, si tratta di un testo che si situa in un crocevia memorabile del pensiero moderno: negli stessi anni in cui Hegel indicava nella dialettica la via per giungere al culmine dello Spirito, il suo irriducibile antagonista Schopenhauer la raccomandava come fioretto da impugnare in quella «scherma spirituale» che è il discutere, senza badare alla verità. Contro Hegel, Schopenhauer si presenta qui come un «maestro di scherma che non considera chi abbia effettivamente ragione nella contesa che ha dato origine al duello», ma si preoccupa unicamente di insegnare a «colpire e parare», giacché «questo è quello che conta». Le ragioni sottintese in questo duro contrasto sono illustrate nel saggio di Franco Volpi che accompagna il testo. -
L' ultimo scalo del Tramp Steamer
Si chiamano Tramp Steamer certi carghi «di scarso tonnellaggio, non appartenenti alle grandi compagnie di navigazione, che viaggiano di porto in porto cercando carichi occasionali da trasportare dove che sia». Uno di questi Tramp Steamers, una sorta di vascello fantasma, limmagine stessa dellavventura solitaria, seguiremo affascinati nelle pagine di questo romanzo, dallaria ghiacciata del Baltico dove ci appare per la prima volta, come unallucinazione, sino a scali perduti del Sud America. La storia del Tramp Steamer, del suo lento naufragare, sarà intrecciata, fino quasi a coincidere, con quella del suo capitano, il basco Jon Iturri e del suo grande amore, la giovane libanese Warda. E il lettore si sentirà attratto sino alla fine da questa storia come il capitano Iturri si sente irresistibilmente attratto dal suo vecchio cargo a riprendere sempre la via del mare. In questo romanzo Álvaro Mutis, che viene oggi scoperto in tutto il mondo come uno dei maggiori scrittori viventi, sembra risalire la corrente, con il felice Tramp Steamer della sua prosa, a una delle sorgenti ultime di ogni narrazione: il racconto del marinaio. Lultimo scalo del Tramp Steamer è apparso per la prima volta nel 1988. -
David Strauss. L'uomo di fede e lo scrittore
David Strauss, studioso del cristianesimo e saggista, sarebbe oggi generalmente dimenticato se Nietzsche non lo avesse scelto come bersaglio di questa «Considerazione inattuale». Ma non era certo la persona e l’opera di Strauss che interessavano Nietzsche: piuttosto, attraverso di esse, volle delineare il ritratto del «filisteo della cultura», puro prodotto della Germania del suo tempo, in cui intravedeva un penoso modello per le età future. Come anche nelle altre «Inattuali», Nietzsche è chiaroveggente sul movimento nascosto della società, e soprattutto su quella edulcorazione e stravolgimento dell’idea stessa di cultura che saranno poi all’opera incessantemente fino a oggi, e continueranno a riprodurre le schiere sempre fitte dei «filistei della cultura». -
Ecce homo. Come si diventa ciò che si è
Nell’autunno del 1888, nelle febbrili settimane che precedettero l’«euforia di Torino» e il successivo, definitivo silenzio, vennero scritte queste pagine che rimangono una delle vette stilistiche di Nietzsche e insieme un tentativo senza precedenti (e senza conseguenti) di capire se stessi non già sciogliendo gli enigmi, ma moltiplicandoli. Non è solo una vita, ma un’opera e una forma, in una parola: la singolarità di Nietzsche che qui viene illuminata in una sorta di messa in scena totale, dove i due poli di Nietzsche – l’uomo dionisiaco e il commediante – in un attimo abbagliante vengono a coincidere per rivelarci «come si diventa ciò che si è». -
Della pittura italiana. Studi storico-critici. Le gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma
Di Giovanni Morelli è stato detto che la sua opera sta alla critica darte come quella di Freud alla psicologia (e di fatto fu Freud stesso a ipotizzare un parallelismo fra la tecnica psicoanalitica e il metodo morelliano). Questo grande conoscitore, dallo spirito impertinente, antiaccademico e mistificatorio, è infatti linventore di un «metodo» che rivoluzionò le attribuzioni di celebri quadri nei più grandi musei dEuropa (nel solo museo di Dresda cinquantasei quadri cambiarono firma in seguito a scoperte di Morelli). Quel metodo si fondava sullesame stilistico della esecuzione di certi dettagli anatomici (per esempio la forma di ununghia o il lobo dellorecchio) e da questi tratti stilistici risaliva allautore. Morelli scrisse il suo libro fondamentale, Della pittura italiana, in tedesco e lo pubblicò nel 1890 con lo pseudonimo Ivan Lermolieff. Lopera fece scalpore, anche perché in essa per la prima volta Morelli esponeva il suo metodo di attribuzione, illustrandolo con numerosi esempi sensazionali: per esempio, lidentificazione di alcuni ritratti di Raffaello, in precedenza attribuiti ad altri, di opere di Dosso Dossi e Piero di Cosimo. Ledizione italiana, curata da Gustavo Frizzoni, amico di Morelli, nel 1897, da allora non è stata più ristampata. Ma linfluenza di questopera è stata immensa e ultimamente, soprattutto attraverso gli studi di Edgar Wind, è stata rivendicata anche limportanza di Morelli come teorico. Diversi aspetti della vita e del carattere di Morelli erano tuttavia rimasti in ombra, e la presente edizione porterà molte novità anche in questo senso. La curatrice, Jaynie Anderson, ha infatti avuto accesso ad archivi sino ad ora ignoti e ha così ricostruito per la prima volta un sorprendente profilo biografico di Morelli, accompagnando poi il testo con una puntuale analisi delle complicate vicende, sino a oggi, dei quadri da lui attribuiti. -
La filosofia nell'epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873
Negli anni 1870-1873, fra i più creativi di Nietzsche, incontriamo una continua oscillazione fra il filosofo, il filologo, il polemista e il poeta. Partecipe di tutti questi volti è un ambizioso, grandioso progetto, rimasto incompiuto: questa Filosofia nell’epoca tragica dei Greci, che è il primo esempio di quell’approccio del tutto personale ai pensatori, da essere singolare a esseri singolari, che poi resterà caratteristico di Nietzsche. La brusca novità, il carattere provocatorio di tale impresa non potrebbero essere illustrati meglio che dalle parole poste da Nietzsche stesso in margine al testo: «Questo tentativo di raccontare la storia dei filosofi greci più antichi si distingue da altri tentativi simili per la sua brevità. Questa è stata raggiunta col ricordare, a proposito di ogni filosofo, soltanto un numero assai ristretto di dottrine, ossia con l’incompletezza. Sono state scelte tuttavia le dottrine in cui vibra ancora nel modo più forte l’elemento personale di un filosofo: per contro un’enumerazione completa di tutte le possibili dottrine tramandate, secondo l’uso dei manuali, ha in ogni caso il risultato di ridurre al silenzio l’elemento personale. Perciò sono talmente noiose quelle esposizioni: in sistemi che sono confutati può difatti interessarci ormai soltanto l’elemento personale, poiché questo è l’aspetto eternamente inconfutabile. Con l’aiuto di tre aneddoti, si può fornire l’immagine di un uomo: in ogni sistema io cerco di mettere in luce tre aneddoti, e getto via il resto». -
Storie di cantastorie
Dalle imprese di Cecco, eroe con le orecchie turate, a quelle mirabolanti di Guerino («ma se il fatto è noto a tutti, raccontarvelo perché?»), dalle angosce dellesploratore Pippo Pótamo che non sa che cosa esplorare a quelle di Barbablù che cerca invano moglie: altre storie incongrue, ariose, impertinenti, che si inanellano con quelle dei Cavoli a merenda, ma usando questa volta una forma versificata, trattata con mano felice, da virtuoso della filastrocca. E lillustratore Sto qui sfrena il suo estro, inventando un libro di sorprendente novità grafica (siamo nel 1920). Qui si leggeranno le seguenti storie di cantastorie: La dolorosa e commovente istoria di Cecco e di Rosina Alcune fra le più note vicende di Guerino il Meschino La tromba dEustacchio Le pene del giovane esploratore che non sa che cosa esplorare Il paggio saggio Le nozze di Barbablù Elogio del Serpente a Sonagli La chitarrata di Pierrot La piramide di Re Piramidone Gli stivali del gatto con gli stivali. -
L' inconveniente di essere nati
Con brutalità e con delicatezza, con frasi che ogni volta hanno un filo perfettamente tagliente, Cioran vaga in questo libro non già intorno ai «problemi», come fanno spesso i filosofi, ma intorno alle «cose», come fanno i pochi che pensano veramente – e, fra le tante cose, intorno a quella unica che non cesserà mai di torturarci e di travolgerci: il puro fatto di «essere nati», quella rinuncia primordiale alla possibilità che costituisce la nostra esistenza. In questo libro, più che mai prima, Cioran si avvicina a certi temi, a certi modi dei buddhisti più radicali. E forse proprio questa diversione verso l’Oriente, verso la sua asciuttezza dinanzi alle cose ultime, gli permette di trovare un passo aspramente idiosincratico, un’andatura insofferente verso tutto, soggetta però ad «accessi di gratitudine per Giobbe e Chamfort, per la vociferazione e il vetriolo». È il passo di una lunga deambulazione notturna, da cui nasce e si concatena questa sequenza di aforismi, annotazioni, aneddoti, in un tentativo di evasione «dalla Specie, da questa turpe e immemoriale marmaglia». -
Storia d'Europa nel secolo XIX
La libertà intesa come «religione», come «unione di una visione totale del mondo con la passione civile e morale»- teoria che è al centro di tutto il Croce storico trovò il suo perfetto dispiegamento in questa Storia dEuropa, che rimane una delle opere strutturalmente più audaci di Croce. Dal magma della storia europea dellOttocento viene qui estratto, con prodigiosa capacità espositiva, una sorta di teorema della libertà, che ci permette di capire molte delle innervature segrete degli eventi nella grande età borghese. Oggi poi che lEuropa è costretta dalle cose stesse a riflettere sulla propria natura, più che mai sarà preziosa questopera che, già nel suo progetto, non volle perdersi nella moltitudine degli eventi ma catturare quella essenza dellEuropa su cui continuiamo a interrogarci. Storia dEuropa nel secolo decimonono fu pubblicato per la prima volta nel 1932.