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Platone e l'esperienza. Sette studi lessicologici
L’ipotesi di lavoro da cui muove il presente volume è l’idea che, nel quadro del percorso di ascesa conoscitiva disegnato da Platone, il terreno dell’esperienza costituisca una sorta di “terra di nessuno epistemica”, popolata da pratiche conoscitive – o, meglio, da pratiche di disciplinamento da parte dell’essere umano del proprio rapporto con il reale – che, seppure non enfatizzate dallo stesso Platone, risultano essere necessarie alla tenuta della costruzione teorica del suo pensiero. I saggi qui raccolti vogliono, pertanto, essere un contributo allo scavo di questi aspetti, nascosti e necessari, dell’epistemologia platonica. -
Che cosa ha veramente detto Socrate?
Per Gabriele Giannantoni, allievo diretto di Guido Calogero, la filosofia di Socrate e dei Socratici è stata assolutamente centrale nella sua intensa attività di ricerca, un interesse che è culminato nella pubblicazione delle Socratis et Socraticorum Reliquiae (Bibliopolis, 1990). Lo studioso dedicò due monografie al pensiero di Socrate, la prima si intitolava Che cosa ha veramente detto Socrate, la seconda, Socrate. Per la prima volta questo volume raccoglie una nuova edizione del primo libro socratico e una scelta dei capitoli più originali del secondo, entrambi ormai esauriti. Giannantoni descrive la filosofia di Socrate e le diverse interpretazioni che ne diedero i Socratici facendo costante riferimento a tutte le fonti disponibili (in primis Aristofane, Platone, Senofonte e Aristotele), ma soprattutto ricostruisce la vita di Socrate collocandola nel suo contesto storico. Da queste pagine emerge un Socrate profondamente immerso nella vita politica e sociale dell'Atene di V secolo, grazie a un limpido ed efficace metodo storico-filosofico capace di affrontare magistralmente un pensatore tanto sfuggente. -
Sul potere del papa. Ediz. italiana e latina
A William Barclay (1546-1608), giurista e filosofo, scozzese di origine, ma francese di adozione, toccò il destino di inaugurare la modernità attraverso la riformulazione di una teoria antica, quella del diritto divino dei re. Noto per aver dato un nome alla minaccia ‘monarcomaca’ nel suo De regno (Parigi, 1600), fu autore di un finora dimenticato De potestate Papae (postumo, 1609), di cui si presenta per la prima volta al lettore italiano l’edizione, la traduzione e il commento. L’essere stato campione del diritto divino dei re se gli meritò subitanee traduzioni in inglese e in francese, nonché la veemente replica di Roberto Bellarmino e l’attenzione di fra Paolo Sarpi, fu probabilmente all’origine della sua sfortuna presso i posteri. Avvocato dell’assolutismo e dei suoi diritti, come lo ricorda John Locke, si impegnò nel trasferimento della sacralità del potere e dell’obbedienza a esso correlata dalla corte pontificia romana alle corti politiche europee. -
Opera incerta sugli Dei. Ediz. bilingue
Le opere di Filodemo di Gadara, restituite dalla Biblioteca della Villa dei Papiri di Ercolano, Il testo, che si presenta qui in edizione critica, è di grande importanza nella riflessione sull’esistenza materiale del divino e sul modo in cui possiamo conoscerlo. Lo stato frammentario del rotolo papiraceo ha richiesto una meticolosa operazione di ricostruzione virtuale, i cui risultati e la cui metodologia sono illustrati nel volume. La maquette allegata, strumento fondamentale nella ricostruzione dei papiri ercolanesi, è supporto utilissimo alla consultazione per il lettore. -
Casamicciola. Un laboratorio per la difesa dai terremoti. Spie, indizi, riflessioni, correlazioni
Dopo il recente terremoto del 2017 a Casamicciola, gli autori si sono dedicati allo studio dei precedenti terremoti per verificare la persistenza della sorgente sismica, di grande interesse per la valutazione del rischio sismico. È stata così avviata la ricerca sulle fonti archivistiche e documentali relative alle strutture danneggiate, con particolare attenzione agli edifici di maggiore rappresentanza della comunità. I risultati ottenuti hanno mostrato una stretta analogia di tali eventi con il meccanismo del terremoto del 2017. La proposta di questo libro, è la delocalizzazione del centro abitato di Casamicciola alta e la realizzazione nell'area di un Parco Scientifico-Naturalistico con l'obiettivo di ravvivare la memoria ma anche di sviluppare la consapevolezza e la ricerca per la difesa dai terremoti. -
Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da Benedetto Croce
Il libro ripropone la raccolta di testi, lettere e documenti di Silvio Spaventa, edita la prima volta da Benedetto Croce nel 1898 e la seconda nel 1923. Accolto, al suo apparire, come documento capace di offrire un profilo biografico e intellettuale di ampio respiro su una delle massime personalità del Risorgimento, dopo cent’anni il testo apprestato da Croce conserva ancora i tratti di una viva classicità. Le prime esperienze giornalistiche, la dolorosa vicenda del processo per i fatti del 15 maggio 1848, gli anni della detenzione nel carcere di Santo Stefano si rispecchiano nelle parole di chi ne fu protagonista e s’intrecciano al commento di chi forse meglio lo comprese, in un intenso dialogo a distanza. La presente edizione, corredata da un ricco e aggiornato apparato critico, vi aggiunge in appendice le ultime lettere ritrovate da Croce e pubblicate separatamente nel 1946, restituendo così l’affresco di una pagina decisiva della storia culturale e filosofica italiana. -
Tra rivoluzione e utopia. Scritti politici e filosofici 1851-1857
Ospitata sulle colonne del quotidiano «Il Progresso» e sulle principali riviste del tempo, in particolare «Il Cimento» e la «Rivista contemporanea», l’attività pubblicistica di Bertrando Spaventa negli anni dell’esilio torinese costituisce il naturale punto di partenza per affrontare lo studio delle sue opere. In questa sede è parso opportuno riproporre alcuni testi non facilmente reperibili. Nella prima parte del volume, si ristampano gli articoli non firmati pubblicati dal filosofo sul giornale torinese nel 1851 e a lui attribuiti con certezza. Nella seconda parte del volume si ristampano le recensioni apparse sui due periodici tra il 1854 e il 1857 e non incluse dall’autore nel primo volume dei Saggi di critica filosofica, politica e religiosa (1867), né inserite da Gentile nella silloge Da Socrate a Hegel. Nuovi saggi di critica filosofica (1905). -
Il libro dell'estate
«Mi succede una cosa strana, disse Sofia. È che mi sento sempre così buona quando c'è tempesta.»L'estate, l'ultima isola abitata prima del mare aperto nell'arcipelago finlandese, un paesaggio selvaggio e incontaminato, la casa lontana dalla civiltà, una nonna e una nipotina e, silenzioso nume tutelare, il padre. Una vita quotidiana che segue i ritmi svagati delle vacanze e quelli capricciosi del tempo: qualche visita occasionale, tempeste, avventure, divieti trasgrediti, furtive spedizioni a isole altrui, navigazioni notturne. Su uno sfondo che dell'idillio non ha il sentimentalismo, ma ne ha certamente il fascino, un libro dall'apparenza semplice che riesce a parlare senza enfasi, ma anche senza ingenuità, senza eufemismi ma con tocco ironico e leggero, della complessità del vivere, delle luci e delle ombre dell'animo umano, della crudele imparzialità della natura. «Senza un'infanzia felice non avrei mai incominciato a scrivere», dice Tove Jansson. Ed è proprio quella felicità che emana dai suoi scritti: l'espressione di quel raro equilibrio fra sicurezza e rischio, sfida e ritorno, ribellione e rifugio, paura del nuovo e desiderio di provare, timore e sete di conoscere, bisogno di solitudine e necessità di affetti. È la felicità di camminare su un filo teso, sapendo che vi è comunque una rete di protezione, del sentire con intensità, del prendere la vita sul serio, ma accettandola così com'è. Da qui l'affinità e l'intesa fra Sofia, la bambina che inizia ad affrontare la vita, e la nonna, che l'ha vissuta a fondo, l'ha amata con la saggezza di non pretendere di capirla e sa che fra poco dovrà lasciarla. Il loro dialogo, che spazia su ogni cosa che sta fra il crescere e il morire, è come una musica che resta a lungo nell'orecchio, come una sonatina. -
I quattro diavoli
Il mondo del circo, come più tardi quello dell'arte, torna in Bang come il luogo ideale della diversità e della marginalità, dove far muovere i suoi vagabondi, i solitari, i disadattati alla vita, cui sente egli stesso di appartenere. «I Quattro Diavoli» è la breve e intensa storia di un'attrazione fatale. In un'atmosfera satura di tensione erotica, fra i lustrini del circo e i numeri degli acrobati, sotto lo sguardo impotente e tormentato della gelosia della compagna, il giovane Fritz si lascia trascinare dalla passione violenta e distruttiva per una donna che lo seduce per puro capriccio. Il fragile equilibrio di un mondo elementare può spezzarsi con la facilità di un filo di trapezio. -
L' Olandese
Dopo sette anni di navigazione senza meta su sconfinati «deserti d'acqua», un nuovo naufragio riporta l'Olandese a terra. Perseguitato dalla condanna di un eterno errare per aver sfidato le Potenze, per aver voluto essere «più che uomo» nella sua ribellione al fato, torna fra gli uomini a cercare il riscatto nell'amore di una donna fedele. Ma ben lontano dalla wagneriana esaltazione romantica della passione redentrice è quest'Olandese in cui Strindberg, irrequieto mitizzatore di se stesso, proietta la propria ansia di riscatto. Amaro e disilluso, per sei volte fuggito spergiuro dalle sofferenze dei tradimenti subiti, non è più pronto a «rinnovare questa buffonata dal finale tanto penoso». Sa che solo un abbaglio può restituirgli «le illusioni e con esse il gusto della vita». Eppure basta l'apparizione di Lilith per riaccendere in lui la speranza, il desiderio, la «somma follia» dell'amore. In lei, «immagine del Grande Cosmo», riflesso «del Creatore nella sua creazione», può trovare l'angelo della salvezza. E invece ripetitiva, senza scampo, eros ricompie la sua opera, non la sublimazione delle contraddizioni umane nell'amore, ma il reciproco annientamento, l'irriducibile lotta fra uomo e donna, presi nel laccio dell'amore-odio, prigionieri dell'inganno di cercare nell'istante che fugge, in quell'«adesso» che «non è che irrealtà», la compiutezza della felicità. Ancora una volta abbandonato, l'Olandese riparte, «desioso del mare»; ma è nel ricordo che lo strazio vissuto acquista significato, nella nuova consapevolezza che è nel dolore stesso la via dell'espiazione. -
Il nostro bisogno di consolazione
«Chi costruisce prigioni s'esprime meno bene di chi costruisce la libertà.»L'inalienabile aspirazione umana alla felicità, alla libertà, al riscatto, al diritto di esistere senz'altra giustificazione che la propria inviolabilità e insieme la disperata consapevolezza che rimarranno irraggiungibili: è questa la toccante confessione di uno scrittore malato del male di vivere e che ha sempre sentito di «attirare il dolore come un amante». Benché Il nostro bisogno di consolazione non sia l'ultima opera di Dagerman, appare come un vero e proprio testamento spirituale, in cui si leggono fra le righe i motivi del suo silenzio finale e del suo suicidio. Schiavo del proprio nome e del proprio talento al punto di non avere «il coraggio di farne uso per il timore di averlo perso», ossessionato dal tempo e dalla morte, incapace di sottrarsi alle pressioni che si sente imporre dalla società e più ancora dalla propria intransigenza, resta tuttavia convinto che il valore di un uomo non può essere misurato dalle sue prestazioni e che nessuno può richiedergli tanto da intaccare la sua voglia di vivere. Vi sono sempre le parole da opporre a ogni tipo di sopraffazione, «perché chi costruisce prigioni s'esprime meno bene di chi costruisce la libertà». Ma se anche queste non bastano, rimane il silenzio, «perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente». -
Il viaggiatore
Anarchico viscerale incapace di accontentarsi di verità ricevute, vulnerabile e malato di «simpatia», Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus, dei ribelli alla condizione umana. «Sua colpa fu l'innocenza», lascia scritto come epitaffio nel «Viaggiatore», la colpa di chi ha scelto di non venire a patti con la vita, non riuscendo a perdonare a se stesso neppure di aver fatto della sua disperazione un'opera d'arte. «Le grandi tragedie», dice un suo personaggio, «sono già tutte accadute nel passato», quelle che restano oggi sono soltanto «tragedie minori». E «tragedie minori», appunto, sono quelle che esplora in questi racconti, momenti di epifania in cui i protagonisti, quasi tutti adolescenti e bambini, sono costretti a riconoscere che la «grande tragedia» dell'ingiustizia del mondo si incarna nella loro piccola quotidianità, e li ha marchiati per sempre, relegandoli nel lato ombra della vita. Un giorno, come spiragli di fuga, compaiono nella loro esistenza i simboli di un destino diverso: un'auto da Stoccolma, una scacchiera da viaggio, un berretto da liceale, un lord che cerca l'acqua verde. Ma l'illusione del riscatto rende ancora più amara e ineluttabile la sconfitta: per Dagerman, come per i suoi personaggi, è «troppo tardi» per la felicità. La libertà, l'amicizia, il calore appartengono a un mondo in cui saranno sempre degli estranei: come i fuochi della notte di San Giovanni brillano lontano, dall'altra parte della baia, dove loro semplicemente «non esistono». -
Fuoco fatuo
Una piovosa sera di novembre Frans Laarmans, ironico alterego dell’autore alla sua ultima apparizione letteraria, trova, nel porto di Anversa, tre marinai afgani alla ricerca di una ragazza conosciuta quel giorno a bordo della loro nave. Piove e fa freddo, ma l’esotico incontro fa scattare in Laarmans il represso desiderio di trasgressione e di fuga dalla monotonia di una vita regolata da norme accettate a malincuore, di un conformismo che gli va stretto, ma al quale pigramente si adatta, preferendo, all’aperta ribellione, uno sveviano ricorso all’ironia e allo sdoppiamento. Accetta di accompagnarli mosso dall’inconfessata speranza di un’avventura galante, ma in fondo è soprattutto l’avventura tout court che l’attrae, l’occasione di una serata in compagnia di gente finalmente diversa da quella con cui è costretto a passare tutti i suoi giorni, lontano dalle pantofole e dal focolare di casa, dove “se non legge il suo silenzio raggela i familiari”. E il banale vagabondare notturno alla caccia di una ragazza del porto che ha lasciato l’indirizzo sbagliato assume ai suoi occhi i toni epici di un vano inseguimento dell’eterno femminino e subisce la metamorfosi in un religioso pellegrinaggio di Magi sulle tracce di una misteriosa Maria, guidati non dalla luce della cometa, ma dalla fuggevole illusorietà di un fuoco fatuo. Ma le parole hanno un loro potere e l’errabondo cammino “con uno scopo impuro e uno stomaco vuoto”, trasformato nelle tappe di una “via Crucis”, porta comunque alla rivelazione della tolleranza e alla scoperta dell’amicizia e della fratellanza con gente di un’altra razza e di un altro colore. Quanto al resto, forse è meglio così, meglio tenersi le proprie illusioni, perché “i sogni che si realizzano scorrono via come acqua tra le dita”. -
Saga di Ragnarr
In uno storico IX secolo, Ragnarr, le sue due bellissime mogli e i suoi indomiti figli sono i protagonisti di un racconto d’armi e d’amore, di fondazione e distruzione di regni e città, di vendette e saccheggi e di audaci spedizioni che li portano a percorrere per mare e per terra i vasti spazi dai gelidi regni del Nord, all’Inghilterra anglosassone, alla Svizzera, e alla nostra Toscana. Così è la storia, che degli atti umani registra essenzialmente le guerre e le lotte di potere, e così vuole la tradizione di un popolo che ha per eroi i suoi condottieri e per codice d’onore la conquista della gloria, dell’immortalità del proprio nome, che, unico, non muore, quando tutto intorno muore. Ma nel mondo delle saghe storia e leggenda, cronaca e mito, realtà e prodigio si sovrappongono e si fondono. E così, nel corso della narrazione, si può incontrare una fanciulla che vive nascosta in una cetra, un grazioso serpentello che, lasciato su un gruzzolo di denaro, si trasforma in un mostro spaventoso che giace su un cumulo d’oro, una vacca che mette in fuga gli eserciti con il suo terrificante muggito, una città espugnata da una foresta che cammina, una veste magica che rende invulnerabili, un gigantesco uomo-albero, coperto di muschio e rugiada, lasciato a custodire la memoria del passato. E, ancora, indovinelli, profezie, distanze misurate in suole di ferro consumate, in cui riconosciamo le formule delle fiabe. Eppure restiamo sulla terra, non in mezzo a figure ideali divise in buoni e cattivi, premiati e puniti, ma nella sfera in cui l’agire umano non è che l’eterno ripetersi di quella serie di prove e tentativi, di successi e sconfitte, di errori, di amori, di risentimenti, di lealtà e di tradimenti, che è la vita di ogni uomo che si confronta con il proprio destino. -
Saga di Oddr l'Arciere
«Vivrai cento inverni, viaggerai di terra in terra, e ovunque sarai giudicato il più grande, il più valente tra gli uomini.»È con una profezia che si apre la storia di Oddr, «il ragazzo più forte e più bello tra tutti quelli che vivevano in Norvegia, e anche più lontano», fatto per eccellere in tutto, dall'arte alla guerra a quella del comporre versi, dall'esercizio fisico alla conoscenza della storia e delle lingue straniere. Ma Oddr non crede al fato: come si è sempre rifiutato di onorare gli dei parendogli «da miserabili inchinarsi davanti a un pezzo di legno o una pietra», così non vuole saperne di quelle «scempiaggini sul suo futuro». Se è per colpa del cavallo Faxi che dovrebbe morire, meglio eliminarlo subito, e se è lì, dov'è finora vissuto, che dovrebbe essere ucciso, gli basterà partire per sottrarsi al suo destino. Singolare personaggio del mondo nordico, in cui la norma è piuttosto l'adeguamento della volontà individuale a quella del fato e l'affrontare consapevoli e impassibili i suoi dettami è la cifra dell'eroismo. E affascinante proprio per la sua singolarità. Fiero guerriero pronto a sfidare qualsiasi nemico umano o sovrumano che gli permetta di dar prova del suo valore secondo il codice d'onore vichingo, ma anche capace di rinunciare al suo orgoglioso scetticismo per abbracciare la fede cristiana, quando la incontra sul suo cammino. Le sue imprese lo portano a vagare dall'estremo nord della terra dei Lapponi fino in Palestina e ancora all'est, in Ungheria, per finire presso gli Unni, diventandone re. Protetto da una veste magica, aiutato da frecce incantate, Oddr resta però totalmente umano, non solo perché conosce i limiti della sconfitta, ma soprattutto per la sua vulnerabilità al dolore, per la stanchezza e il vuoto che prova con l'avanzare degli anni e la sensazione di deserto che gli lascia la sua troppo lunga vita man mano che vede morire gli amici intorno a sé. E umanissimo è il suo desiderio finale di fermarsi a rivedere i luoghi dell'infanzia, dove lo aspetta la fatale morte annunciata. -
Bambino bruciato
Come gli altri protagonisti dei racconti o dei romanzi di Dagerman, anche quello di ""Bambino bruciato"""" è un ragazzo, ventenne, Bengt, caparbiamente chiuso in un suo mondo 'in crescita', intransigente più verso gli altri che verso se stesso, per natura rivolto alla ricerca e all'affermazione di una purezza, che sente come base inequivocabile di ogni rapporto. Come negli altri racconti anche Bengt è figura speculare dello stesso Stig Dagerman, autobiografica per affinità caratteriali e per molti eventi della vita."" -
Vita dalle lettere
Un'ampia scelta di lettere che fornisce un ritratto inedito della personalità del grande e discusso drammaturgo, permettendo di valutarne l'impegno morale, ma anche l'inevitabile distanza tra gli ideali e i comportamenti, scoprendo meschinità e passioni travolgenti dietro la facciata di un'esistenza senza eventi, che andava tuttavia a sublimarsi in una scrittura rivoluzionaria e tormentata.«Sono uno che scrive lettere povere», confessa Ibsen a Bjørnson il 16 settembre 1864, e più volte insiste su questa sua inadeguatezza con diversi interlocutori per giustificare la sua laconicità, i suoi ritardi, la sua apparente freddezza, i suoi imperdonabili silenzi. Troppo drammaturgo per liberarsi dall'abitudine di «sopprimere la propria personalità», troppo riservato per vincere la sua incapacità «a entrare in relazione stretta e intima con la gente», Ibsen non si sente a suo agio nel rapporto epistolare. Ma forse proprio per questo, proprio perché sfugge al controllo e alla consapevole rielaborazione dell'artista, la sua corrispondenza finisce per mettere più apertamente a nudo l'uomo, rivelandone la profondità dell'impegno morale, la lucidità nella critica alle ipocrisie e ai meccanismi oppressivi della società, la modernità delle concezioni estetiche destinate a lasciare la loro impronta innovativa su tutto il teatro europeo, ma anche le debolezze, gli egoismi, la falsità e meschinità che spesso si nascondono sotto i giudizi taglienti e gli sfoghi polemici. Più, e forse meglio, di quell'autobiografia iniziata e mai portata a termine, le lettere ci rendono perfettamente partecipi dei grandi dibattiti del tempo, ci illuminano sulla genesi dei suoi personaggi e dei suoi drammi, offrendoci al tempo stesso inconsapevoli scorci su quel «campo di battaglia» che è per Ibsen il suo animo, dove convivono, dice, Brand e Peer Gynt. Dal sofferto debutto ai lunghi anni dell'autoesilio, fino alle intense passioni senili per delicate fanciulle che gli danno la breve illusione di afferrare un po' di quella vita che si è lasciato irrimediabilmente sfuggire, emerge nell'epistolario l'irrisolta contraddittorietà di chi, come scrive in una dedica, sa che «Vivere è guerra con i troll dentro il cuore e il cervello». -
Strisce nel cielo
Nel tardo sole pomeridiano di inizio agosto 1944, durante l'ennesimo rito della conta, dei bianchi fili di lana si disegnano all'improvviso nell'azzurro chiaro del cielo sopra Auschwitz: migliaia di occhi si levano a guardare i quasi invisibili puntini di metallo degli aerei alleati che si allontanano. Le bombe cadranno sulla zona industriale intorno, solo una, per sbaglio, sul lager di Birkenau. Perché? Perché hanno colpito le ciminiere delle fabbriche e non quelle dei forni crematori? Perché lo sterminio di milioni di ebrei ha potuto continuare senza che nessuno intervenisse? Perché «si sono dimenticati di noi là fuori, là in alto?» Le disperate domande del sedicenne Durlacher che vede dissolversi nel cielo le «strisce bianche della speranza», sono rimaste inespresse e senza risposta per quarant'anni, murate insieme ai ricordi dei tre anni di internamento, per poter sopravvivere, perché tutto il suo essere non venisse attirato nel buco nero della memoria, in quell'abisso di vuoto che si portava dentro. È stata la lettura, nel 1981, di due libri degli storici Laqueur e Gilbert, la scoperta che il mondo sapeva, che ha fatto crollare quel muro, liberando le immagini, le sensazioni, i suoni sepolti. E da lì il bisogno di interrogare, di raccontare, di scavare negli archivi, di sovrapporre i ricordi ai documenti, le scene viste con le grottesche farse filmate, di recuperare nella scrittura il vissuto, non solo per ricostruire le proprie coordinate, ma anche per cercare, a nome di tutti, la verità. Anche quando, dice Durlacher, la verità non redime e, come per Edipo, è pagata a un prezzo amaro: l'impotente consapevolezza che davanti alle quotidiane atrocità della Storia il mondo non fa che voltarsi discretamente dall'altra parte facendo finta di non vedere. -
Fine van Brooklyn
«Fine van Brooklin» è la storia di una passione, ma raccontata ad anni di distanza, quando le ferite sono rimarginate e il rancore è svanito. Il tempo ha fatto il suo corso e la vita è andata avanti, eppure nasce a un tratto il bisogno di parlarne, di liberarsene, perchè la storia è ancora lì, calcificata nell'anima, come tutti i nostri errori, le nostre delusioni, i nostri dolori, dice Waltari, che avvolgiamo in strati di oblio, per renderli inoffensivi al nostro equilibrio quotidiano. Ed è solo con autoironia che si può parlarne: nel giovane studente nordico che arriva a Parigi con la sua rigida educazione luterana e le timidezze dell'intellettuale inesperto davanti alle tentazioni del vivere, l'autore si diverte a dipingere uno scherzoso autoritratto, con la capacità di prendersi in giro maturata col successo, ma anche con la nostalgia della giovinezza, dei suoi entusiasmi, della sua risibile, ma invidiata ingenuità. Se il senso di libertà goduto a Parigi comincia a mettere in forse la severa condotta dello studioso, sarà a Carnac, dov'è partito per una breve vacanza, che si lascerà perdutamente travolgere dallo scompiglio della passione. Sullo sfondo inquietante e onirico dei monumenti megalitici, l'apparizione della bella Fine van Brooklyn segna il crollo di ogni resistenza, il risveglio dei sensi, la scoperta di pulsioni che lo rendono sconosciuto a se stesso e recalcitrante a ogni ragionevolezza. Volubile e capricciosa, conscia del suo fascino conturbante, l'avvenente ragazza si diverte al gioco della provocazione, indifferente ai sentimenti, sfuggente e inafferrabile come quelle creature seducenti e fatali che popolano le leggende bretoni, dal cui sortilegio ci si può salvare solo con la fuga. Ma ancora anni dopo, sotto la leggerezza di tono dello scrittore arrivato che guarda ironico le sconfitte del passato, trapela l'intensità dell'emozione, la malinconia e il rimpianto, dopo un'esistenza passata sui libri, al riparo delle biblioteche, per quell'unico momento di vita amata e vissuta. -
Il bosco delle volpi impiccate
Anticonformisti per temperamento, libertari per vocazione, marginali per scelta, i personaggi di Paasilinna non sono fatti per la routine, la mediocrità, il grigiore: la società va loro stretta e, volenti o nolenti, finiscono sempre per trasgredirne le regole.rnrn«Se il criminale non finisse ogni tanto in prigione, sarebbe davvero il mestiere ideale»rnrnOiva Juntunen ha scelto di fare il gangster, professione che ben si addice alla sua innata pigrizia, soprattutto quando i colpi riesce a farli realizzare da altri che, evidentemente, dovranno anche scontarne la pena. Felice possessore di quattro lingotti d’oro, clamorosamente sottratti alla Banca di Norvegia con il grande furto del porto di Oslo, Juntunen si gode la dolce vita nel suo lussuoso appartamento di Stoccolma, finché la sua serenità non viene turbata da un’allarmante notizia: i suoi complici verranno presto rilasciati e, assetati di vendetta, verranno a ricercare la loro parte di bottino. Oiva si è troppo affezionato al suo oro per pensare di separarsene e l’idea di spartirlo con simili avanzi di galera gli sembra addirittura immorale. No, meglio nasconderlo nel più profondo della tundra che doverlo dividere. Così, è nella capanna dei boscaioli del monte Kuopsu, vicino all’inquietante Bosco delle Volpi, in uno sperduto angolo della foresta lappone, che casualmente si ritrovano Oiva Juntunen con i suoi lingotti d’oro, Sulo Remes, maggiore alcolizzato in congedo sabbatico, e Naska Mosnikoff, gagliarda ultranovantenne evasa dal ricovero per vecchi. Non è un caso se è sempre la fuga il destino dei protagonisti di Paasilinna e se è sempre nell’immensità della selvaggia natura nordica che trovano spazio le loro esilaranti avventure: è in quella dimensione di libertà totale che le norme della cosiddetta società civile rivelano la loro limitatezza e, in quel paradossale andare contro corrente, la vita sembra ritrovare il sapore che potrebbe avere, se non rinunciassimo quotidianamente a viverla.