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Storia della baronessa Budberg
«Donna di ferro» per Gor’kij, «Mura» per gli amici, «baronessa Budberg» per l’alta società londinese, Marija Ignat’evna Zakrevskaja, in Benckendorff e poi in Budberg, visse i suoi lunghi e intensi anni nell’alone della leggenda da lei stessa abilmente creata con menzogne, silenzi, misteriose scomparse, inattese riapparizioni. Gonfiando la propria biografia, attribuendosi antenati più illustri di quelli che la storia le aveva dato, traendo il massimo profitto dalla bellezza, dal fascino che immancabilmente esercitava sugli uomini, questa donna russa che «aveva qualcosa di Mata-Hari e qualcosa di Lou Salomé», ricordata dalla storiografia sovietica solo come segretaria e traduttrice di Gor’kij, intima di scrittori, diplomatici e uomini politici di primo piano, agì dietro le quinte della storia con un ruolo ancora oggi poco chiaro, enigmatico. Che fosse un agente segreto appare oggi plausibile. Ma chi informava? Qual era la sua missione? La Berberova ha cercato di rispondere a questa e altre domande, di ritrovare il filo di una mobile e sfuggente verità, ricorrendo ai più attendibili documenti storici e insieme alla sua stessa memoria: amica di Gor’kij, infatti, ebbe modo di conoscere da vicino la baronessa Budberg. Che nel suo racconto ci appare come l’esemplare superstite di un mondo e di una classe spazzati via dalla rivoluzione, una donna affamata di vita che della sopravvivenza fece la sua vera professione, non disdegnando alcun mezzo, alcun compromesso. La sua vicenda porta profondi i segni di un tempo e di un ambiente dominati dall’intrigo, dal sospetto, dalla delazione: di quell’epoca – in cui la menzogna era l’unico salvacondotto – la Berberova ricostruisce le più ambigue zone d’ombra con la raffinatezza dello scrittore e l’intelligenza dello storico. Storia della baronessa Budberg è apparso per la prima volta nel 1982. -
Il libro del profeta Isaia
Un Serafino si avvicinò volando a Isaia. Aveva in mano un carbone rovente, preso con le pinze dall’ara sacrificale. Gli toccò la bocca con quel carbone e disse: «Ecco le labbra tue ho toccato / La tua colpa è abolita / Il tuo peccato è strappato via». Allora il Signore chiese: «Chi mando? Chi va per me?». E Isaia risponde: «Eccomi / Manda me». Questa scena maestosa di vocazione accenna all’essenza della parola profetica, parola che brucia e parola di chi è stato toccato dal fuoco. Dall’ottavo secolo avanti Cristo sino a oggi, nella tradizione ebraica, poi cristiana, poi in tutta la cultura del mondo occidentale le parole di Isaia hanno agito come un potente, perenne richiamo: le sue immagini si intrecciano a tutto il nostro passato e continuano a proiettarsi sul nostro futuro. Innumerevoli occhi hanno scrutato per secoli quelle pagine della Bibbia; e innumerevoli volte quei versetti sono affiorati nella memoria. Scrive Ceronetti: «Nella mano del profeta la parola arde come uno strumento affilato e micidiale. La parola nabitica sacrifica fino allo spreco le esistenze umane, popoli interi ammucchiati, buttati a fare carname da roghi, montagne naufragate nel sangue, ma è anche uno strumento fatato, che può trasformarsi in unguento musicale, in sonorità consolatrice, e curare meravigliosamente, in certi casi immediatamente dopo aver dato il colpo irreparabile, le ferite che produce. Nel diradarsi dell’ecatombe, il Resto, qualche scampato di predestinazione assoluta, vedranno il miracolo dello scannatore che diventa medico e Paracleto, e la fine della paura. Non è molto, ma è la condizione umana». Guido Ceronetti ha tradotto il Libro del profeta Isaia in una lingua italiana che riesce a essere, come Massignon scriveva dell’ebraico, «lingua del timore, del sangue, del sacrificio». E il lungo commento, pieno di interpretazioni nuovissime, è un tentativo mirabile e solitario di accostare l’orecchio alla forza pulsante della parola dei profeti, questi «posseduti dalla Visione (visiva e sonora)». -
La musica primitiva
«Gli dèi sono canti». Prima di essere figure e volti, gli dèi furono un ritmo e una melodia, perché l’origine è sonora, una vibrazione. Se indaghiamo con sufficiente tenacia le cosmologie arcaiche, a questo arriviamo. Ma occorreva la combinazione di un musicologo e di un mitologo, oltre che un’inflessibile audacia di pensiero, perché da questo si giungesse a ricostruire un modello di cosmologia (che poi non è altro che l’articolarsi di una «sostanza sonora») tale da illuminarci sia sulle speculazioni vediche sia sul Verbo giovanneo. Marius Schneider dedicò la sua vita al tentativo di ricomporre la cosmologia arcaica fondata sul suono. Ovunque, in Cina, in Australia, nell’Asia Centrale, in Africa, come anche nei capitelli romanici, ne ritrovò le tracce. La sua summa rimase incompiuta. Così questo breve libro, che apparve nel 1960 come contributo all’Enciclopedia della Pléiade, è forse il testo che meglio ci rivela, per la felicità e la densità dell’esposizione, le linee essenziali di quella visione. -
Le due zittelle
Due anziane e devote «zittelle», Lilla e Nena, sprofondate nella più tetra e «muffosa» provincia italiana, prigioniere di un’esistenza sulla quale sembra essersi depositata «un’impalpabile polverina grigia»; una vecchia madre paralizzata ma implacabilmente autoritaria, che comunica solo percuotendosi il petto; una beffarda e turbolenta scimmia, Tombo, unico «maschio di casa», anche se «debitamente castrato»; e sullo sfondo «un’annosetta fantesca», Bellonia, assolutamente simile alle padrone. Ci sono tutti i presupposti per un bonario e ironico bozzetto, per una vecchia stampa provinciale di sapore palazzeschiano. Ma cosa succede se, appena liberate dall’incubo della dispotica madre, le due «zittelle» (e già la grafia, che gioca sul falso etimo «zitta», lascia presagire i biliosi intenti dell’autore) scoprono che di notte Tombo inscena sfrenati e blasfemi cerimoniali nella cappella dell’attiguo monastero? E se, a giudicare dell’operato della scimmia, vengono chiamati due religiosi, monsignor Tostini, appartenente alla più «declamatoria e retriva genia» degli uomini di fede, e il giovane padre Alessio, veemente e appassionato seguace di un Dio estraneo alle «complicate partite di dare ed avere» degli uomini? Succede che i due si scontrano senza esclusione di colpi e che il fortunato lettore può assistere alla più incredibile e fulminante delle dispute teologiche. Ma anche che il tranquillo bozzetto lascia improvvisamente posto al più oltraggioso sarcasmo, alla più acre irriverenza di quello che Landolfi ha sempre considerato «il mio miglior racconto» e Montale definì, nel risvolto della prima edizione, uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea». -
L' enigma di Hu
Questo libro racconta la storia affascinante, ambigua e toccante del primo cinese che si trovò a conoscere lOccidente. Hu era un vedovo quarantenne di Canton, scelto per accompagnare il gesuita Foucquet nel suo viaggio di ritorno in Europa, nel 1722. Venne così esposto allassolutamente altro, un mondo che provocò in lui reazioni violente. A un certo punto lo incontriamo a Parigi mentre predica in cinese ai passanti esterrefatti, accompagnandosi con un piccolo tamburo. Poi lo ritroviamo nel manicomio di Charenton. E infine assistiamo al suo ritorno in Cina, dopo esilaranti e strazianti vicissitudini. Per un curioso caso, sono sopravvissute testimonianze dirette della sua storia. E su di esse si basa Spence, come nel suo mirabile Imperatore della Cina. E, ancora una volta, Spence non ha voluto offrirci uno studio dei fatti, ma una narrazione: la forma è quella del diario. Giorno per giorno, e quasi ora per ora, vediamo svolgersi sotto i nostri occhi una sequenza sconcertante di avvenimenti, «di una bellezza e di una stranezza che fanno venire in mente i racconti di Borges e di Calvino» (Mark Strand). Lenigma di Hu è apparso per la prima volta nel 1988. -
La Marie del porto
Un grappolo di case strette attorno a un piccolo porto di pescatori normanni, un molo sul quale si affaccia il Caffè della Marina, centro focale dell’intreccio, la modesta casa sulla scogliera dove abita Marie, la protagonista, e, sullo sfondo, la città di Cherbourg: sono i luoghi, quanto mai simenoniani, dove si svolge la vicenda di questo romanzo del 1938, a cui Simenon teneva particolarmente, come rivela la sua corrispondenza con Gide, al quale scrisse, a proposito della Marie: «È una buona cosa provare a se stessi che è possibile dare una personalità alle comparse incaricate di venire a dire: “La Signora è servita”». E aggiunse anche: «È il solo romanzo che sia riuscito a scrivere con un tono completamente oggettivo». La Marie del porto è una figura che non si dimentica nella vasta galleria delle donne di Simenon: una ragazzina poco appariscente, una vera «acqua cheta», che riesce a impaniare un uomo sbrigativo e spavaldo, avvezzo a vincere e comandare. Questo personaggio, Chatelard, scorge da lontano la smilza figuretta di Marie che segue compunta il feretro del padre, e se ne innamora. Per starle vicino, compra un peschereccio, che gli fornirà la scusa per tornare in paese e frequentare il Caffè della Marina dove la ragazza è stata assunta come cameriera. Chatelard crede di avere in pugno il proprio destino e quello della Marie, ma in realtà è quest’ultima a tessere con abilità consumata e ironica determinazione una sottile trama di eventi nella quale l’uomo si lascerà avvolgere. -
Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale
Questo libro tratta un grandioso paradosso e misconoscimento storico: siamo abituati a vedere la musica moderna nascere per i rami della musica tedesca e austriaca, fra Wagner e Schoenberg, con l’apporto folgorante del russo Strawinsky. Ma in realtà la poetica del moderno, in tutte le sue ramificazioni, si era già elaborata a Parigi, tra Saint-Saëns e Debussy, innanzitutto in seguito allo choc per la sconfitta militare francese del 1870, che obbligò a ripensare e rimescolare tutti i termini della creazione musicale. Ora, «l’opera di quegli innovatori è singolarmente misconosciuta, anche in Francia, ove nessuno fino ad oggi ha pensato a narrarne la storia. E, quando la cultura francese impazzì per le idee introdotte da alcuni russi, Djagilev e Strawinsky in testa (ritorno all’ordine, neoclassicismo, musica “al quadrato”, culto del Settecento come categoria dello spirito, perennità della musica di corte), non sembrò nemmeno accorgersi che quella poetica, “di bellezza sconvolgente” (Boulez), aveva radici del tutto indigene. Le origini del Novecento musicale dipendono dunque dal gran secolo precedente, non solo, come è ormai ovvio, sul versante austriaco, ma anche su quello di Parigi e del pariginismo, fino ad oggi. Chi l’avesse mai detto, alle avanguardie storiche!» (Bortolotto). La via scelta da Bortolotto per raccontare questa aggrovigliata storia di forme in tutte le sue concatenazioni è la più ardua, ma anche quella che permette continue scoperte: sprofondare nei materiali, secondo un precetto benjaminiano, sorprendere il nuovo nel punto stesso dove si forma, nel respiro di una battuta, nell’incidersi subitaneo di una cifra stilistica. E insieme lasciando giocare tutte le risonanze e le rifrazioni che, nella Parigi che va dal Secondo Impero all’Esposizione Universale del 1900, dal duca di Morny ai mardis di Mallarmé, furono un abbacinante pulviscolo – e costituivano l’impalpabile fondale di quella che fu la capitale della décadence. Come già Fase seconda, questo libro rimarrà un passaggio obbligato per chi voglia capire la stupefacente vicenda del moderno in musica, che si aprì con la Romantik tedesca ed è tuttora aperta. -
La struttura dell'iki
«""Lei conosce il conte Kuki Shuzo. Ha studiato molti anni con Lei"""". """"Rivolta al conte Kuki rimane la mia memoria riconoscente""""». Con queste parole, che si leggono in un celebre libro di Heidegger, si può dire che affiori l'esistenza di Kuki Shuzo in Occidente e lì rimanga sospesa, come il miraggio di un orientale «dal cuore limpido e fine» che capiva il pensiero occidentale meglio degli Occidentali. Eppure Kuki Shuzo è esistito - e la sua storia travagliata e romanzesca va ben oltre quell'immagine, come mostra questo libro, che è il libro della sua vita. «""""Tutto il suo pensare era rivolto a ciò che i Giapponesi chiamano iki"""". """"Ciò che questa parola dice ho potuto solo presagirlo da lontano nelle mie conversazioni con Kuki""""» aggiunge Heidegger. Forse perché Heidegger non poté leggere il trattato di Kuki sull'iki, qui per la prima volta tradotto. E forse all'origine di questo libro vi è proprio la difficoltà provata da Heidegger. Una difficoltà, pensò Kuki, analoga a quella che deve affrontare chiunque tenti di tradurre il termine essere, fondamento del pensiero occidentale, in giapponese. Ma la parola essere si incontra in Parmenide, mentre la parola iki appartiene al gergo delle geishe. Già qui si accenna sottilmente il divario Oriente-Occidente. Che cos'è dunque l'iki? Nel Giappone del periodo Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l'ineffabile fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza. Kuki circumnaviga ogni accezione dell'iki, filtrando la parola con uno sguardo che ne individua i tratti distintivi nella seduzione, nell'energia spirituale e nella rinuncia; la colloca in un sistema estetico rigoroso; ne scopre le tracce nell'acconciatura, nell'incedere, nei gesti e nelle posture della geisha; nei motivi decorativi a righe verticali, nel colore marrone, nell'architettura della casa da tè, nella musica per shamisen. Capire l'iki è come percepire la fragranza di un'intera civiltà. E forse ci aiuta anche a capire l'essere per un'altra via."" -
Il presepio
Esiste, certamente, una felicità natalizia – ma essa è intrecciata indissolubilmente a una «infelicità natalizia». Ogni vera festa è gioiosa e angosciosa – e perderebbe senso se uno solo dei suoi elementi prevalesse sino a far dimenticare l’altro. Mai questo appare con evidenza così provocatoria come per il Natale, poiché «si sa che al Natale non si dà fuga; in nessun modo». Anni fa (non sappiamo con certezza quando) Manganelli cominciò a scrivere e portò a termine questo libro, senza farne parola a nessuno. Oggi, ritrovato fra le sue carte, Il presepio ci appare come una importante scoperta: un viaggio sfrenato all’interno della festa per eccellenza. Dopo un magistrale inizio, che illumina l’ambiguità del Natale, con quel senso di inquietudine e angoscia che è il contrappunto della dichiarata euforia, Manganelli prende il coraggio a due mani e decide di iscriversi al presepio, poiché il Natale, che è anche una cigolante macchinazione cosmica, in quanto tale «secerne da sé uno spettacolo, ha personaggi, un paesaggio, luminarie, talora musiche» – e dunque «è lecito affermare, è, diciamo, buona critica affermare che il Natale non è tanto la festa del bambino, o che altro sia, ma una rappresentazione nella quale tutti i personaggi hanno uguale necessità, dal maggiordomo all’imperatore». Così vedremo l’autore trasmigrare nelle figure di cartapesta, diventare «un sodale della Madre, del Padre, del Pastore uno, del Pastore due, della Pastorella, della Vecchietta, del Ruscello, del Bue, dell’Asino, e di quant’altri vorrà accorrere alla celebrazione dell’inizio del Significato». Quale migliore occasione per un teologo-narratore quale fu Manganelli? Così il presepio diventa un vortice fantastico, dove ci trascina una prosa che rare volte è stata altrettanto perfetta. -
Seminari
I testi di questi Seminari, qui tradotti per la prima volta, compendiano l’insegnamento orale dell’ultimo Heidegger, consentendoci di guardare direttamente nel laboratorio del filosofo. In quel periodo (si va dal 1951 al 1973) Heidegger, ormai lontano dalle aule universitarie, dove per lunghi anni aveva presentato le sue opere principali – a partire da Essere e tempo – sotto forma di corsi d’insegnamento, si dedicò in rare occasioni, soprattutto fuori dai confini tedeschi, e in forma ristretta e privata, alla interrogazione diretta, martellante dei testi filosofici. Tanto più preziosa apparirà dunque la testimonianza di questo suo insegnamento che sarebbe fondato definire «esoterico». I temi sono fra i più ardui e imprescindibili (e spesso le formulazioni che essi trovano in questa forma seminariale aggiungono, nella loro stringatezza, qualcosa di essenziale alle trattazioni più diffuse): alcuni frammenti di Parmenide ed Eraclito, la «questione dell’essere», il dominio della natura attraverso la tecnica, il senso della «lacerazione» in Hegel e della «produzione» in Marx, la distruzione-decostruzione da cui nacque Essere e tempo. I Seminari sono stati pubblicati per la prima volta nel 1977. -
Gigi
Gigi, deliziosa quindicenne colta sul punto di sfilarsi i suoi vestiti da bambina, ormai provocatori, e allevata da due donne che parlano dei gioielli delle cocottes con la stessa gravità con cui un agente di Borsa soppesa le azioni delle grandi compagnie, apparve nel pieno della guerra, nel 1942, e si può dire che fu l’ultima creatura di Colette a evocare qualcosa già con il suo nome: una grazia acerba e l’intreccio di una fiaba moderna. Hollywood si incaricò poi – coalizzando Leslie Caron e Maurice Chevalier, Vincente Minnelli e Cecil Beaton – di tingere la storia di rosa pastello. In Colette, invece, i colori sono misti, i sapori a volte pungenti. Non c’è solo la fiaba del libertino convinto e della quasi bambina che finiscono per incontrarsi nel vero amore (e si può ricordare che nel ruolo di Gigi esordì sulle scene di Broadway una giovanissima Audrey Hepburn). C’è anche una magistrale tessitura di chiacchiericcio Belle Époque. La storia di Gigi era realmente accaduta negli anni Venti. Ma Colette la spostò in quell’anno in cui «le automobili andavano di moda alte e leggermente svasate, per via degli immensi cappelli lanciati da Caroline Otero, da Liane de Pougy e da altre signore assai note nel 1899, e quindi si ribaltavano mollemente in curva». Come a volerla situare proprio al centro di quel periodo in cui, guidata dalla mano sapiente e crudele di Willy, Colette era diventata una impeccabile conoscitrice di quel demi-monde parigino a proposito del quale scrisse: «una volta ammessa una diversa angolazione morale, nulla era meno sregolato di quell’ambiente: quanto rigore nelle linee di cattiva condotta, quanta immutabilità nei segni del successo e della potenza, quanta burocrazia nei piaceri». -
Lo stato culturale. Una religione moderna
Quando si è costretti a scrivere tra virgolette la parola «cultura», vuol dire che la cultura è davvero mal ridotta. Quando la differenza fra la promozione turistica, mediatica, celebrativa e la cultura non viene più chiaramente percepita, vuol dire che la «cultura» trionfa. Quando di un libro, di una mostra, di un concerto non si parla più per dire ciò che rispettivamente sono, ma solo per discutere su quanto pubblico hanno attirato e con quali modalità, vuol dire che il senso dei libri, dellarte e della musica si allontana in una nebbia indefinita. Tutto questo succede ogni giorno sotto i nostri occhi. E talvolta accade come oggi in Francia che sia lo Stato stesso a fomentarlo e amministrarlo, trasformandosi in imprenditore che gareggia in sontuosità e inventiva con limprenditore privato, con un gesto di apparente devozione alla cultura e una celata volontà di manomissione della stessa, per utilizzarla ai propri fini. In breve, tutto sembra congiurare perché venga dimenticata limpeccabile intuizione di Jacob Burckhardt secondo cui lo Stato e la cultura sono potenze naturalmente nemiche e tali devono rimanere, per il bene di entrambe. Per valutare questo fenomeno, che è planetario ma assume forme diverse in ciascun paese (e ovviamente ben diverse da quelle francesi in Italia, dove lo Stato si è rivelato incapace perfino di garantire la sopravvivenza fisica delle testimonianze della cultura), occorre uno sguardo capace di abbracciare vasti insiemi, di riconoscere sia che cosè la cultura sia che cosè la «cultura». Marc Fumaroli ci è riuscito, con appassionata verve polemica, con solidissimo giudizio storico, con felice insofferenza. La sua analisi si concentra sulla Francia, risalendo alle origini di un fenomeno che si è manifestato platealmente negli anni di Mitterrand pur essendo già predisposto negli anni di Malraux. Ma il discorso va molto più in là e si applica a tutto quel sottile e onnipresente involucro di plastica che ci avvolge e tenta di soffocarci con le migliori intenzioni. Quellinvolucro si chiama «cultura». Lo Stato culturale è apparso per la prima volta nel 1991. -
Breve storia dell'infinito
«C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l’Etica; parlo dell’Infinito», così ha scritto J.L. Borges – e le sue parole stanno sulla soglia di questo libro, dove un matematico ha provato a ripercorrere, con eleganza, penetrazione e perspicuità, le vicende di questa categoria temibile, dalle origini greche sino alla ormai cronica «crisi dei fondamenti» del pensiero scientifico. Prima parola occidentale per designare l’infinito è l’ápeiron, il «senza limiti», quale appare già in Anassimandro. Ma l’infinito greco, dai Presocratici alla sistemazione aristotelica, proprio in quanto lo si riteneva un principio «divino, immortale e indistruttibile», viene maneggiato con estrema cautela nei procedimenti del pensiero discorsivo. E si tratterà sempre, allora, di un infinito potenziale, concepito nel segno della «negazione» e della «privazione» (la stéresis di Aristotele). La contesa tra il finito e l’infinito appariva dunque come una delle forme della contesa ultima fra tutte: quella fra l’Uno e il Molteplice. Il numero, sinonimo di misura e armonia, valeva in essa da misterioso punto di mediazione fra il limite e l’illimitato. Dalla Grecia antica a oggi la sequenza delle metamorfosi dell’infinito sarà vertiginosa. Lo svilupparsi della matematica vi s’intreccia con radicali mutamenti nel modo di concepire la realtà cosmica e mentale dell’infinito. A poco a poco vedremo delinearsi quella che è la grande attrazione e tentazione del pensiero occidentale: l’infinito attuale, che i Greci avevano schivato e ora viene ad assumere un ruolo sempre più centrale. Nell’ultimo, bruciante tratto di questa storia, che va da Leibniz a Bolzano e a Cantor, assisteremo a sempre rinnovati tentativi di «indicare in modo esplicito l’infinito con ‘qualcosa’», finché questo ‘qualcosa’ si rivelerà «suscettibile per di più di essere manipolato come segno tangibile della meccanica algebrica». Una soggiogante realtà cosmica si tramuta così in un esile segno sulla carta. Ma una volta giunti, con la teoria cantoriana del transfinito, alla fioritura di una specie inaudita della matematica, cominceranno immediatamente ad aprirsi le falle insidiose dei paradossi e delle antinomie, che metteranno in crisi i fondamenti stessi della scienza. Da questa crisi, in cui siamo ancora immersi, discenderanno le più rilevanti scoperte epistemologiche del nostro tempo. Zellini ha saputo raccontare queste trascinanti vicissitudini del pensiero unendo il rigore alla duttilità: ha seguito passo per passo l’evoluzione tecnica della nozione matematica di infinito e al tempo stesso l’ha riavvolta in quelle ricche speculazioni mitiche, teologiche, letterarie che da sempre l’hanno accompagnata. Così, in controcanto ai testi dei grandi matematici, incontreremo quelli di Musil e di Simone Weil, di san Tommaso e di Boezio, di Broch e di Florenskij. Dalla sconvolgente scoperta pitagorica dei numeri irrazionali allo horror infiniti che serpeggia in tutta l’antichità, dalle ardite teorizzazioni medioevali alla furia mistica di Bruno e di Cusano, dalle innovazioni scandalose (e fondatrici in rapporto alla scienza moderna) di Cartesio e di Leibniz sino all’abbagliante «paradiso» di Cantor (e alla subitanea cacciata da quel paradiso con la scoperta delle antinomie) e alle suggestioni attuali dell’«infinito aperto»: disparati, sorprendenti e nettamente... -
Il Cantico dei cantici
Il più grande testo d’amore di tutte le letterature. «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico fu dato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma Il Cantico dei Cantici è santissimo» - RABBI AQUIBÀ «Solo quelli che hanno amato la Sapienza come una donna, e una donna (sublime cortesia, inaudito conoscere) come la Sapienza, hanno ricavato dal Cantico tutta la possibile luce». - GUIDO CERONETTI -
Snob
I sapienti hanno da tempo rinunciato a definire che cosa sia lo snobismo. Come la santità, esso sfugge alle etichette. Ma la domanda rimane, se non altro perché «lo snobismo suscita un’eco in ogni cuore». Certo, si tratta di un «argomento inesauribile», e un libro che si chiamasse «Gli snob di tutti i tempi, se mai fosse scritto, sarebbe di dimensioni inimmaginabili». Così, ad uso di coloro che sono troppo impazienti per attendere il compimento di tale ciclopica impresa, Jasper Griffin, professore a Oxford e uno dei massimi filologi classici viventi, ha raccolto in un delizioso bouquet alcuni fiori trascelti fra ciò che di memorabile sullo snobismo fu scritto, nell’età che va press’a poco dal paleolitico a Elsa Maxwell. E con queste parole lo ha presentato: «Lo snob a corte, lo snob che prega, lo snob innamorato: snob sublimi della cronaca e dell’invenzione, del romanzo e della poesia, dell’aneddoto e dell’autobiografia: irose denunce e disarmanti confessioni – da Virginia Woolf a Wodehouse, da Petronio a Proust, da Boston al Giappone: questa è una galleria dove noi stessi potremmo trovare un nostro posto – se non fra gli snob almeno (chi può mai dire?) fra gli snobbati». -
Racconti d'inverno
«Riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare su questa terra». - Karen Blixen -
Mappa del nuovo mondo. Testo a fronte
«Sono nessuno o sono una nazione»: questo verso può valere come epigrafe per tutta l’opera di Walcott. Della quale si può dire, innanzitutto, che ci offre la forma più alta, oggi, della lingua inglese – forse anche perché proviene da quei luoghi dove «il sole, stanco dell’impero, tramonta», da una immensa periferia marina, i Caraibi, dove quel sole, tramontando, «porta all’incandescenza un crogiolo di razze e di culture» (Brodskij). «Io sono soltanto un negro rosso che ama il mare» dice un altro verso, ma (leggiamo altrove) uno i cui «occhi ardevano per la prosa cinerea di John Donne». Già questa congiunzione di elementi, questa somma di tribù divise nelle stesse vene, e insieme la stupefacente felicità verbale, la capacità di nominare le cose come in un remoto e scintillante «canto dei marinai» rendono unico Walcott e rimandano alla più sobria e precisa descrizione che a lui ha dedicato il suo critico, ma anche poeta, più congeniale, Iosif Brodskij: «Walcott non è un tradizionalista né un “modernista”. A lui non si adatta nessuno degli “ismi” disponibili e degli “isti” che ne conseguono. Non appartiene a nessuna “scuola”: non ce ne sono molte nei Caraibi, se si eccettuano quelle dei pesci. Si sarebbe tentati di chiamarlo un realista metafisico, ma il realismo è metafisico per definizione, così come vale l’inverso. E poi, è un’etichetta che saprebbe troppo di prosa. Walcott può essere naturalista, espressionista, surrealista, imagista, ermetico, confessionale – a scelta. Semplicemente, egli ha assorbito, al modo in cui le balene assorbono il plancton o un pennello assorbe la tavolozza, tutti gli idiomi stilistici che il Nord poteva offrire: adesso cammina con le sue gambe, e a grandi passi». -
Una pinta d'inchiostro irlandese
Questo romanzo rivelò Flann O’Brien nel 1939, l’anno di Finnegans Wake (e Joyce riconobbe subito in lui «un vero scrittore»). Oggi sappiamo che con questo libro cominciava a spuntare un nuovo, inconfondibile ramo nel grande albero irlandese della follia e della letteratura. Ma Flann O’Brien, bisogna aggiungere, non somiglia che a se stesso. «Come Dio, occorre definirlo con una tautologia» scrisse di lui Anthony Burgess. I non pochi lettori che hanno già amato Il terzo poliziotto ritroveranno qui il sapore di un singolare, allarmante humour nero, surreale e iperreale, imperturbabile nella sua capacità di sconvolgere a ogni passo le carte dell’immaginazione. Non sarebbe urbano chiedere a qualcuno di raccontare la trama di un romanzo di Flann O’Brien. Basterà quindi dire, per chiarire le cose, che si tratta di un romanzo-dentro-un-romanzo-dentro-un-romanzo, che è esilarante, che contiene parodie di un vasto numero di generi letterari – dalla poesia dei bardi gaelici alla disputa erudita – e che Dylan Thomas lo consigliava come «il libro giusto da regalare alla propria sorella se è una sporca ubriacona chiassosa». Infine: è un romanzo di alto virtuosismo linguistico, che ha avuto la fortuna di trovare in Italia il traduttore più congeniale che si potesse escogitare, per estro e umori: J. Rodolfo Wilcock. Alla fine di queste pagine, il lettore non mancherà di assentire pensosamente alle parole di Graham Greene: «Ho letto questo libro con passione e divertendomi dall’inizio alla fine, oltre che con quella specie di esultanza che si prova a teatro quando qualcuno sfascia delle porcellane sulla scena». -
Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte
«Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi»: questa frase, che incontriamo in una lettera di Kafka, e che la Bachmann riprende, può valere come epigrafe per queste celebri lezioni, pronunciate a Francoforte nel 1959-1960. In poche pagine limpide e vibranti la Bachmann ha consegnato l’essenza del suo pensiero sulla letteratura, vale a dire – per lei, almeno – su tutto. La forma è piana e pacata, di una trasparenza educata su Hofmannsthal e Musil. Il senso è audace e inflessibile: l’idea di una letteratura che per essere tale deve nascere «laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso». Una tale letteratura, già nel manifestarsi della sua forma, «contrappone alla vita una utopia della lingua». Queste lezioni ci confermano che in questo secolo le parole decisive sulla letteratura le hanno dette i grandi prosatori e i grandi poeti, da Proust a Benn, da Auden a Mandel’štam – e accanto a quei precedenti esse si dispongono. -
L' ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica
Questi scritti del leggendario pianista compongono una sorta di storia della musica a mosaico, altamente idiosincratica e non meno illuminante delle sue grandi interpretazioni.